CARBONE (PZ) Prima del secolo X sono molto scarse le notizie - TopicsExpress



          

CARBONE (PZ) Prima del secolo X sono molto scarse le notizie storiche sul territorio,in età romana, è abitato da popolazioni riferibili agli Osci, dedite, sembra alla pastorizia, che, dopo l’assoggettamento da parte di Roma, ne seguono le vicende (Racioppi, 1889). Subisce la dominazione longobarda prima e Normanna poi. Sono di questo periodo, intorno all’anno mille, le prime notizie storiche certe legate alla fondazione, da parte di monaci Basiliani, in fuga dall’oriente in seguito ai contrasti con gli iconoclasti, diun monastero la cui influenza sull’economia e sull’uso del territorio sarà determinante fino al XVIII secolo, sotto Svevi, Angioini e Aragonesi. Le vicende storiche di questo Monastero e di riflesso delle notizie sull’abitato sono contenute in tantissimi documenti, sparsi in numerose biblioteche sia italiane che dei paesi europei, che alcuni autori, nel corso degli anni, hanno studiato e approfondito. Esiste, comunque, la celebre “Storia del Monastero di Carbone” di Paolo Emilio Santoro, Arcivescovo di Urbino, tradotta da Marcello Spena nel 1831: storia che si è resa rara per la mancanza di edizioni, e che fu stampata in Roma nell’anno 1601. Ulteriore accurata traduzione di questa opera, a cura del Prof Luigi Branco, è stata edita dalle Edizioni Osanna nel 1998. C’è da ricordare, infine, l’importante lavoro di tesi di laurea del Dott. Chiorazzo Gennaro del 1998 che ha trattato dell’inedita opera manoscritta di Pietro Menniti “Cronica del Monastero Archimandritale di S.Elia di Carbone dell’ordine di San Basilio Magno - 1707”. Ancora, non meno importante, gli Atti del convegno internazionale di studio del 26-27 giugno 1992 dal titolo: “ il Monastero di S. Elia di Carbone e il suo territorio dal Medioevo all’Età Moderna nel millenario della morte di San Luca Abate” a cura dell’Università degli studi di Potenza. Di seguito si riportano alcune notizie tratte dai testi sopra citati. Le origini del monastero carbonense, in diocesi di Anglona, sono strettamente legate, come accennato,al movimento ascetico italo-greco, che raggiunse l’apice della fioritura ai confini nord-occidentali della Calabria con la Lucania, nel sec. X. In questa regione o “eparchia monastica”, come fu chiamata, nello spazio di meno di un secolo, la vita monastica bizantina si organizzò in tutte le fasi del suo sviluppo e vide convergervi i nomi più noti dell’agiografia italo-greca: vi convennero dalla Sicilia i Santi Cristofaro, S. Vitale di Castronovo, S. Leoluca di Corleone, S. Luca di Demenna ecc., ai quali si aggiunsero i grandi asceti locali: S. Zaccaria il Grande, S. Fantino col fratello Luca e i discepoli Niceforo e Vitale, S. Giovanni l’Angelico, S. Luca di Armento e altri, sui quali tutti spicca la gigantesca personalità di S. Nilo di Rossano, considerato come la figura più rappresentativa del monachismo italo-greco. Confinante con la regione mercuriense era l’ “eparchia monastica del Latinianon”, tutta in Lucania, che fu percorsa e riorganizzata dagli asceti siculo-greci, sopra ricordati, segnatamente dai Santi Saba e Macario di Collesano. Sulle due « eparchie» ebbe il posto di preminenza il monastero dei SS. Elia e Anastasio al Carbone, che — col passar degli anni — riuscì ad estendere la sua influenza, mediante la concessione di beni immobili, di monasteri, grancie e chiese, che figurano, quasi in un uguale numero, nelle due eparchie e nelle zone limitrofe sia della Lucania sia della Calabria.Ilfondatore del monastero carbonese si ritiene con molta probabilità sia statoS. Luca d’Armento, il quale aveva ricevuto l’abito monastico dalle mani di S. Saba di Collesano. Egli ne gettò le fondamenta verso il 971, vi morì il 5 febbraio del 995, assistito dallo stesso S. Saba, e fu sepolto nella chiesa abbaziale, in cui ha avuto culto pubblico.B. Cappelli, Alla ricerca del Latinianon, in Il Monachesimo basiliano ai confini calabro-lucani, Napoli (1963).Le origini furono piuttosto modeste; ma nel secolo seguente, mediante le numerose elargizioni dei Signori normanni, il monastero s’ingrandì sensibilmente e la sua potenza economica si accrebbe in tale misura, da fargli assumere una incontrastata preminenza in tutta la Lucania e in buona parte della Calabria settentrionale. Si ricorda, a tal proposito, che esso possedeva perfino una chiatta sul fiume Sinni, allora