1861/2011: il Sud dai primati alle questioni Gennaro De - TopicsExpress



          

1861/2011: il Sud dai primati alle questioni Gennaro De crescenzo Prima dell’unificazione italiana il Regno delle Due Sicilie era il regno più grande, popoloso e importante della penisola. La storia spesso è fatta di poche e semplici verità e questa è una di esse. Troppo frequentemente, invece, gli storici si sono soffermati nell’analisi di questo o quel provvedimento o hanno trascurato passaggi che pure sarebbero stati significativi. Si è fatta strada, allora, una ricostruzione storica parziale o troppo severa o troppo superficiale nei confronti del regno borbonico con una metodologia storiografica certamente non del tutto corretta. Per restituire finalmente verità alla storia (obiettivo che dovrebbe essere prioritario per qualsiasi anniversario-celebrazione) occorrono alcuni semplici dati e il tutto con buona pace degli storici “ufficiali” che continuano a sostenere tesi ormai superate da una storiografia sempre più documentata e diffusa o che continuano a citare gli stessi autori o le stesse notizie di 150 anni fa negando, di fatto, il mestiere dello storico. E negazione del mestiere dello storico è anche quella “memoria condivisa” più volte inseguita e invocata e che ci costringerebbe a ignorare o a cancellare nuove verità solo perché “non condivise” da tutti: si tratterebbe, in sostanza, di una forzatura retorica, la stessa che per un secolo e mezzo ha prodotto (com’è ormai universalmente riconosciuto) il fallimento della costruzione di una identità nazionale e che produrrà ancora inevitabili fallimenti con i nuovi sostenitori del “vivalitalia” pieni della stessa retorica e a prescindere dalla verità storica. Non si vede perché, allora, sarebbe “condivisibile” continuare a diffondere falsità storiche come (solo per fare qualche esempio) i famosi giudizi di Gladstone sui Borbone “negazione di Dio” (smentiti dallo stesso Gladstone) (1) o i soliti dati sull’analfabetismo meridionale (raccolti dopo 10 anni dalla chiusura sabauda delle oltre 3500 scuole borboniche diffuse nel Regno) o le ripetitive analisi dei chilometri di ferrovie pre-unitarie (senza tener conto del fatto che lo stato unitario negli anni successivi ne costruì anche meno e dei primati italiani ed esteri dei porti e della flotta mercantile e militare delle Due Sicilie, prima in Italia e tra le prime in Europa). Non si vede perché, poi, dovrebbero essere meno “condivisibili” nuove ricerche come quelle che evidenziano magari la lungimiranza dei Borbone addirittura nella raccolta differenziata dei rifiuti (già nel 1832: altro che “carenze di senso civico”) o nell’assegnazione di pensioni ai pubblici impiegati (già nel 1818) o di assegni di disoccupazione per chi effettivamente non poteva lavorare (nel 1831) (2) o quelle ricerche che evidenziano la crudeltà utilizzata dalle truppe piemontesi autorizzate a “decapitare i briganti per comodità di trasporto”, come rivelano i preziosi (e sconosciuti) documenti conservati presso l’Ufficio Storico dell’Archivio dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano che, da soli, basterebbero ad annullare qualsiasi festeggiamento compiaciuto e tricolorato (3). L’unica strada da seguire, allora, non può che essere quella della verità storica. In questo senso è chiaro che il Regno delle Due Sicilie non era un “paradiso in terra”: era solo una nazione con un suo sviluppo sostanzialmente coerente con i territori e con le aspirazioni e le vocazioni dei suoi popoli. Per correttezza storiografica bisognerebbe leggere la storia in maniera diacronica: leggere, cioè, che cosa avvenne nel 1860 in maniera oggettiva confrontandolo con quanto avvenne negli anni successivi per capire che quello sviluppo (con i suoi limiti e i suoi difetti simili, del resto, a quelli delle altre nazioni di quegli anni) seguiva un “filo rosso” che potrebbe essere ancora prezioso e che era capace di valorizzare “natura, clima, aria e suolo” del Regno, “tendenze, vocazioni e aspirazioni” dei suoi popoli. Quel “filo rosso” fu spezzato rompendo la sostanziale armonia tra governanti e governati e creando danni e conseguenze ancora vive sulla pelle del nostro Sud se è vero che, dopo un secolo e mezzo, siamo ancora qui a parlare di certe questioni e di Sud e Nord. Fino al 1860, dunque, non esisteva una “questione meridionale”. Cosa successe negli anni immediatamente successivi all’arrivo di Garibaldi dalle nostre parti? Quali fattori causarono quella crisi che in pochi anni fece cancellare i primati borbonici sostituendoli con primati tutti negativi dall’occupazione alla corruzione, dalle associazioni malavitose alla mancanza di