28 ottobre 2013 - ore 10:5m. La forza di Cheney Influente e - TopicsExpress



          

28 ottobre 2013 - ore 10:5m. La forza di Cheney Influente e determinato, ma non il Dart Fener della Casa Bianca La presidenza Bush letta e rivista. A partire dai rapporti col vice C’è un luogo comune, ai limiti della caricatura, che ha deviato qualunque resoconto o tentativo di interpretazione del governo di George W. Bush alla Casa Bianca. Riguarda il rapporto con il vicepresidente, Dick Cheney, quasi universalmente rappresentato come il burattinaio che manovra i fili di un presidente senza vita propria, uno stregone specializzato nell’arte del controllo di menti poco sofisticate. Quello del consigliere manipolatore e del capo manipolato è un topos narrativo universale che genera una strana reazione quando incontra quell’assetto mentale complottista che vede il potere come un’attività che si esercita sempre nella stanza accanto. Muovendo il dorso di un libro nello studio si apre una porta segreta, ed è lì che si prendono davvero le decisioni. Le sale ufficiali sono soltanto sfondi artificiali per le photo opportunity e per i telegiornali. Cheney è, secondo questo schema, l’incarnazione definitiva di un potere opaco, sotterraneo, una forza oscura nascosta dietro le tende o accoccolata in qualche sotterraneo del palazzo, pronta a balzare fuori e uccidere per compiere un disegno incomprensibile ai più. Al vicepresidente non è mai stata attribuita la psicologia del gregario, quanto quella dell’eminenza grigia. A seconda delle versioni giornalistiche, Cheney è un nero Dart Fener con maschera, mantello e spada laser per meglio esportare la democrazia, oppure un più sottile “angler”, una mente leonardesca che si fa strada con metodi subliminali; ma la chiave interpretativa di fondo è la stessa. Va detto che Cheney non ha mai mosso un dito per cancellare l’alone leggendario che l’ha accompagnato. Ha sempre incoraggiato le battute sul suo potere sconfinato alla Casa Bianca: “Cheney non si pente di nessuna delle decisioni che ha preso, e se potesse tornare indietro ordinerebbe a Bush di rifare tutto quello che ha fatto”, scherzava Jimmy Kimmel. Qualche settimana fa, in una cena in suo onore organizzata dal magazine Commentary, vecchi compagni d’amministrazione hanno ritirato fuori le vecchie gag sul waterboarding e sui tempi andati della Casa Bianca, con Cheney al centro della scena assieme al maestro di una vita, Donald Rumsfeld, e Bush nell’eremitico ranch del Texas. Quando il vicepresidente ha pubblicato le sue memorie, soltanto un intervento in extremis della moglie ha evitato che nella sezione fotografica finisse anche un’immagine di lui che indossa la maschera di Dart Fener. Non era civetteria né umorismo, soltanto un certo compiaciuto sollazzo nel flirtare ambiguamente con l’immagine esagerata che il mondo gli aveva attribuito. Peter Baker ha deciso di dare tridimensionalità allo schema altrimenti appiattito sui soliti riflessi condizionati. Il suo “Days of Fire” è una monumentale ricostruzione della presidenza che il cronista del New York Times – ma allora al Washington Post – ha raccontato sul campo. Baker è stato dov’era necessario essere per capire gli anni di Bush. Immerso nelle logiche e nei pettegolezzi della Casa Bianca, naturalmente, ma anche sul campo di battaglia in Afghanistan già nel settembre del 2001 e sui convogli dei marine sulla strada verso Baghdad. Combinando documenti e testimonianze in presa diretta con giudizi che godono del beneficio della distanza, Baker ha scritto “Days of Fire”, lavoro monumentale (ottocento pagine e passa frutto di 275 interviste e centinaia di articoli e volumi consultati, innanzitutto i libri di memorie dei protagonisti) che mette radicalmente in discussione il plot del cowboy governato da un malizioso principe del palazzo. David Frum, che di quella vicenda è stato parte in causa come speechwriter, consigliere presidenziale e poi come narratore ex post, dice che siamo di fronte a una “seconda bozza della storia”. E’ uno stadio intermedio fra la versione giornalistica (la “prima bozza della storia”, secondo la nota definizione di Phil Graham) e quella che compileranno gli storici una volta aperti gli archivi. E Baker, scrittore abbondantemente al di sopra di ogni sospetto di accondiscendenza ideologica verso il suo soggetto, esordisce concedendo il beneficio del dubbio: abbiamo davvero raccontato la storia della presidenza Bush con la necessaria freddezza di giudizio o ci siamo fatti condurre dalle idiosincrasie e dalle pigrizie ideologiche del nostro tempo? La goffa e semplicistica sovrapposizione di Bush e Cheney è il primo artificio che salta: “Anche nella prima parte della presidenza, quando un giovane presidente non ancora testato si affidava ai consigli del suo più esperto numero due, Cheney