navigabile, per l’esercizio dei suoi traffici sul mare Ionio. Il monastero carbonense giunse all’apice della potenza alla metà del secolo XII, allorché, nel gennaio 1168 il re Guglielmo II emanò un privilegio bilingue (latino-greco) a favore dell’abate Bartolomeo al quale viene attribuito il potere archimandritale di controllare la vita spirituale e la disciplina di tutti i monasteri che professavano la regola di S. Basilio. Il relativo diploma ci fa conoscere i confini dell’ampio territorio: Per la sola cura delle anime col predetto modo affidiamo alla sua cura tutti i monasteri greci che si trovano nei territori di Salerno e vengono per Eboli, Oliveto e Conza e di qui a Melfi secondo il corso dell’Aufido e va ad Olivento e da Olivento sino a Bisanello che va sotto il monte Sullicolo; e così discende a Bisanello sino al Bradano; e come passa dal Bradano alla Torre del Mare di qui lungo la costa sino alla croce di Oriolo e di qui va per terra che fu di Alessandro Chiaromonte sino a Cassano e così va per la valle di Laino e va a Bello Vedere e di qui ritorna lungo le coste e va sino a Salerno. L’archimandrita di Carbone, quindi, veniva ad esercitare la sua giurisdizione su tutti i monasteri greci della Lucania, della Calabria settentrionale fino a Belvedere, del Cilento, della Valle di Diano e di una parte dell’Irpinia fino a Salerno. Concessione rinnovata dalla regina Costanza all’archimandrita Ilarione nel 1196. Le donazioni al monastero di S. Elia di Carbone continuarono anche sotto il periodo Svevo. Si conservano a riguardo due privilegi concessi a detto monastero da parte di Federico II, uno del 1219 ed un altro del 1232 nel quale l’imperatore riconferma tutti i privilegi del monastero e in più concede all’abate e ai monaci «il possesso delle terre del che si trovano in Policoro tra il fiume Agri e il tenimento della Scanzana (…) Per maggior nostra generosità diamo, inoltre, al predetto monastero, la libera facoltà di avere nel fiume Agri una propria barca capace di dieci cavalli, con la quale e nella quale possa essere trasportato al di là e al di qua, gratuitamente e liberamente per amor di Dio, qualsiasi passeggero, senza alcun contrasto da parte dei camerari, dei baiuli e di qualsiasi altra persona». Dopo la morte di Federico II, cambia totalmente la scena politica in Italia meridionale. Assistiamo all’avvento degli Angioini che prendono il posto dell’ormai logorata dinastia sveva. Parallelamente a questo si assiste anche ad una lenta ma inarrestabile decadenza della cultura greca nell’Italia meridionale, decadenza dovuta alla latinizzazione della classe dirigente greca che assimilò lingua e credo dei conquistatori, portando V. vonFalkenhausen ad affermare: «alla fine del periodo svevo, a parte alcuni dottissimi, i greci superstiti erano in genere contadini ignoranti, altrettanto estranei e incapaci di gestire con decoro le istituzioni religiose greche e di amministrare i loro beni, quanto di trasmettere le forme e i contenuti di una cultura greca ormai svanita e lontana». G. Robinson sottolinea questa decadenza, ecco le sue parole: «il loro greco divenne sempre più barbaro ed in qualche monastero cessò di essere parlato e scritto. Fu presto usato solo in liturgia, così che, nel mezzo del XIV secolo, molti monaci usavano libri liturgici scritti in una lingua che non capivano più». Questo processo di decadenza interessa anche il monastero carbonense, la cui storia s’intreccia con le vicende politiche e militari della regione. Infatti l’età angioina si apre, in Basilicata, con la violenta repressione dei sostenitori della casata sveva che avevano impugnato le armi a sostegno della spedizione di Corradino nel 1268; repressione che colpì non solo i promotori dell’insurrezione ma anche le popolazioni sospettate di aver favorito la ribellione. Per quanto riguarda le vicende del monastero dei SS. Elia e Anastasio in questi anni, sappiamo pochissimo, probabilmente trovò come suo protettore Drogone di Beaumont, amico di Carlo D’Angiò e maresciallo del regno. Grazie a Drogone, quindi, il monastero riuscì ad evitare «le conseguenze più nefaste di un periodo tanto turbolento», periodo che continuò soprattutto dopo la morte di Drogone avvenuta nel 1277. Infatti cinque anni dopo scoppiò “la guerra del vespro” il cui «fronte rimase attestato su una linea che congiunge Policastro sul Tirreno con Rocca Imperiale sullo Ionio, seguendo la valle del Sinni, fiume