infrastrutture (e gli esempi attuali potrebbero davvero essere tanti)? Quali i fattori di una crisi così grave che portò all’emigrazione concepita come l’unica soluzione possibile e come il risultato più negativo (ma meno riconosciuto -ed è grave-) del processo di unificazione italiana? Al di là di preconcetti e ideologie, è ancora una volta il caso di tornare ai fatti, a quelle scelte che determinarono il futuro del Mezzogiorno d’Italia. Alcune risposte le troviamo in qualche dato che possiamo utilizzare come esempio significativo. Delle 600 locomotive occorrenti alle linee ferroviarie italiane solo poche decine di esse furono appaltate a Pietrarsa nei pressi di Napoli (la più grande fabbrica metalmecccanica d’Italia). Nel 1861 il governo di Torino bandì le gare per gli appalti dei servizi postali marittimi ma le prestigiose compagnie di navigazione delle Due Sicilie (che già vantavano 17 piroscafi) non ebbero neanche l’invito a concorrere alle aste (vinsero gli armatori liguri e tra essi quel Rubattino che aveva avuto un ruolo importante nella impresa garibaldina). Dagli studi di Nitti rileviamo che tra il 1894 e il 1898 la spesa media per abitante relativa ad opere pubbliche fu per gli abitanti del Centro-Nord di 334 lire a testa, per quelli del Sud di 110 lire. Tra il 1862 e il 1897 lo Stato italiano spese circa 458 milioni nelle bonifiche idrauliche: 267 per l’Italia settentrionale, 188 per quella centrale, meno di 3 per quella meridionale. La crisi delle industrie del Sud fu rapida e inesorabile soprattutto se rapportata alla contemporanea ascesa di quelle settentrionali. Interventi ordinari e straordinari, del resto, anche più recenti, non hanno cambiato la situazione e il divario tra Nord e Sud è sempre più netto e pesante (4). A differenza di quanto sistematicamente sostenuto dalla storiografia ufficiale, il quadro delle industrie, dei relativi occupati nelle Due Sicilie e del settore economico nel complesso risulta quanto mai articolato e interessante e basterebbe consultare semplicemente i documenti conservati in gran parte presso l’Archivio di Stato di Napoli nel fondo “Ministero Agricoltura Industria e Commercio” per rendersene conto. E ce lo dimostrano, ormai, non solo i nostri decennali studi negli archivi ma anche quelli di storici tutt’altro che “neoborbonici” (categoria “facile e superficiale”) come Fenoaltea o Daniele e Malanima nei Quaderni della Banca d’Italia o del CNR... (5). Con una necessaria riflessione sulle colpe di un processo di subordinazione che accompagnò (e accompagna) le nostre classi dirigenti dal 1860 ad oggi (ben più grave di massacri e saccheggi...). LE OPERE PUBBLICHE E L’ETA’ DEI PRIMATI Tra i primati più famosi sono certamente da includere quelli legati ad alcune opere pubbliche realizzate intorno alla metà dell’Ottocento, proprio durante il governo di Ferdinando II. Il 4 ottobre del 1839 fu inaugurata a Napoli la prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici. Pochi ma significativi dati: i 7.900 metri della strada erano stati costruiti in un anno: solo in ottobre l’avevano percorsa 57.779 persone; 28.000 nei primi giorni di novembre. Le tariffe (molto basse) prevedevano “per i primi posti grani 5; per i terzi posti grani 3; bue, vacca, toro grani 6; cavallo o altro animale da tiro grani 3.5; vitello, montone, porco 1.5 grani; grani 12 per ogni cantaia di mercanzia; grani 12 per vettura sopra piattaforma”. Nel 1843 fu inaugurato il tratto Napoli-Caserta prolungato fino a Capua nel 1845; nel 1856 il tratto Nola-Sarno mentre era già stata prolungata la prima linea fino a Castellammare. I progetti di Francesco II non furono portati a termine e le difficoltà attuali di molte linee ferroviarie meridionali confermano le difficoltà incontrate dallo stesso governo borbonico nel miglioramento delle ferrovie e la sua lungimiranza nella valorizzazione dei trasporti marittimi. E c’è ancora chi racconta che quella ferrovia era stata voluta dal re per svago personale. Strettamente legata alla ferrovia era la fabbrica di Pietrarsa, la prima fabbrica metalmeccanica d’Italia con i suoi 1050 operai (l’Ansaldo di Genova ne occupava negli stessi anni 480, la FIAT di Torino non era ancora nata). A Pietrarsa, infatti, venivano costruite anche le locomotive e le rotaie. L’antico stabilimento è attualmente sede di un Museo Ferroviario che conserva anche una ricostruzione della Bayard e dei vagoni della Napoli-Portici. All’indomani dell’unificazione italiana, di fronte alle proteste degli operai disperai per la progressiva mancanza di lavoro, i bersaglieri ferirono e uccisero diverse persone nel cortile dell’antico stabilimento. Nell’aprile del 1832 era stato