Befera vuole da voi altri 545 miliardi... Maurizio Blondet, 24 - TopicsExpress



          

Befera vuole da voi altri 545 miliardi... Maurizio Blondet, 24 Giugno 2013 Sì, avete letto bene: non milioni, ma miliardi di euro. Il fisco pretende 545 miliardi di euro (ossia un quarto del mostruoso debito pubblico) dagli italiani. Anch’io non credevo alle mie orecchie quando l’ho sentito nella rassegna stampa radiofonica, per cui mi sono risolto (con urti di nausea) a comprare la copia del Corriere della Sera di domenica 23 giugno, dove un giornalista in ginocchio intervista Attilio Befera. L’intervista dimostra – non esito a dirlo – la demenzialità della «cultura» che si respira in Equitalia. Cito letteralmente dall’articolo, firmato Mario Sensini, il quale non obietta nulla, ma si limita a riferire questa frase di Befera: «...bisognerà scoprire nuovi evasori, perché la riscossione dei tributi accertati, per volontà politica, ha perso buona parte del mordente che aveva guadagnato. Con il risultato che Equitalia si trova oggi in pancia una mole spaventosa di somme da riscuotere. Cifre da iperbole siderale: 545 miliardi di euro [...] Un buco potenziale enorme per i titolari di quei crediti (enti locali, Stato, istituti previdenziali) che non riescono ad incassare – i più vecchi dei quali risalgono all’anno 2000. Un problema molto serio che bisogna assolutamente affrontare, dice Befera». 545 miliardi, come dice Sensini, sono «venti Finanziarie importanti, un quarto del prodotto interno lordo, un quinto del debito pubblico». Cifre che, secondo Befera, lo Stato «deve riscuotere» da noi. Il giornalista Sensini, sempre inginocchiato, evita di chiedere come mai Equitalia non è capace di riscuotere quelle cifre enormi «accertate»; si contenta della scusa di Befera, che dà la colpa ai politici, i quali avrebbero «fatto perder mordente alla riscossione»: sappiamo infatti che la politica ha impedito ad Equitalia, da poco, di sequestrare le prime case, bloccare i conti correnti e le carte di credito, arraffare pensioni dai depositi bancari, pignorare automezzi da lavoro e macchinari per debiti fiscali sotto i 20 mila euro. Prima, col «mordente» del terrorismo fiscale a pieno regime, Equitalia faceva meraviglie? Non tanto, se i più vecchi «crediti che non riesce a incassare» risalgono al 2000. Quindi da 12 anni, anche quando poteva esercitare il più arbitrario dispotismo, pignorare stipendi e pensioni senza preavviso, ipotecare immobili e bloccarci carte di credito, l’ente che Befera guida non è riuscito ad ottenere la riscossione. Un ente esattoriale feroce e nello stesso tempo inefficiente, diciamolo pure: incapace. Che ha bisogno della del prelievo arbitrario e terroristico e della crudeltà per compensare, o nascondere, la sua incapacità. Ma c’è ovviamente un’altra domanda che Sensini-ginocchioni non fa. L’intera ricchezza patrimoniale della famiglie italiane si valuta in 9.000 miliardi, cifra peraltro teorica essendo in gran parte costituita dai beni immobili (e prime case), oggi non liquidi perché non vendibili, e il cui valore di mercato è stato ridotto da Monti e dal credit crunch di almeno il 20%. È quel patrimonio fatto di risparmi, che gli italiani stanno consumando per sopravvivere nella crisi, mantenere i figli disoccupati, pagare le patrimoniali tipo IMU e i rincari, campare nella perdita del posto di lavoro di uno o più membri della famiglia. Ora, Befera ci dice che di quel patrimonio, il fisco ne pretende una bella fetta. Che se potesse fare come vuole lui (se la «volontà politica» non gli avesse fatto perdere il mordente) ci porterebbe via circa il 6% di quel che abbiamo collettivamente risparmiato come popolo, nei decenni scorsi, e con cui tanti di noi (che non essendo pubblici dipendenti strapagati col posto sicuro, sono sul lastrico) sopravvivono momentaneamente; e tutto d’un colpo, dato che si tratta di «tributi accertati da riscuotere». Non capisco. E tutti i tributi che già abbiamo pagato? Quel 43-52% dei nostri guadagni che il pubblico potere ci preleva direttamente e indirettamente, non basta: ne dobbiamo ancora 545 miliardi, quasi 10 mila euro a testa, lattanti e suore di clausura compresi. Ma anzitutto: qui non si tratta di evasori, di cui Befera annuncia una caccia nuova e sempre più spietata. Qui si tratta di contribuenti che hanno