ALTRA storia del nostro SUD 1861/2011: il Sud dai primati - TopicsExpress



          

ALTRA storia del nostro SUD 1861/2011: il Sud dai primati alle questioni Gennaro De crescenzo Prima dell’unificazione italiana il Regno delle Due Sicilie era il regno più grande, popoloso e importante della penisola. La storia spesso è fatta di poche e semplici verità e questa è una di esse. Troppo frequentemente, invece, gli storici si sono soffermati nell’analisi di questo o quel provvedimento o hanno trascurato passaggi che pure sarebbero stati significativi. Si è fatta strada, allora, una ricostruzione storica parziale o troppo severa o troppo superficiale nei confronti del regno borbonico con una metodologia storiografica certamente non del tutto corretta. Per restituire finalmente verità alla storia (obiettivo che dovrebbe essere prioritario per qualsiasi anniversario-celebrazione) occorrono alcuni semplici dati e il tutto con buona pace degli storici “ufficiali” che continuano a sostenere tesi ormai superate da una storiografia sempre più documentata e diffusa o che continuano a citare gli stessi autori o le stesse notizie di 150 anni fa negando, di fatto, il mestiere dello storico. E negazione del mestiere dello storico è anche quella “memoria condivisa” più volte inseguita e invocata e che ci costringerebbe a ignorare o a cancellare nuove verità solo perché “non condivise” da tutti: si tratterebbe, in sostanza, di una forzatura retorica, la stessa che per un secolo e mezzo ha prodotto (com’è ormai universalmente riconosciuto) il fallimento della costruzione di una identità nazionale e che produrrà ancora inevitabili fallimenti con i nuovi sostenitori del “vivalitalia” pieni della stessa retorica e a prescindere dalla verità storica. Non si vede perché, allora, sarebbe “condivisibile” continuare a diffondere falsità storiche come (solo per fare qualche esempio) i famosi giudizi di Gladstone sui Borbone “negazione di Dio” (smentiti dallo stesso Gladstone) (1) o i soliti dati sull’analfabetismo meridionale (raccolti dopo 10 anni dalla chiusura sabauda delle oltre 3500 scuole borboniche diffuse nel Regno) o le ripetitive analisi dei chilometri di ferrovie pre-unitarie (senza tener conto del fatto che lo stato unitario negli anni successivi ne costruì anche meno e dei primati italiani ed esteri dei porti e della flotta mercantile e militare delle Due Sicilie, prima in Italia e tra le prime in Europa). Non si vede perché, poi, dovrebbero essere meno “condivisibili” nuove ricerche come quelle che evidenziano magari la lungimiranza dei Borbone addirittura nella raccolta differenziata dei rifiuti (già nel 1832: altro che “carenze di senso civico”) o nell’assegnazione di pensioni ai pubblici impiegati (già nel 1818) o di assegni di disoccupazione per chi effettivamente non poteva lavorare (nel 1831) (2) o quelle ricerche che evidenziano la crudeltà utilizzata dalle truppe piemontesi autorizzate a “decapitare i briganti per comodità di trasporto”, come rivelano i preziosi (e sconosciuti) documenti conservati presso l’Ufficio Storico dell’Archivio dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano che, da soli, basterebbero ad annullare qualsiasi festeggiamento compiaciuto e tricolorato (3). L’unica strada da seguire, allora, non può che essere quella della verità storica. In questo senso è chiaro che il Regno delle Due Sicilie non era un “paradiso in terra”: era solo una nazione con un suo sviluppo sostanzialmente coerente con i territori e con le aspirazioni e le vocazioni dei suoi popoli. Per correttezza storiografica bisognerebbe leggere la storia in maniera diacronica: leggere, cioè, che cosa avvenne nel 1860 in maniera oggettiva confrontandolo con quanto avvenne negli anni successivi per capire che quello sviluppo (con i suoi limiti e i suoi difetti simili, del resto, a quelli delle altre nazioni di quegli anni) seguiva un “filo rosso” che potrebbe essere ancora prezioso e che era capace di valorizzare “natura, clima, aria e suolo” del Regno, “tendenze, vocazioni e aspirazioni” dei suoi popoli. Quel “filo rosso” fu spezzato rompendo la sostanziale armonia tra governanti e governati e creando danni e conseguenze ancora vive sulla pelle del nostro Sud se è vero che, dopo un secolo e mezzo, siamo ancora qui a parlare di certe questioni e di Sud e Nord. Fino al 1860, dunque, non esisteva una “questione meridionale”. Cosa successe negli anni immediatamente successivi all’arrivo di Garibaldi dalle nostre parti? Quali fattori causarono quella crisi che in pochi anni fece cancellare i primati borbonici sostituendoli con primati tutti negativi dall’occupazione alla corruzione, dalle associazioni malavitose alla mancanza di infrastrutture (e gli esempi attuali potrebbero davvero essere tanti)? Quali i fattori di una crisi così grave che portò all’emigrazione concepita come l’unica soluzione possibile e come il risultato più negativo (ma meno riconosciuto -ed è grave-) del processo di unificazione italiana? Al di là di preconcetti e ideologie, è ancora una volta il caso di tornare ai fatti, a quelle scelte che determinarono il futuro del Mezzogiorno