inaugurato il primo ponte in ferro in Italia sul Garigliano con un modernissimo traliccio metallico sospeso: lo stesso Ferdinando II, il giorno prima dell’inaugurazione, collaudò il “Ponte Ferdinandeo” sostandovi al centro mentre passavano al trotto due squadre di lancieri e sedici traini di artiglieria. Quattro gli anni di lavoro impiegati per 75.000 ducati e 68.857 chili di ferro. Certamente meno famoso un altro primato legato sempre alle opere pubbliche del tempo: la costruzione della prima locomotiva collinare a cura di Giovanni Pattison, capace di superare pendii del 2,5%. Napoletano, inoltre, il primo faro lenticolare costruito in Italia. Napoletano anche il primo telegrafo elettrico portato nel 1852 in tutto il Regno e, grazie ad un nuovissimo cavo sottomarino, fino in Sicilia. Sempre dai Borbone fu voluta la prima illuminazione a gas di una città italiana (nel 1839 e solo dopo Londra e Parigi). E sempre Ferdinando II aveva fatto scavare per la prima volta dei pozzi artesiani. Tra i primati sarebbero da considerare anche i lavori per i famosi e tragicamente attuali Regi Lagni o quelli per l’alveo del Sarno nel maggio del 1858, che disegnarono l’assetto idrogeologico del territorio in maniera adeguata e sicura. Strettamente legato ai trasporti marittimi e alla grande e antica tradizione della nostra cantieristica, un evento che costituì uno dei primati meno conosciuti ma forse più significativi, soprattutto per le prospettive che avrebbe potuto avere: il 16 aprile del 1833 partì da Napoli la “Francesco I”, prima nave da crociera sicuramente per l’Italia e una delle prime al mondo. Preceduta da una campagna pubblicitaria simile a quelle attuali, si imbarcarono nobili, autorità, principi reali, 13 inglesi, 12 francesi, 3 russi, 3 spagnoli, 2 prussiani, 2 bavaresi, 2 olandesi, 1 ungherese, 1 svizzero, 1 svedese, 1 greco (con funzioni che oggi potremmo definire magari di tour operator). In poco più di tre mesi la nave passò per Taormina, Catania, Siracusa, Malta, Corfù, Patrasso, Delfo, Zante, Atene, Smirne e Costantinopoli e tornò a Napoli: il tutto, come per gli attuali crocieristi, con escursioni e visite guidate, balli, tavolini da gioco sul ponte e feste a bordo. E tra mondanità e incontri importanti (il Re di Grecia, il governatore di Malta, i sultani) “il più grande e il più bel piroscafo che si son veduti sinora nel Mediterraneo” rientrò a Napoli a mezzogiorno del 9 agosto 1833. Sempre secondo il parere del cronista citato prima, “riassumendo, la prima crociera turistica che sia stata fatta, data l’epoca in cui ebbe luogo, per le persone che vi presero parte, pel programma-itinerario, per gli svaghi brillanti che l’accompagnarono, malgrado qualche inconveniente, può benissimo far dire: non si fa meglio oggi”. Le prime agenzie turistiche, del resto, a seguito degli scavi di Pompei ed Ercolano, si ebbero proprio nel Regno delle Due Sicilie e Napoli e Parigi erano le città con maggiore affluenza turistica tra Settecento e Ottocento (nel 1838 solo negli alberghi di prima categoria risultavano oltre 8500 nominativi di turisti). Alla stessa tradizione legata al mare si legano alcuni dei primati più famosi: il Regno aveva la prima flotta mercantile e la prima flotta militare d’Italia. A Castellammare era stata costruita la più grande corazzata italiana ad elica (il “Monarca”, 3800 tonnellate). A questo proposito c’è da sottolineare la costituzione della prima compagnia di navigazione a vapore nel 1836 e, sempre nel Mediterraneo, a dimostrazione del fatto che i Borbone avevano già intuito l’importanza degli scambi culturali, economici e commerciali con i paesi di quell’area per il meridione d’Italia. Successivamente Ferdinando II, con un decreto che evidenziava l’incremento dei traffici e la volontà di incrementarli ulteriormente, concesse protezioni ed esenzioni fiscali “a qualunque suddito o estero stabilitosi nel Regno che costruisse nei cantieri del medesimo o vi introducesse dallo straniero un battello a vapore per destinarlo alla marina mercantile”. Nacquero così la compagnia di Vincenzo Florio, quella di De Martino, la Società Calabro-Sicula e, nel 1853, quella Società Sicula Transatlantica del palermitano Salvatore De Pace che con il piroscafo “Sicilia”, primo nel Mediterraneo, iniziò dei viaggi periodici in America in 26 giorni. Uno dei primi decreti di Garibaldi aggregò le navi mercantili e militari delle Due Sicilie alla flotta di Re Vittorio Emanuele. Il primo bacino di carenaggio in muratura, sempre per la stessa politica di valorizzazioe della risorsa-mare, fu inaugurato a Napoli nel 1852 “tra grida fragorose di Viva il Re, agitar di fazzoletti, di cappelli e di