avuto l’accertamento, a da cui Equitalia non riesce a riscuotere. Come mai? Non lo chiede il giornalista Slinguazza, né tantomeno se lo chiede Befera. Le risposte possono essere varie. La più sofisticata (molto al disopra delle possibilità mentali di Befera, temiamo) è che la torchia fiscale è così eccessiva da aver fatto scattare la curva di Laffer: ossia il punto in cui aumentare ancora le tasse fa diminuire il gettito, invece di accrescerlo, perché il livello di tassazione ha effetti depressivi-distruttivi sulla base imponibile. È il risultato del rifiuto, da parte delle consorterie politiche e i loro complici burocratici, di risanare i conti tagliando la spesa pubblica, ossia il proprio grasso che cola; hanno preferito «pareggiare» il deficit con aumenti di tasse, fino al punto – raggiunta la curva di Laffer – da guastare il meccanismo stesso della pressa fiscale, la loro sola arma. Già a marzo s’è notata una flessione del gettito tributario: 26.043 miliardi di euro, mentre erano stati 26.237 nel marzo dell’anno prima. Un calo di «soli» 180 milioni, ma indice certo del fatto che aumentare la pressione non serve più, anzi ha l’effetto contrario, per la diminuzione dei redditi prodotti e la riduzione dei consumi portata dalla fiscalità mostruosa, in aggiunta alla recessione. La tendenza continuerà, e Befera non ci può far niente. Più si farà dare «mordente» e mezzi repressivi, meno otterrà. Riuscirà solo ad accelerare il collasso economico nazionale, la sola cosa in cui è bravissimo. L’altra risposta possibile, non escludente la prima, è che quei 545 miliardi accertati non possono essere riscossi, perché la massa dei contribuenti non è in grado di pagarli, semplicemente non li ha. Detto in altro modo, «la mole spaventosa di somme da riscuotere nella pancia di Equitalia» esiste solo nella fantasia persecutoria di Equitalia. O, se si vuole, sono accertamenti del tutto irrealistici. Fatti alla carlona, corrispondenti alla fame insaziabile del sistema pubblico di corruzione, parassitismo e inadempienza, ma non alla capacità contributiva dei contribuenti. E difatti, per la Corte dei Conti, è proprio questo il caso. Cito da ADNB Kronos: ADNK. 2013-06-22. Fisco, Corte dei Conti: «In 12 anni emessi ruoli per 596,1 mld, incassato solo l’11,6%». Sembra proprio la cifra del mostruoso arretrato non riscosso di cui parla Befera, di cui le cifre più vecchie risalgono al 2000. In succo (1), l’articolo dice che secondo la magistratura contabile, negli ultimi tre anni la capacità di riscossione dell’ente di esazione è addirittura peggiorata: ormai nel 2012 ha potuto riscuotere solo l’1,9% del carico netto dei ruoli iscritti nello stesso anno». Nemmeno il 2% delle somme a ruolo: vuol dire che le somme iscritte ruolo sono arbitrarie, di fantasia? Ebbene sì, dice la Corte: si tratta di crediti eterogenei per natura e fondatezza, non poche volte viziati da procedure accertative approssimative». Procedure d’accertamento approssimative. Pretese non sempre fondate da parte dello Stato, degli enti locali e degli enti previdenziali. Cifre accertate che quando vengono contestate dal contribuente, Equitalia non riesce a difendere la sua pretesa in giudizio: in altre parole, goffi tentativi di estorsione da parte del potere esattivo pubblico, che vanno a finir male. E ciò, nel 90, e da ultimo nel 98% dei casi. Quelli di Equitalia, riscotendo l’1.9% cento di quel che promettono alle avide bocche dai parassiti pubblici, in realtà non riescono ricavare di che pagare nemmeno i loro (lauti) stipendioni: sono una macchina costosissima, che dà risultati scandalosamente microscopici. Un giornale serio come si crede il Corriere, non dovrebbe fare interviste in ginocchio a Befera, consentirgli di giustificare i suoi fallimenti con la scusa che «non ha i mezzi repressivi», e che ora gli occorrono gli accessi ai nostri conti correnti ed ai movimenti; dovrebbe invocarne ad alta voce il licenziamento in tronco, per manifesta e costosa inutilità. 