12 luglio 2013 Di Gabriele Muccino L’alba dell’uomo e la mia - TopicsExpress



          

12 luglio 2013 Di Gabriele Muccino L’alba dell’uomo e la mia Africa In pochi sanno che una delle esperienze di maggiore definizione della mia vita fu un viaggio che feci nel 1997 in Africa, per la precisione in Kenya, Tanzania e SudAfrica, in compagnia del mio operatore, del fonico e della nostra giornalista, a documentare quella terra che a me era allora sconosciuta e che oggi dopo tanti anni mi è ancora rimasta ancestralmente incollata addosso. Il mestiere del documentarista che se ne sta per giorni, settimane, nascosto come un leone, nell’erba fitta della savana nella speranza di catturare con la macchina da presa ciò che la natura crea e uccide ogni giorno nel suo naturale e fondamentale circolo della vita (ps: in tutto ciò il documentarista che filma il ghepardo è ovviamente ignaro del fatto che il leone possa probabilmente trovarsi a sua volta nascosto alle sue spalle pronto a farne la sua preda), ma tornando alla mia esperienza da documentarista, è stata l’esperienza più profonda, rivelatrice e di definizione esistenziale di tutta la mia vita. Quando sei nel mezzo al nulla, circondato da sconfinati ettari di savana dove la tua vita vale agli occhi di un bufalo o un leopardo o persino di un ippopotamo che se ti incontra mentre ti trovi accidentalmente tra lui e il suo stagno, ti carica e uccide, niente di più di qualunque altro essere vivente che popola il loro mondo. La percezone della tua realtà allora cambia drasticamente. Irreversibilmente forse. Da uomo ti trasformi semplicemente in un altro essere vivente. E liberandoci per un momento di tutti i pesi della nostra tecnologia, delle nostre terrene responsabilità, dei nostri soldi, della nostra roba, dei nostri possessi, cosa c’è di più meraviglioso che apprezzare ogni istante che siamo vivi? La tua vita, nella savana, vale esattamente quanto l’esistenza di una qualunque altra creatura che popola quella infinita, sconfinata magica terra che è ciò che resta oggi della nostra preistoria, del posto da dove proveniamo e che una parte della nostra memoria organica, credetemi, non ha mai dimenticato! Non lo comprenderemo finche’ non ci troveremo lì finalmente soli, senza chiassosi turisti intorno, senza cacciatori vigliacchi e tronfi per aver estratto per sempre la vita dagli occhi di un elefante centrato in piena fronte. L’Africa, anche ciò denominato da noi come “mal d’Africa”, è di fatti proprio questo profondissimo senso di preistoria che inconsapevolmente portiamo con noi come fosse una particella del nostro DNA e di cui siamo inconsapevoli ma senza la quale non saremmo assolutanente ciò che siamo. Ciò che fondamentalmente avvertiamo, una volta che ci troviano sperduti nel mezzo dell’alba dell’uomo, è il semplice, disarmante, avvertire, che in fondo, è così, non siamo niente altro più che carne, ossa e anima. L’esperienza più potente che io abbia mai sperimentato nelle mie viscere, fu quando per caso, scesi dalla Land Rover per fare pipì nei dintorni di un pascolo di bestiame recintato nei dintorni di Nairobi e mi ritrovai di colpo a dieci metri da un branco di leoni acquattati e immobili, pronti evidentemente a sedersi a tavola con quelle mucche che pascolavano alle mie spalle. Gli occhi di quel leone maschio in particolare, mi fissavano con una intensità magnetica e mai provata prima. I suoi occhi erano profondi come le origini della terra e io, di fronte a lui, così vicino e ipnotizzato da quello sguardo, seppi con assoluta lucidita’ che per lui non ero semplicemente nulla più di un animale, al massimo ero un “umano” ma non portavo nè lancia nè fucile. Ero dunque un fragile umano, indifeso e vulnerabile, pari ad un granello della terra rossa e grassa che avevo sotto le scarpe. Ma in confronto alla mucca ero di certo un pasto molto meno nutriente. Questo pensai, tutto in frazioni di secondo. Eppure non fui capace di muovermi di un millimetro. L’attrazione ancestrale, preistorica era troppo forte per scappare. Forse, la verità perversa, è che volevo morire lì, come un’antilope da cui non mi sentivo affatto differente in quel momento. Forse sentivo che la mia ora era giunta e a questo punto volevo diventare cibo, sterco erba e parte del ciclo della vita. Forse perchè il mio istinto in quella frazione di secondo mi disse che non c’era forma di rencarnazione più compelta che l’animismo secondo il quale, solo con la tua morte, contribuirai a dar vita e anima alle altre creature che hanno bisogno di te, di vivere e procreare. Che enorme atto d’amore. Sono certo che tutto cio’ vi sembri folle. E me lo chiedo anche io da quel giorno. Eppure l’idea di morire un giorno sotto l’ombra di un’acacia tortilis africana, circondato dalla meraviglia della creazione, come morirono prima di me miliardi di altri uomini fino a risalire a quelli preistorici, è l’idea più pacificatoria a cui possa pensare. Quando si torna dall’Africa, da un viaggio come quello che io e la mia troupe condividemmo quando avevamo poco meno di trent’anni, è il segreto che sei costretto a portarti dentro perchè nessun altro che abbia vissuto quell’esperienza o abbia vissuto quell’Africa, potrà forse mai capire fino in fondo. L’unica domanda a cui tutti noi dobbiamo cercare di dare una risposta è perchè veniamo così fortemente attratti dal fuoco, da un falò intendo. perchè quel fuoco per milioni di anni ha definito la vita dalla morte, ha tenuto lontano le bestie che ci avrebbero sbranato, ha riscaldato d’inverno i nostri corpi e ha aiutato a restare in vita i nostri neonati. Oggi un falò, così come un tramonto, che segnava allora l’arrivo della notte ovvero il momento della caccia e in cui le tenebre ci avrebbero reso ancora più indifesi, restano per noi elementi magici e ipnotici. Ci suggeriscono ancora oggi cosa accadrà se il fuoco si spegnerà dopo che il sole sara’ tramontato. E ci ricordano del miracolo di essere ancora oggi, vivi. GM
Posted on: Fri, 12 Jul 2013 21:20:51 +0000

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