sollevate palme, volare in aria e cader sulle onde di un nembo di giubbe, di berretti e di altrettali cose, non senza commozione e lagrime dei riguardanti [...] mentre le bande riunite suonavano l’inno borbonico”. Tra le opere pubbliche e le conquiste sociali, invece, potrebbero essere considerate altre iniziative come la costruzione di orfanatrofi, ospizi, collegi, conservatori e strutture di assistenza e formazione che, per numero e per qualità, costituivano senza dubbio un primato a livello europeo. Tra i più famosi ed efficienti si ricordano senz’altro oltre all’antico Albergo dei Poveri di Napoli, una vera e propria città (1600 stanze) capace di ospitare formandole e avviandole al lavoro in diversi settori oltre 3000 persone, il Real Albergo dei Poveri d Palermo, il Collegio del Carminello a Napoli (addirittura con la possibilità di stage all’estero per le allieve), il Reale Ospizio di san Ferdinando a Salerno, il Real Collegio Tulliano ad Arpino, il Real Orfanatrofio Maria Cristina a Bitonto, il Real Ospizio Francesco I a Giovinazzo, la Real Casa di mendicità a Sulmona, l’Istituto Principi di Napoli (primo esempio al mondo di recupero e formazione professionale dei ciechi), i primi istituti per sordomuti (1835), il Reale Morotrofio di Aversa, primo e moderno ospedale psichiatrico italiano (e a questo proposito c’è da sottolineare anche l’alto grado di scientificità raggiunto dalla psicoterapia nel Regno). 14 gli istituti d’istruzione media superiore, 34 i conservatori complessivamente per ragazzi e ragazze nella sola Napoli. Risultavano anche altri primati molto significativi, come si è detto: la più bassa percentuale di mortalità infantile e la più alta percentuale di medici per abitanti in Italia, percentuali interamente capovolte rispetto al resto della penisola italiana pochi anni dopo l’unificazione. Lungo anche l’elenco dei primati di carattere culturale e scientifico. Tra industria e cultura qualche altro dato: erano 113 le stamperie attive nella sola capitale intorno al 1860; decine i giornali e le riviste scientifiche e culturali anche specialistiche (dal Bullettino Archeologico a quello di geografia, antesignano degli odierni periodici per viaggi e turismo, dall’Annuncio delle Scienze Chimiche e Farmaceutiche, al Propagatore delle scienze naturali, dallo Spettatore legale alla Gazzetta dei Tribunali, dall’Eco delle Industrie a L’industriale fino a L’amico dei Comici e dei Cantanti…); 400 i titoli pubblicati ogni anno (cifra più che considerevole anche per i nostri tempi); un centinaio addirittura i giornali e i giornaletti stampati poco prima della fine del Regno. Non a caso, del resto, considerato il clima nel quale si sviluppavano la cultura e le scienze del tempo, nel 1845 fu organizzato proprio nella capitale del Regno delle Due Sicilie il VII Congresso Internazionale degli Scienziati. Nell’occasione era stato anche inaugurato l’Osservatorio Meteorologico Vesuviano. Molto significativi, infine, alcuni primati nel settore delle industrie e delle produzioni artigianali. Se, come si è detto, la fabbrica metalmeccanica di Pietrarsa era la prima fabbrica metalmeccanica d’Italia, il cantiere di Castellammare era il più grande e moderno (oltre 2000 operai nel 1856). Da primato anche la produzione di carta (con le prime fabbriche motorizzate) e di guanti: fino a 700.000 dozzine di paia ogni anno (100.000 le dozzine prodotte da tutti gli altri stati italiani)… (6). VERSO IL FUTURO Tra i tanti primati del Regno di Ferdinando alcuni rivestono un’importanza particolare perché conservano un’attualità sorprendente. Tra questi, ad esempio, l’alleggerimento progressivo del carico fiscale: come si è già detto, nel Regno non esistevano tasse di successione, sugli atti delle società per azioni e su quegli degli istituti di credito. Un apposito decreto prevedeva (contro la disoccupazione) che una stessa persona non potesse occupare due cariche pubbliche (7). Un decreto di Ferdinando II nel 1844 cercò di tutelare la qualità dell’olio pugliese istituendo una sorta di marchio d.o.c. che aveva come sigillo un cavallo sfrenato (8). Fu organizzata, come si è detto, a Napoli, nel 1833, una delle prime crociere al mondo (la nave era la “Francesco I”) (9). Dimostrazione di sensibilità verso una moderna politica che oggi diremmo di marketing e di valorizzazione delle produzioni locali era l’allestimento di “Solenni Esposizioni”. Per esporre e promuovere le produzioni locali, infatti, erano promosse delle mostre periodiche curate del Reale Istituto di Incoraggiamento. Una delle prime mostre fu organizzata nel 1822 per il giorno onomastico del Re. Dal 1828 le mostre nazionali diventarono biennali