1) Non vogliamo privare il lettore dell’integrale della ADN Kronos, da cui potrà apprezzare tutta la misura del disastro di inettitudine che è la gestione di Equitalia: Fisco, Corte dei Conti: «In 12 anni emessi ruoli per 596,1 mld, incassato solo l’11,6%». L’attività di riscossione si è fermata a quota 69 miliardi circa. Crollo dal 2010 a causa della crisi, nel 2012 fermi all’1,9%. Roma, 22 giu. (Adnkronos) - Negli ultimi 12 anni l’amministrazione è riuscita a incassare solo l’11,6% dei ruoli emessi. Su un totale di 596 miliardi di euro da recuperare l’attività di riscossione si è infatti fermata a quota 69 miliardi circa. Negli ultimi tre anni si é registrata una battuta d’arresto, che nel 2012 ha portato a riscuotere solo l’1,9% del carico netto dei ruoli iscritti nello stesso anno. I dati sono contenuti nel rapporto 2013 della Corte dei conti (fonte Equitalia), sul coordinamento della finanza pubblica. Secondo le tabelle, elaborate dall’Adnkronos, nei primi 5 anni il carico netto dei ruoli da riscuotere é arrivato a 353,9 mld, ma solo il 4,9% è stato incassato. Il carico accumulato dal 2000 al 2005 non é stato smaltito negli anni seguenti, anzi è cresciuto arrivando a un terzo del pil. La riscossione, infatti, non ha mai superato la soglia del 3,1% dei ruoli emessi durante l’anno, mentre considerando il carico accumulato, il tetto degli incassi scende all’1,5%. Considerando l’attività svolta nel tempo, per cercare di recuperare le somme degli anni precedenti, emerge che dei 39,5 miliardi di ruoli emessi tra il 2000 e il 2005 solo il 20,7% è stato recuperato in 12 anni di attività. I numeri delle somme iscritte a ruolo dimostrano, inoltre, che c’è stata una crescita vertiginosa, negli ultimi anni: nel 2012 sono arrivate a quota 77 mld, cioè sono state quasi il doppio del totale 2000-2005. Nel consuntivo 2012, osserva la magistratura contabile, l’andamento della riscossione ’’segnala un preoccupante indebolimento. Il volume della riscossione a mezzo ruoli, fra il 2006 e il 2010, era cresciuto quasi del 77 per cento, nel 2011 ha registrato una flessione del 3%, che lo scorso anno é arrivata al 13%. I risultati concreti dell’attività di riscossione, in sostanza, ’’sono risultati cedenti rispetto alla crescente massa dei ruoli trasmessa dagli enti creditori’’, osserva la Corte dei conti. Le cause del mancato successo, sul fronte della riscossione, variano a seconda della natura dei crediti da riscuotere , e riflettono l’operare di diversi fattori. Le riscossioni comprendono vari fenomeni: forme di riscossione spontanea; iscrizioni a ruolo espressione non di vera evasione ma, piu’ semplicemente, di errori da parte dei contribuenti; crediti delle pubbliche amministrazioni in molti casi estranei all’obbligazione tributaria e, proprio per questo, esposti a forti criticità. I ruoli dell’amministrazione finanziaria centrale (Agenzie entrate e dogane), ricorda la magistratura contabile, ’’storicamente hanno rappresentato circa il 50 per cento del totale, mentre la restante metà si distribuiva fra enti previdenziali ed enti locali’’. Un equilibrio che, tuttavia, si spezza nel 2012, ’’soprattutto a causa della forte caduta dei ruoli contributivi (-27 per cento) e di quelli riconducibili agli enti territoriali (-10 per cento); ciò che spiega in larga parte la caduta del volume complessivo delle riscossioni. Tra i fattori che sono all’origine dell’indebolimento dell’attività di riscossione, ’’un ruolo significativo l’ha certo avuto il peggioramento del quadro economico’’, sottolinea la Corte dei conti. Mentre effetti non meno rilevanti sono stati prodotti dal susseguirsi di novità normative, che ’’hanno finito per indebolire oggettivamente l’azione di riscossione coattiva dei tributi’’. In particolare la magistratura contabile cita le disposizioni che hanno limitato l’iscrizione di ipoteca sugli immobili, le possibilità di espropriazione immobiliare e la pignorabilità di stipendi e salari. Novità che, probabilmente, ’’sottovalutano il fatto che la posizione creditoria dello Stato é ormai divenuta per molti versi deteriore rispetto alle possibilità di tutela che la legge riconosce al creditore privato munito di titolo esecutivo’’. Il quadro operativo che ne è scaturito, si osserva nel rapporto, ’’appare particolarmente complesso e delicato’’. ’’Non si può non condividere la preoccupazione, tuttora attuale, di evitare ulteriori difficoltà a coloro che si trovano a fronteggiare una crisi economica particolarmente grave’, osserva la Corte dei conti. Ma va tenuto anche presente che ’’un efficiente sistema di riscossione coattiva dei crediti pubblici costituisce una imprescindibile necessità per il corretto