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A PROPOSITO DI TABU’ ALIMENTARI: QUANDO UN PAPA VIETO’ DI CUCINARE I CAVALLI Come annunciato, dopo il maiale, la seconda puntata sui tabù alimentari (argomento indotto dalla proposta di legge sui cavalli come animali d’affezione per vietarne la macellazione, ma in realtà per impedire i pali, primo fra tutti il Palio di Siena) riguarda proprio l’ippofagia. In premessa si ricorda da dove “copiamo”: il libro dell’antropologo Marvin Harris intitolato “Buono da mangiare”. Il consumo della carne equina ha conosciuto fortune e divieti alterni, secondo le epoche e le culture. Il punto da cui partire per orientarsi e districarsi fra usanze mutevoli è la constatazione che il cavallo, non ruminando (per questa caratteristica fu escluso in partenza dai cibi ammessi dalla Bibbia), raggiunge soltanto i due terzi dell’efficienza digestiva dei bovini e, pertanto, necessita di molta più erba. Da qui l’allevamento non per scopi alimentari (era più conveniente allevare buoi, capre e pecore), bensì per spostamenti rapidi, tanto più necessari nelle grandi pianure steppose dell’Eurasia dove era avvenuta la doma ad opera di popolazioni nomadi, per il traino di slitte, carri, aratri, per la guerra e le competizioni (corse e tornei) ad essa propedeutiche. L’impiego guerresco, in particolare, fece in modo che il cavallo si nobilitasse e apparisse più “bello da vedere” che “buono da mangiare”. Tuttavia, le stesse popolazioni nomadi che l’avevano domato erano aduse a cibarsene. E’ noto che gli Unni portavano con sé molti cavalli, oltre a quello che montavano abitualmente, perché, in caso di necessità, ne bevevano il sangue, succhiandolo da una delle vene del collo. Per poi uccidere e mangiare quelli ormai troppo indeboliti. L’usanza (ancora presente, secoli dopo, fra le schiere mongole di Gengis Kan) deve aver fatto grande impressione al mondo latino, dove si cucinava l’asino (considerato una prelibatezza), ma non il cavallo. Nei primi secoli del medioevo, in una situazione di grave penuria alimentare e di abbondanza di cavalli selvaggi rispetto ad una popolazione umana rarefatta, il consumo di carne equina si diffuse in varie zone d’Europa. Ma già nell’VIII secolo, la comparsa del sistema feudale, con i vassalli che avevano l’obbligo di prestare servizio militare per il loro signore come cavalieri catafratti, fece tornare in auge l’utilità bellica del cavallo, a detrimento dell’uso a scopo nutritivo. Due fatti ne sarebbero la testimonianza. Nel 732 i Franchi di Carlo Martello fermarono, a Poitiers, l’avanzata islamica in Aquitania. Un ruolo importante, nello scontro vittorioso, lo ebbe di sicuro la cavalleria pesante, in grado di reggere l’urto della cavalleria leggera musulmana. Proprio nello stesso anno, forse percependo l’importanza del cavallo nella lotta per arginare l’islam, il papa Gregorio III, inviò una lettera ai missionari presso le popolazioni germaniche, invitandoli a impiegare ogni mezzo per porre fine all’uso alimentare di carne equina. Sempre nell’ambito del feudalesimo, ma in questo caso sul piano piano economico e produttivo, la rivoluzione agricola del secolo XI fece il resto. Alcune razze equine si rivelarono molto più adatte dei buoi per trainare gli aratri su ruote nei terreni umidi dell’Europa settentrionale, mentre la rotazione triennale assicurava loro la biada necessaria senza ridurre i cereali necessari all’uomo. Macellarle sarebbe stata una fesseria epocale. Pertanto, i cavalli non finirono più né in padella né sulla brace, se non clandestinamente e ad opera degli strati più poveri della popolazione (i numerosi editti che, soprattutto in Francia, reiteravano il divieto testimoniano la persistenza del fenomeno), o nei periodi, peraltro frequenti, di carestia per avversità atmosferiche o eventi bellici. Fra la fine del secolo XVIII e l’inizio del XIX si ebbe un’inversione di tendenza. Durante la rivoluzione francese, in particolare nel periodo del Terrore, mentre le teste dei nobili (e non solo) caddero sotto la ghigliottina, i loro cavalli (numerosissimi su tutto il suolo francese) finirono nelle pentole delle tricoteuses. D’altra parte, vari uomini di scienza si fecero portatori della liberalizzazione dell’uso della carne equina, sottolineandone i vantaggi per la salute, constatati dal barone Dominique Jean Larrey, comandante della sanità dell’esercito napoleonico e inventore dell’ambulanza. Nel 1807 avvenne la battaglia di Eylau, nella regione russa di Kalinigrad. Vinsero i francesi. Persero i russi. Ma fu un macello di uomini e cavalli. Ebbene, Larrey si accorse che i feriti che si erano cibati di carne equina (abbondante e bel conservata dal clima rigidissimo) erano tornati in forze prima degli altri. Da allora, nell’Europa continentale, l’intensità della pratica di mangiare i cavalli dipese prevalentemente dalla convenienza economica e dalla necessità, non più da divieti espliciti. Convenienza e necessità che spiega, per contrasto, anche la repulsione, come quella anglosassone. In età moderna, seppure per motivi differenti, né in Inghilterra né negli Stati Uniti si determinò il bisogno di consumare carne equina perché abbondava (grazie all’allevamento, all’importazione, alla caccia) quella di altri animali. (Prossima putata: la vacca sacra) wp.me/p2UAnj-gS
Posted on: Thu, 14 Nov 2013 08:30:01 +0000

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