alternandosi con una mostra di Belle Arti. Dal 1842 furono organizzate ogni cinque anni lasciando spazio a quelle locali altrettanto utili e dove i premi assegnati da commissioni specializzate alle migliori produzioni divise per settori “ingeneravano un fremito di buon volere ai sensibili miglioramenti”. Queste mostre, grazie ai contatti che in esse si stabilivano, facevano “cessare molte occorrenze in molti comuni che per lo innanzi erano stati tributari di altri luoghi” e costituivano un momento importante di verifica e confronto per i produttori favorendo spesso animati dibattiti scientifici. L’ultima “Solenne Esposizione” fu allestita nel 1853 negli splendidi (e successivamente distrutti) saloni del Palazzo Tarsia a Napoli (10). Ogni provincia del Regno era dotata di un Consiglio Edilizio: una moderna commissione che vigilava sul rispetto delle regole urbanistiche e paesaggistiche già consolidate nei piani paesistici e ambientali più volte ratificati. Pochi esempi: l’obbligo di non costruire abitazioni sul lato panoramico del nuovo Corso Maria Teresa, una sorta di panoramica e funzionale “tangenziale” (ingiustamente chiamato “Corso Vittorio Emanuele” dopo l’unità); le ciclopiche deviazioni del fiume Sarno con i completamenti dei famosi Regi Lagni abbandonati negli ultimi anni e al centro di tragiche vicende ai danni delle popolazioni locali. In poco tempo Ferdinando II fece costruire un tunnel carrozzabile (attualmente riscoperto e noto come “galleria borbonica”) che collegava la chiesa di San Francesco di Paola e il largo della Vittoria: segnali di novità importanti per il tessuto urbanistico di una capitale che iniziava ad utilizzare e a valorizzare l’immenso (e sconosciuto) patrimonio della città sotterranea. A proposito di proiezioni nel futuro, nel 1857 era stata avviata addirittura la costruzione di un giardino d’inverno sul mare presso il Largo della Vittoria: copertura di cristallo, all’interno un circo equestre, un teatro e un’accademia di musica. Una sorta di “cittadella del tempo libero” (11). Da rilevare, inoltre, che risalgono a quest’epoca anche le prime leggi in materia di protezione dei beni culturali. Per disciplinare la manutenzione dei monumenti, un decreto del 16 settembre 1839 “fece obbligo alle autorità preposte di vigilare sulla conservazione dei monumenti e sui restauri perché non si alteri né si deturpi l’antico con lavori moderni”. I privati potevano restaurare le opere d’arte con il permesso del Ministero degli Interni sentito il parere dell’Accademia di Belle Arti. Altri decreti impedivano l’esportazione di opere ed era prevista la presenza di un agente di polizia durante gli scavi archeologici. Nel 1848 (decreto dell’8 maggio) fu riordinato il Real Museo Borbonico con criteri più che moderni. Con lo stesso decreto si sollecitava il rispetto delle antichità e fu nominata una speciale commissione di “dotti e artisti” per il controllo del patrimonio. Da rilevare che nel 1835 Ferdinando riordinò tutti gli archivi del Regno collocandoli in una sede centrale a Napoli, presso il Monastero dei Santi Severino e Sossio e secondo i criteri più moderni dell’archivistica (12). Efficiente e moderno anche il sistema pensionistico, del tutto sconosciuto, come si è visto, nel resto dell’Italia: dopo 20 anni di servizio si aveva diritto ad un terzo dello stipendio, dopo 25 alla metà, dopo 35 ai cinque sesti, dopo 40 all’intero stipendio. Scendendo, poi, nei dettagli della legge, già nel 1818. ad esempio, erano in vigore disposizioni per il “modo di ripartire le pensioni vedovili tra le vedove in seconde nozze ed i figli del di lei defunto marito”. Con il decreto 131 del 4 gennaio 1831, invece (“Regolamento per la Real Commessione di Beneficenza”), si provvedeva addirittura ad un vero e proprio “assegno di disoccupazione per coloro i quali non possono assolutamente con il proprio travaglio sostenere se medesimi e la di loro famiglia” (articolo 1). I sussidi (articolo 4) potevano essere “temporanei o perpetui” (per coloro i quali “per fisico impedimento non potrebbero mai più sostentarsi con il loro travaglio”). Per gli assegni temporanei o “durabili nel tempo”, la Commessione, passato il tempo della prima assegnazione, “deciderà se debba prolungarsi per altro tempo senza che l’oziosità ne venga fomentata”. Le preferenze prevedevano “in primo luogo giovanetti orfani o abbandonati, poi le vedove con figli in tenera età e “vecchi, storpi, ciechi, cronici ed altri simili” fino agli “individui isolati”. La stessa Commissione disponeva di un fondo speciale di riserva “per i soccorsi urgenti” e s avvaleva dell’articolata e diffusa rete delle parrocchie che avevano il compito di