funzionamento di un sistema fiscale incentrato sull’adempimento spontaneo’’. Le tensioni che tuttora caratterizzano l’azione della società pubblica di riscossione, e che ’’rischiano di trasformarla in un ente la cui missione sembra essere essenzialmente quella di concedere dilazioni di pagamento, mettono in luce i limiti di un disegno teorico’’ che ha portato alla nascita di Equitalia. Sotto un unico soggetto, infatti, sono confluiti ’’crediti eterogenei per natura e fondatezza, non poche volte viziati da procedure accertative approssimative. A tale proposito la Corte dei conti ricorda le ’’numerosissime iscrizioni a ruolo, derivanti da violazioni al codice della strada effettuate in passato dagli enti locali’. Un vecchio articolo di Maurizio Blondet (marzo 2012): Ve l’avevamo detto.... Un piccolissimo imprenditore si dà fuoco davanti a una sede dell’Agenzia delle Entrate. Una cinquantina di piccoli imprenditori si sono già tolti la vita, schiacciati dalla triplice ganascia delle banche che non fanno credito, della recessione, dei clienti (o dello Stato) che non pagano, e dell’esazione fiscale. «Contiamo di fare ancor meglio nel 2012», dichiara Attilio Befera, il capitesta di Equitalia (450 mila euro annui), nel comunicare i trionfi della sua torchia: 12,7 miliardi di euro incassati l’anno scorso, con un aumento del 15,5% rispetto all’anno prima. Sono anni che gli intriti tributari aumentano del 10-15% annuo – senza che l’economia aumenti affatto. Significa che si taglia nella carne di un Paese che la torchia immiserisce e devasta. Ma, dice Befera, «L’Agenzia è complessivamente cresciuta in tutti i settori... Un risultato raggiunto grazie alla professionalità dei nostri dipendenti e alle strategie adottate che hanno puntato sempre più ad una maggiore efficacia ed efficienza». L’efficienza di cui si vanta Befera è quella che ha fatto crollare l’impero romano. Lo illustrò l’oratore ed apologista Lattanzio (240–320 dopo Cristo), africano. L’imperatore Diocleziano, che regnò dal 284 al 305, spiega Lattanzio, aveva messo in atto una riforma fiscale così efficiente, riorganizzando gli uffici in modo così perfetto, che le tasse venivano prelevate molto meglio di prima. Tanto bene, che i contadini, per la «enormitas indictionum», ossia per il «peso enorme delle tasse», fuggivano di casa per non farsi trovare dagli esattori, «e i campi tornavano a inselvatichirsi». Nella sua provincia, l’Africa (che comprendeva il territorio di Tunisia e Algeria), Lattanzio aveva visto strade, villaggi e campagne resi insicuri dall’infuriare dei circumcelliones, lavoratori stagionali – precarii, si direbbe oggi – rovinati dalle tasse e dalla crisi. Abituati a muoversi in gruppi organizzati, percorrevano la provincia prima mendicando e poi taglieggiando, strappando i ricchi dalle loro carrozze e trucidandoli nelle loro ville, ammazzando preti e bruciando chiese (erano donatisti, piissimi, ammazzavano al grido «Deo laudes»). Sant’Agostino, vescovo di Ippona, africano, li definisce banditi e pazzi furiosi «perditorum hominum dementissimi greges» che «vagano per la campagna senza partecipare al lavoro dei campi e disturbano il sonno degli innocenti» che «per mangiare si aggirano attorno ai granai». Da ciò – spiega Agostino – il nome di circumcelliones. Ma loro si definivano Agonisticis, lottatori di Cristo e per la giustizia sociale. Lattanzio, giunto a Treviri come istitutore del figlio dell’imperatore Costantino, poté constatare che la Gallia era ridotta al disastro da un simile fenomeno sociale: qui erano i «bagaudi» (qualcosa che nel dialetto celtico significava «ribelli autonomisti»), bande ben organizzate di disertori e contadini-evasori fiscali per necessità, che funestavano le campagne spinti dalla fame e dalla disperazione, ma anche da sete di giustizia sociale. Dovunque poterono costituire centri autonomi, eliminarono il latifondo e la schiavitù. In Egitto – granaio di Roma e proprietà dell’imperatore, quindi più tartassato di tutte le altre provincie – la spoliazione messa in atto dalla macchina fiscale è ben llustrata dal caso di Sant’Antonio del deserto, il copto Abba Antonio. Antonio ereditò dai genitori 300 arurae di fertili di campi (circa 80 ettari), contro le 40 arurae medie di un fellah egiziano di allora. Era dunque un fellah benestante. O lo sarebbe