non era il burattinaio che i critici hanno vagheggiato. Come vicepresidente ha esercitato un’enorme influenza nel primo mandato, per diventare sempre più marginale nel corso del secondo, quando Bush cercava un modo per correggere la sua complicata presidenza”. Certamente Cheney è stato il vicepresidente più influente nella recente storia americana, ma Bush, come dice il suo amico di sempre Joe O’Neill, è sempre stato “his own man”, titolare unico delle decisioni finali, dalla gestione della guerra al terrore al rimpasto di governo del secondo mandato. E’ stato “his own man” quando ha rifiutato l’idea del suo secondo di sfilarsi dal carro dell’Amministrazione e quando, pochi giorni prima di lasciare la Casa Bianca, si è preso la responsabilità di non concedere la grazia presidenziale a Lewis “Scooter” Libby, il capo di gabinetto di Cheney. La vicenda è nota, ma Baker la sviscera con quella meticolosa precisione – a volte persino eccessiva, rischia di ingolfare la lettura – che fa affiorare le complicazioni psicologiche, affettive, prepolitiche del caso. Scooter Libby era al centro di quello che i giornali avevano ribattezzato il “Plame affair”, intricato caso politico e di spionaggio che ha travolto la Casa Bianca di Bush durante le indagini sul programma di Saddam Hussein per produrre armi di distruzione di massa. Libby, fedele servitore di Cheney, era stato accusato di avere rivelato alla stampa l’identità dell’agente segreto della Cia Valerie Plame per vendicarsi del marito, l’ex ambasciatore Joseph Wilson, che era stato mandato dalla Casa Bianca in Niger a indagare sulla famosa partita di uranio yellowcake che doveva essere inviata all’Iraq. Wilson non aveva trovato nulla, si era scontrato con l’Amministrazione e aveva deciso di raccontare la sua spedizione in un articolo sul New York Times. Cheney non l’aveva presa bene, per dir così. Quando il nome di Plame è uscito sui giornali, molti – compresa la magistratura – hanno pensato a una ritorsione politica, una punizione per Wilson che aveva scritto in forma pubblica il suo totale dissenso sulle indagini dell’Amministrazione in Iraq. Per questo Libby è poi finito nelle maglie dell’inchiesta del procuratore più duro d’America, Pat Fitzgerald, il quale sapeva dall’inizio che la fonte originale non era il pretoriano di Cheney, ma Dick Armitage. A Fitzgerald bastava che Libby non sapesse che lui sapeva per inchiodarlo almeno a una falsa testimonianza. Ha detto di avere sentito il nome dell’agente Plame dal giornalista Tim Russert, il quale ha negato la versione di Libby, accompagnato da altri otto testimoni concordi e coerenti. L’uomo del vicepresidente non era la fonte, il leaker, ma poteva essere condannato per falsa testimonianza ed esposto a un rituale della graticola perfettamente codificato, salvo poi ottenere la copertura della grazia presidenziale. Era un fatto di reputazione e lealtà più che una stretta faccenda giuridica. Bush si è consultato con i consiglieri legali, ha cercato di capire perché Libby avesse mentito, quale fosse il calcolo di questo avvocato che era l’ombra del suo vicepresidente. “Per proteggere Cheney”, questa è la spiegazione di Bush. Spiegazione che segue la logica del sacrificio per proteggere il capo, logica marziale imperniata sulla lealtà assoluta. E’ quando Bush si rende conto che forse nessun’altra motivazione, se non quella di difendere Cheney, ha animato Libby che inizia un breve e tormentato ripensamento. Ma ormai la decisione è presa. I “days of fire” sono alle spalle, il rapporto ha già delle crepe evidenti, la popolarità dell’Amministrazione è ai minimi storici: la grazia non viene concessa. Bush non ama dare le cattive notizie. Non ne ha mai comunicata nessuna di persona durante gli otto anni di governo, ha lasciato sempre che se ne occupasse Cheney. Nemmeno al vecchio Rumsfeld è stata concessa la grazia di essere licenziato direttamente dal presidente. Con Cheney, però, c’è una questione d’onore di mezzo e quando a tavola gli comunica il verdetto per la prima volta in otto anni il vicepresidente si permette una reazione sopra le righe: “Stai lasciando un soldato ferito sul campo di battaglia”. La vicenda della grazia di Libby rappresenta, nella versione popolare del racconto, la fine dell’amicizia fra Bush e Cheney. Ma nel mastodontico affresco presidenziale dipinto da Baker, una scena fatta di sfumature e chiaroscuri, si scopre che i due non erano mai stati davvero amici. “Non eravamo ‘buddies’”, spiega lo stesso Cheney. Era un’alleanza perfetta, una grandiosa partnership politica, non un’affinità elettiva. Bush lo chiamava “Dick” ma per il vicepresidente era soltanto “Mr President”. Non si frequentavano fuori dalla Casa Bianca, non andavano a caccia insieme né in vacanza. Le famiglie si incontravano soltanto nelle occasioni formali. Cheney