raccogliere le “suppliche”. Ai richiedenti insoddisfatti era data anche facoltà di presentare un ricorso (articolo 14). Veramente all’avanguardia, considerata la recente normativa sulla privacy, la discrezione prevista per alcuni casi di dignitosissima povertà: “considerando esservi degl’individui o famiglie di tali condizioni che aborriscono il far manifesta la propria indigenza, la Commessione assumerà a sé il pietoso ufficio di ricercarle e conoscerle in modi occulti e diligenti onde prestar loro il soccorso che meritano con l’obbligo di custodire segretamente quelle notizie” (articolo 8). In materia di immigrazioni, è del 1846 il “Decreto circa la naturalizzazione degli individui nati nel Regno da genitori stranieri” che riprendeva una legge già in vigore nel 1817. Si tratta di una normativa di estrema attualità, innovativa non solo per quell’epoca. “Volendo dare un attestato della nostra benevolenza verso quegli stranieri i quali pe’ loro talenti, pe’ loro mezzi, o per via di contratti vincoli si rendono giovevoli allo Stato, con accordar loro il godimento di quei diritti che dalla naturalizzazione risultano; e volendo per quest’oggetto stabilire una regola certa, secondo la quale il Supremo Consiglio di Cancelleria possa discutere le dimande di naturalizzazione, che da Noi vengono al suo esame rimesse; udito il parere dello Supremo Consiglio di Cancelleria; udito il nostro Consiglio di Stato; abbiamo risoluto di sanzionare, e sanzioniamo la seguente legge”. Secondo gli articoli previsti dal decreto, “potevano essere ammessi al beneficio della naturalizzazione nel nostro Regno delle Due Sicilie gli stranieri che hanno renduto, o che renderanno importanti servizi allo Stato… Quelli che porteranno dentro dello Stato de’ talenti distinti, delle invenzioni, o delle industrie utili…Quelli che abbiano avuta la residenza nel regno per 10 anni consecutivi, e che provino avere onesti mezzi di sussistenza; o che vi abbiano avuto la residenza per 5 anni consecutivi avendo sposato una nazionale…”. La legge concedeva quindi la possibilità del “diritto di nazionalità” anche a chi avesse oltrepassato la maggiore età ed avesse stabilito la residenza in un altro stato -diritto da richiedere in qualsiasi momento- venendo ad abitare nel Regno. Mentre l’attuale legislazione italiana dispone tassativamente che “entro un anno dalla maggiore età” si deve richiedere tale diritto pena la decadenza, le leggi del Regno delle Due Sicilie riconoscevano la possibilità di richiedere tale diritto anche ad un individuo “nato in Regno da straniero, ma non iscritto nei registri dello stato civile, ovvero che inscritto ne’ detti registri abbia oltrepassato la età di anni ventidue”. Di fronte alla recente e tragica vicenda dei rifiuti campani, emerge un dispositivo del 1832 firmato dal prefetto di polizia di Napoli Gennaro Piscopo, che in dodici articoli analizza l’intera situazione igienica prevedendo anche pene detentive per i trasgressori. Tra gli altri obblighi, quello di far “ispazzare la estensione di strada corrispondente ai davanti della rispettiva abitazione, bottega o cortile”. “Le immondezze” dovevano essere prelevate “nelle ore mattutine e trasportate fuori città ne’ siti che verranno destinati”. Particolare attenzione ponevano le autorità al corretto comportamento delle lavandaie che dovevano “recarsi ne’ locali a Santa Maria in Portico, dove per comodo pubblico trovasi tutto ciò che necessita” poiché era “espressamente vietato lavare o spandere panni lungo le strade abitate”. Le norme erano in vigore in tutti i comuni e il bando si sofferma addirittura su quella che oggi chiamiamo raccolta differenziata: “Usando l’avvertenza di ammonticchiarsi le immondezze e di separarne tutt’i frantumi di cristallo o di vetro, riponendoli in un cumulo a parte”… (13). Anche in occasione dei frequenti terremoti che colpirono l’antico Regno delle Due Sicilie, i Borbone dimostrarono buone capacità di governo e operarono scelte utili che ancora oggi si potrebbero definire all’avanguardia. Di fatto si trattava della prima legislazione antisismica in Italia e dei primi provvedimenti in materia di protezione civile. Riportiamo solo qualche esempio. Il 5 febbraio del 1783 una violentissima scossa di terremoto aveva colpito l’intero Sud dell’Italia (30.000 le vittime nella sola Calabria) dopo una crisi sismica durata diverse settimane e che aveva causato voragini, inabissamenti di paesi e colline, deviazioni di fiumi e maremoti. Ferdinando IV avviò un programma di soccorso, assistenza e ricostruzione che rappresenta ancora oggi un modello di efficienza. Le popolazioni furono immediatamente alloggiate in baracche; partì un’opera