stato, senza l’efficienza spietata del fisco. Per il pagamento delle tasse, (in sacchi di granaglie), era stato inventato il «sostituto d’imposta»: nel senso che dopo aver fissato una quantità di grano per ogni villaggio egiziano, i funzionari imperiali sceglievano due o tre dei più ricchi del Paese, e li rendevano responsabili del pagamento della tassa da parte della intera comunità: ne rispondevano con il loro patrimonio privato. In tal modo, i designati, per non ridursi essi stessi all’insolvenza, si dovevano fare aguzzini dei loro vicini di casa, estraendo l’ultimo sacco di grano ai contadini più poveri, che già vivevano ai limiti della sussistenza. Antonio si trovò sicuramente, data la sua ragguardevole proprietà nella condizione di esattore-sostituto, o «curiale», come erano ufficialmente definiti questi malcapitati, che si facevano odiare dai membri del villaggio. Così non è strano che – lui analfabeta – ascoltò da un predicatore cristiano la frase di Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va’ vendi quello che possiedi e dallo ai poveri», ebbe l’lluminazione: fuggire al fisco diventava possibile! Bastava non aver più reddito alcuno. E allontanarsi, per prudenza, dove la macchina esattoriale aveva difficoltà a reperire i contribuenti: nel deserto. Il suo biografo (Sant’Atanasio vescovo) attesta che Antonio immediatamente «regalò il suo terreno ai vicini». Il particolare è di cruciale importanza: Antonio non potè «vendere» la sua terra per dare il ricavato ai poveri, dovette «regalarla», perché nessuno la voleva essendo legato a quella proprietà il dubbio privilegio di farsi torchiare a sangue, e diventare aguzzino dei compaesani. Oppure, perché i vicini non gli avrebbero consentito di andarsene nel deserto, se prima non dava loro il cespite e i raccolti con cui placare i funzionari romani. Fatto sta che, una volta constatato che nel deserto (ossia probabilmente dietro casa, essendo in Egitto) Antonio riusciva a sopravvivere, attesta Attanasio, «molti uomini facoltosi seguirono Antonio nella fuga (e nell’evasione) del deserto, «per scaricarvi i pesi di questa vita». Nacque così il monachesimo. Gli anacoreti diventarono sempre più numerosi attorno alla caverna di Antonio Abate (Abba, in copto), fino quasi a formare una città di anacoreti. Vivendo in estrema frugalità (due pani di segale al giorno, qualche volta fave e lattuga) ma – Atanasio lo sottolinea espolicitamente – «lì nessuno veniva tormentato dall’esattore delle tasse». Il monachesimo fu un successo travogente. Migliaia di egiziani, non solo contadini ma soldati (per lo più giovani copti arruolati a forza in retate e gettati a combattere barbari biondi nel gelidi Nord) avevano trovato il modo migliore per salvarsi dal demonio e dai Befera del tempo: salvarsi l’anima rinunciando a consumare e praticando l’ascesi, e cessando di produrre ricchezza; niente produzione, niente tassazione. All’impero che aveva voluto (dovuto) tassare troppo, cominciarono a mancare i contribuenti e anche i soldati, che dopo che il cristianesimo era stato riconosciuto dallo Stato (l’editto di Costantino) avevano un modo legale di sottrarsi alla leva, facendosi monaci. Si arrivò al punto che l’imperatore Valente, nel 375, mandò i suoi legionari nel deserto di Nitria a rastrellare sistematicamente gli eremiti nei loro affollatissimi romitaggi. Furono presi e portati in carcere, oppure «stanati dai loro nascondigli» e obbligati a tornare a casa «perché adempissero il loro dovere nella comunità d’origine», narra San Gerolamo: ossia la funzione di sostituti d’imposta. Molti si rifiutarono di tornare a casa, e furono uccisi a bastonate. Valente, nel suo gergo militaresco, li aveva bollati come «ignaviae sectatores», che significa «banda di lavativi», ma anche «volontariamente inattivi, improduttivi». Oppure renitenti alla leva e al fisco «sub specie religionis», con la scusa della religione. Ma ormai l’efficiente fiscalità romana aveva raggiunto il punto, in cui non valeva più la pena affannarsi a produrre nulla. Questo punto è stato raggiunto in Italia. Che faccia nascere santi eremiti come Antonio del Deserto, pare improbabile data la mentalità corrente. Ma almeno, circumcelliones e bagaudi, sarebbe ora.
Posted on: Wed, 26 Jun 2013 13:14:05 +0000

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