lasciava volentieri ad altri il piacere – che lui non concepiva come tale – di raggiungere il presidente a Camp David nel fine settimana. L’animatrice sociale dell’Amministrazione era piuttosto Condoleezza Rice, che con la sua crescente influenza politica ha fatto infuriare Cheney. Non guardavano le partite di football insieme e non facevano gare a chi leggeva più libri, la specialità di Karl Rove. Non hanno nemmeno seguito le notti elettorali nella stessa stanza: si sono parlati al telefono quando i risultati si stavano chiarendo, per poi ritrovarsi sul palco a dichiarare vittoria. Baker scrosta gli strati leggendari, demistifica, ricostruisce con sguardo freddo l’essenza di un rapporto granitico ma che sarebbe eccessivo ricondurre a una complicità di natura affettiva, cosa improbabile per due uomini così lontani. Uno rampollo di una famiglia blasonata del New England, diventato petroliere in Texas per onorare la tradizione secondo cui ogni generazione deve fare i propri soldi; l’altro di una famiglia modesta con il bernoccolo per la politica cresciuto fra il Nebraska e il Wyoming. Uno ambizioso e ciarliero, persino ribaldo, di quel tipo umano che all’intervistatore che al tramonto del governo gli chiedeva cosa si provava a essere il presidente più impopolare della storia ha detto: “Ma sono stato anche il più popolare”; l’altro meditabondo e schivo, uno che faceva accomodare i suoi sottoposti per i briefing e li lasciava lì, in silenzio, finché non aveva finito di leggere i documenti. Poi passava alle domande. Erano le caratteristiche che erano saltate all’occhio di Rumsfeld molti decenni prima, e che avevano portato Cheney a diventare il più giovane capo di gabinetto della storia americana, durante il grande colpo di mano interno all’Amministrazione Ford che aveva portato il clan di Rumsfeld a occupare i posti strategici della Casa Bianca. Per quanto fosse stato tirato su nell’alveo dell’ortodossia conservatrice da un padre poi diventato presidente, Bush non si è trovato affatto a disagio nell’ambientazione ultraliberal dell’Ivy League. Cheney da Yale è fuggito due volte. Baker fa leva sulle differenze politico-antropologiche per spiegare una particolare illusione ottica che si è impiantata nella memoria collettiva: Bush e Cheney non erano soltanto diversi fra loro ma erano anche diversi da come venivano rappresentati. Il vicepresidente ha avuto storicamente una reputazione di moderato che non inquadrava il suo conservatorismo muscolare e inflessibile, dimostrato con impressionante coerenza al Congresso, al Pentagono e alla Casa Bianca: “Era più a destra di Bush, di Rumsfeld e probabilmente anche di Gengis Khan”. Per Bush era vero il contrario: “Perseguiva gli ideali liberal con mezzi conservatori”, scrive Baker, che nota come, fatta eccezione per la politica fiscale – era pur sempre il figlio di un presidente punito alle urne per aver alzato le tasse – Bush era particolarmente sensibile al tema della povertà, invocava una vigorosa riduzione dell’apparato militare, usava parole che sembravano appannaggio esclusivo della sinistra, da “fairness” a diseguaglianza, non si trovava a suo agio in quella mentalità da Guerra fredda in cui si era formato Cheney. Tutto questo almeno fino al “day of fire”, il giorno che ha cambiato il mondo e ha cambiato anche quel mondo che è la Casa Bianca. Sono state le Torri gemelle rase al suolo a ricordare tragicamente a Bush di essere sì un rampollo con blasone e credenziali, ma anche di essere stato, prima di salire alla Casa Bianca, soltanto il governatore del Texas. E per un mandato soltanto. Cheney era quello che sapeva pilotare la nave, il padrone dei meccanismi del palazzo con rapida capacità di decisione ed esecuzione, accompagnate da quella particolare abilità nell’incutere timore che è coessenziale al potere. Bush lo sapeva perfettamente. Per questo lo aveva voluto come vicepresidente, buttando a mare tutte le controindicazioni possibili, dalla figlia lesbica al cuore che aveva subìto il primo infarto quando aveva 37 anni. Dato che era Cheney stesso il selezionatore dei candidati, nel dubbio disse a Bush che già nei questionari preliminari tutti gli altri vicepresidenziabili mostravano gravi lacune o potenziali complicazioni. Lui rimase l’unico candidato al posto, e il questionario non lo compilò mai. Addirittura il giovane Bush aveva consigliato invano al padre, nel 1989, di scegliere Cheney nel ticket presidenziale e di scartare Dan “you’re no Jack Kennedy” Quayle. Si rifece in prima persona, scegliendo l’unico con cui avrebbe potuto attraversare quei “days of fire” per poi tornarsene nel suo ranch ad attendere in silenzio il giudizio della storia. © - FOGLIO QUOTIDIANO di Mattia Ferraresi.
Posted on: Mon, 28 Oct 2013 17:40:29 +0000

Trending Topics



Recently Viewed Topics




© 2015