ciclopica di prosciugamenti, bonifiche, ricostruzioni e costruzioni (case, strade, mulini, forni, magazzini). Furono “rilocalizzati” circa trenta centri urbani che sorgevano in aree a rischio e con nuove norme edilizie che prevedevano un sistema di travi riempite che rendevano antisismiche le costruzioni (le “case baraccate”) come antisismici erano i principi urbanistici (edifici di un piano intelaiati in legno e con muri perimetrali compatti, strade regolari e che si incrociavano ad angolo retto, piazze centrali per i mercati, molti spazi aperti). Per la ricostruzione, poi, fu istituita, una Cassa Sacra che incamerò rendite e beni ecclesiastici calabresi con poteri autonomi e con la possibilità di governare direttamente sul territorio e di eliminare lungaggini e danni della burocrazia. Un altro esempio: il violento terremoto che nel 1851 distrusse la città di Melfi e i paesi vicini. Dichiarata l’emergenza, partirono raccolte pubbliche e private di fondi: ogni amministrazione dello stato fece la sua parte economica e una speciale commissione fu nominata dal Re per coordinare gli interventi. Ferdinando II, seguendo la sua consueta volontà di governare direttamente e in prima persona, per otto giorni si recò a visitare i luoghi del disastro con il figlio Francesco e il Ministro per i Lavori Pubblici, provvedendo personalmente per i casi più disperati. In un anno la ricostruzione era già stata completata. Il 16 dicembre del 1857, poi, un violentissimo terremoto colpì una vasta zona compresa tra il Vallo di Teggiano e la Basilicata. Duemila i morti solo a Polla. Sempre Ferdinando II, superata la fase dell’assistenza, predispose la costruzione di una nuova città (una sorta di avveniristica “new town”) per trasferirvi i sopravvissuti. Si trattava delle famose “comprese” di Battipaglia: delle vere e proprie colonie agricole in territori per i quali già dal 1855 erano stati avviati interventi di bonifica. Si provvide, allora, alla “sistemazione delle acque e dei terreni, dai monti fino ai fondi delle valli e ai litorali e coste marine, ai i rimboschimenti e alle arginature, ai consolidamenti delle frane, allo sviluppo della viabilità e al risanamento igienico del suolo mercé la cultura”. Il luogo prescelto era quello della piana del Sele: davanti al complesso abitativo era prevista una larga piazza con aiuole e lungo i lati altri edifici; per consentire una esposizione ottimale ai raggi del sole le misure dei cortili erano proporzionate a quelle degli stessi edifici; furono realizzati anche una pavimentazione con ciottoli, strade e un canale di irrigazione per il lavaggio del fondo stradale; furono anche costruite cisterne per la raccolta di acqua piovana che, purificata attraverso filtri, veniva resa potabile. Venti, nel complesso, i corpi di fabbrica; ogni abitazione era composta da quattro stanze, due a piano terra e due al primo piano, collegate tra di loro da una scala in legno; muri intermedi univano le “comprese” e formavano dieci cortili che accoglievano anche i servizi igienici e forni per tutta la comunità. Per ogni famiglia, infine, fu prevista l’assegnazione di “5 moggi di terreno di antica misura”. La colonia doveva accogliere 120 famiglie vittime del terremoto: 80 della Basilicata e 40 della Provincia del Principato Citeriore. Dopo l’unificazione italiana cambiarono anche i criteri per l’assegnazione e, come riportato da molte riviste scientifiche del settore, fu abbandonata la legislazione adottata dai Borbone in materia di prevenzione e di assistenza per i terremoti (14). Tutti colpevoli, allora, gli storici, meridionalisti di ieri e di oggi, del Nord come del Sud, che per decenni hanno inseguito questa o quella tesi, questa o quella interpretazione quasi sempre legata ad una subalternità culturale che li portava a criminalizzare o ignorare la storia del Sud pre-unitario dei Borbone fino addirittura a riferire i problemi dello stesso Sud all’epoca medioevale o a epoche quasi preistoriche. Meglio accettare la tesi lombrosiana dei meridionali inferiori magari geneticamente piuttosto che dare le colpe dei problemi meridionali a quella che fu una pura e semplice colonizzazione. Le classi dirigenti meridionali, del resto, non potevano che essere subalterne alle scelte politiche centro-settentrionali per restare classi dirigenti e tramandarsi cariche politiche, cattedre universitarie o ruoli di intellettuali “ufficiali” (si tratta, in fondo, di tre-quattro generazioni che hanno ereditato privilegi o attraverso i cognomi o attraverso le idee). Subito dopo il 1860 furono licenziati gli impiegati delle ferrovie giudicati dalla Polizia del tempo “reazionari” o “borbonici” (15). Ancora