d’Italia. Alcune risposte le troviamo in qualche dato che possiamo utilizzare come esempio significativo. Delle 600 locomotive occorrenti alle linee ferroviarie italiane solo poche decine di esse furono appaltate a Pietrarsa nei pressi di Napoli (la più grande fabbrica metalmecccanica d’Italia). Nel 1861 il governo di Torino bandì le gare per gli appalti dei servizi postali marittimi ma le prestigiose compagnie di navigazione delle Due Sicilie (che già vantavano 17 piroscafi) non ebbero neanche l’invito a concorrere alle aste (vinsero gli armatori liguri e tra essi quel Rubattino che aveva avuto un ruolo importante nella impresa garibaldina). Dagli studi di Nitti rileviamo che tra il 1894 e il 1898 la spesa media per abitante relativa ad opere pubbliche fu per gli abitanti del Centro-Nord di 334 lire a testa, per quelli del Sud di 110 lire. Tra il 1862 e il 1897 lo Stato italiano spese circa 458 milioni nelle bonifiche idrauliche: 267 per l’Italia settentrionale, 188 per quella centrale, meno di 3 per quella meridionale. La crisi delle industrie del Sud fu rapida e inesorabile soprattutto se rapportata alla contemporanea ascesa di quelle settentrionali. Interventi ordinari e straordinari, del resto, anche più recenti, non hanno cambiato la situazione e il divario tra Nord e Sud è sempre più netto e pesante (4). A differenza di quanto sistematicamente sostenuto dalla storiografia ufficiale, il quadro delle industrie, dei relativi occupati nelle Due Sicilie e del settore economico nel complesso risulta quanto mai articolato e interessante e basterebbe consultare semplicemente i documenti conservati in gran parte presso l’Archivio di Stato di Napoli nel fondo “Ministero Agricoltura Industria e Commercio” per rendersene conto. E ce lo dimostrano, ormai, non solo i nostri decennali studi negli archivi ma anche quelli di storici tutt’altro che “neoborbonici” (categoria “facile e superficiale”) come Fenoaltea o Daniele e Malanima nei Quaderni della Banca d’Italia o del CNR... (5). Con una necessaria riflessione sulle colpe di un processo di subordinazione che accompagnò (e accompagna) le nostre classi dirigenti dal 1860 ad oggi (ben più grave di massacri e saccheggi...). LE OPERE PUBBLICHE E L’ETA’ DEI PRIMATI Tra i primati più famosi sono certamente da includere quelli legati ad alcune opere pubbliche realizzate intorno alla metà dell’Ottocento, proprio durante il governo di Ferdinando II. Il 4 ottobre del 1839 fu inaugurata a Napoli la prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici. Pochi ma significativi dati: i 7.900 metri della strada erano stati costruiti in un anno: solo in ottobre l’avevano percorsa 57.779 persone; 28.000 nei primi giorni di novembre. Le tariffe (molto basse) prevedevano “per i primi posti grani 5; per i terzi posti grani 3; bue, vacca, toro grani 6; cavallo o altro animale da tiro grani 3.5; vitello, montone, porco 1.5 grani; grani 12 per ogni cantaia di mercanzia; grani 12 per vettura sopra piattaforma”. Nel 1843 fu inaugurato il tratto Napoli-Caserta prolungato fino a Capua nel 1845; nel 1856 il tratto Nola-Sarno mentre era già stata prolungata la prima linea fino a Castellammare. I progetti di Francesco II non furono portati a termine e le difficoltà attuali di molte linee ferroviarie meridionali confermano le difficoltà incontrate dallo stesso governo borbonico nel miglioramento delle ferrovie e la sua lungimiranza nella valorizzazione dei trasporti marittimi. E c’è ancora chi racconta che quella ferrovia era stata voluta dal re per svago personale. Strettamente legata alla ferrovia era la fabbrica di Pietrarsa, la prima fabbrica metalmeccanica d’Italia con i suoi 1050 operai (l’Ansaldo di Genova ne occupava negli stessi anni 480, la FIAT di Torino non era ancora nata). A Pietrarsa, infatti, venivano costruite anche le locomotive e le rotaie. L’antico stabilimento è attualmente sede di un Museo Ferroviario che conserva anche una ricostruzione della Bayard e dei vagoni della Napoli-Portici. All’indomani dell’unificazione italiana, di fronte alle proteste degli operai disperai per la progressiva mancanza di lavoro, i bersaglieri ferirono e uccisero diverse persone nel cortile dell’antico stabilimento. Nell’aprile del 1832 era stato inaugurato il primo ponte in ferro in Italia sul Garigliano con un modernissimo traliccio metallico sospeso: lo stesso Ferdinando II, il giorno prima dell’inaugurazione, collaudò il “Ponte Ferdinandeo” sostandovi al centro mentre passavano al trotto due squadre di lancieri e sedici traini di artiglieria. Quattro gli anni di lavoro impiegati per 75.000 ducati e 68.857 chili di ferro. Certamente meno famoso un altro primato legato sempre alle opere pubbliche del tempo: la costruzione della prima locomotiva collinare a cura di Giovanni Pattison, capace di superare pendii del 2,5%. Napoletano, inoltre, il primo faro lenticolare costruito in Italia. Napoletano anche il primo telegrafo elettrico portato nel 1852 in tutto il Regno e, grazie ad un nuovissimo cavo sottomarino, fino in Sicilia
Posted on: Sun, 01 Sep 2013 07:41:15 +0000

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