agli inizi del Novecento il poeta e scrittore Ferdinando Russo fu processato per “borbonismo” a causa di alcune “macchiette” (canzoni ironiche) che affrontavano il tema-risorgimento in maniera non omologata… (16). Inutile dire, allora, come furono scelti i docenti, i giornalisti o gli stessi politici e che possibilità avevano di affermare la verità storica e rivendicare le proprie ragioni. E i processi di sradicamento, di “disidentificazione” o di cancellazione di memorie, identità e dignità hanno procurato danni ben più devastanti di quelli materiali legati ai saccheggi o ai massacri. Inutile sottolineare la subalternità ancora attuale dei nostri politici e dei nostri intellettuali. Ma qui non si tratta banalmente di salvare le classi dirigenti meridionali e di attribuire ai “piemontesi” le colpe di un secolo e mezzo di problemi irrisolti: si tratta semplicemente di capire perché ci ritroviamo queste classi dirigenti e cosa fare per cambiarle in maniera radicale. E questa è una priorità assoluta rispetto a qualsiasi progetto partitico, pseudosecessionistico o federalistico. Nessuna assoluzione, comunque, per le nostre classi dirigenti: solo la possibilità di ricominciare un nuovo percorso ma partendo dalla memoria storica, dalle radici, dall’identità, dall’orgoglio, dal senso di appartenenza: esattamente quello che in 150 anni la cultura ufficiale (negli istituti culturali universitari come in quelli “di prestigio internazionale”) ha dimenticato o ignorato per esaltare questa o quella storia “altra”, lontana e distante dalla nostra storia e dalla nostra cultura a partire dalle falsità e dalla retorica risorgimentalista che ha invaso in maniera monopolistica libri, aule universitarie, tesi e ricerche, cinema, televisioni e teatri. Dopo 150 anni, del resto, sarebbe quantomeno doveroso riconoscere i fallimenti oggettivi a livello politico come a livello culturale: chi avrebbe dovuto formarle queste classi dirigenti, del resto? E chi le ha formate nella maniera che sappiamo? È doveroso, allora, tentare altre strade. Senza ritorni al passato ma dal passato verso il futuro. Tutti colpevoli gli opinionisti “padani” sempre pronti a bacchettarci per questo e per quello con un complesso di superiorità del tutto immotivato. Tutti colpevoli i “professionisti del meridionalismo” a pagamento, professori del “lo avevamo già detto” (ma dove? Ma quando?) e del “sì, però…” o esperti in celebrazioni con pubblico denaro ma senza mai presentare bilanci almeno culturali, “senza darne conto” (la stessa formula utilizzata da Garibaldi per i prelievi delle sue truppe dai banchi di Napoli e Palermo) (17). Tutti colpevoli di non scrivere, dire o gridare la verità di migliaia di meridionali massacrati, chiamati “briganti” e cancellati dalla storia. Tutti colpevoli per non aver fatto nulla o addirittura (spesso) per avere indicato l’emigrazione come unico rimedio possibile per risolvere «gli atavici problemi del Sud» negli stessi anni. Impegnati in dibattiti sereni e distaccati nell’elaborazione delle loro astratte tesi, lontani dal popolo che avrebbero dovuto rappresentare e sistematicamente contro quello stesso popolo. L’unica strada che possiamo percorrere per “risarcire” i nostri antenati morti o partiti in questo secolo e mezzo è proprio quella della verità storica. Nell’attesa di classi dirigenti finalmente fiere, orgogliose e degne di rappresentare il Sud di domani. NOTE 1) Domenico Razzano, La biografia che Luigi Settembrini scrisse di Ferdinando II, Napoli, Tip. dell’Italia Marinara,1914, pp. 86 e sgg. 2) Collezione delle Leggi e dei Decreti del Regno delle Due Sicilie, Napoli, 1918, 1831, 1832 e cfr. Gennaro De Crescenzo, Ferdinando II di Borbone, Napoli, Editoriale Il Giglio, 2009. 3) Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, Fondo Brigantaggio, Busta 60. 4) Francesco Saverio Nitti, Nord e Sud, vol. II, p. 518 e sempre F. S. Nitti, Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1897, rist. in “Scritti sulla questione meridionale”, Bari, 1958, p.271. 5) Vittorio Daniele, Paolo Malanima, Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004), in “Rivista di Politica Economica”, Marzo-Aprile, UMG, Catanzaro, 2007; Carlo Ciccarelli, Stefano Fenoaltea, Through The Magnifying Glass: Provincial Aspects of Industrial Growth In Post-Unification Italy, in “Quaderni di Storia Economica (Economic History Working Papers)”, Banca d’Italia, Roma, n. 4, July 2010 6) per i primati citati cfr. Gennaro De Crescenzo, Le industrie del Regno di Napoli, Napoli, Grimaldi, 2002 e la bibliografia allegata. 7) Per
Posted on: Wed, 04 Sep 2013 08:40:55 +0000

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