che scorre a meno di 10 chilometri da Carbone». Un altro avvenimento che merita di essere ricordato è la controversia tra l’archimandrita Giacomo e il vescovo di Marco, titolare della diocesi di Anglona, circa la dipendenza o meno del monastero di S. Elia dall’autorità diocesana. Il vescovo sosteneva che il conferimento della cresima, l’ordinazione dei sacerdoti, l’assegnazione delle arcipreture e dei cantorati, erano tutte mansioni che spettavano a lui; i monaci, invece, ribadivano che la loro era un badia soggetta solamente al reggitor delle terre e dipendente dal dominioe dalla potestà della santa sede. La lite si concluse con un accordo, stipulato nel 1320, nel quale il monastero riconosceva l’autorità vescovile e s’impegnava a pagare un tributo annuale di 15 libbre di cera; mentre il vescovo riconosceva la giurisdizione spirituale del monastero sui suoi possedimenti, come Scanzana e Faraco, impegnandosi anche a limitare le proprie visite e le richieste che faceva in tali occasioni. Il 13 marzo del 1458, il monastero venne visitato da Atanasio Chalkéopoulos la cui relazione ci fornisce un quadro generale della situazione del monastero sul finire del medioevo. In esso vivevano insieme all’abate Placido, altri sei monaci, e il Chalkéopoulos vi trovò 102 manoscritti e 20 volumi di scartoffie. Circa lo stesso anno l’archimandrita Placido recuperò, grazie anche a Federico II d’Aragona, le terre di “Coccara” e in più metà del monte Ercole, dando origine ad un contrasto con la famiglia dei Sanseverino che si concluse con un’azione armata da parte del nuovo archimandrita Romano e col saccheggio della città di Bisignano. Si apre così un periodo di declino che porterà alla rovina dell’abate Romano e affrettò l’affidamento in commenda del monastero. Difatti Guglielmo Sanseverino, secondo quello che ci dice la Robinson, portò la questione a Roma ed accusò l’abate Romano davanti al Papa Sisto IV, descrivendolo come una persona male intenzionata e disturbatrice del buon ordine. Il Papa diede a Giacomo, vescovo d’Anglona l’incarico di esaminare questa causa. «Il risultato di tale processo fu una conclusione predeterminata. I vescovi d’Anglona avevano cessato da lungo tempo di guardare con occhio favorevole il monastero di Carbone, che aveva domini ed esercitava giurisdizioni che essi reclamavano come proprie; ed ora che esso era decaduto ed il rito riguardato con disprezzo come rito straniero di una chiesa scismatica, quest’ultimo che occupava la sede ed aveva ereditato tutti i pregiudizi dei suoi predecessori, non era possibile lasciasse perdere l’occasione di umiliarlo nella persona del suo abate». Il giudizio del vescovo fu contrario a Romano che doveva presentarsi di nuovo a Roma. Ma il principe di Bisignano non aspettò la sentenza definitiva e fece arrestare Romano rinchiudendolo per otto mesi in una prigione di Senise. Intanto la S. Sede per proteggere il monastero contro ulteriori usurpazioni da parte dei suoi potenti vicini, nominò Paolo di S. Sosti , della diocesi di S. Marco Argentano in Calabria, primo commendatario. Questi, otto anni dopo, con il consenso e l’autorità di Papa Sisto IV trasferì la commenda a favore di Roberto Sanseverino, figlio di Luca principe di Bisignano, diventando così il padrone delle entrate del monastero. L’affidamento di grandi e ricchi complessi monastici ad abati commendatari fu, nella maggior parte dei casi, la causa principale della loro rovina. In un primo momento le commende erano state introdotte a buon fine a favore degli ecclesiastici secolari ma col passare del tempo la commenda diventò un modo facile e riconosciuto per concedere proprietà ecclesiastiche a famiglie potenti che ebbero cura di non rinunziare più al diritto su di esse. «Facevano quel che volevano con le terre, le affittavano o le vendevano intascandone il prezzo. Carpivano tutto ciò che aveva un valore come quadri e manoscritti; i fabbricati e le chiese dei monasteri andarono in rovina, gli uffici e le cerimonie non potevano aver luogo per mancanza di vestiario e di libri (…) I monaci lasciati senza mezzi di mantenimento o di educazione diventarono dei mendicanti, ignoranti senza altra aspirazione che quella di procacciarsi cibo sufficiente a sostenere la vita, incapaci financo di leggere qualunque libro essi avessero lasciato». Per quanto riguarda il periodo della commenda, e quindi le vicende riguardanti il monastero in età moderna, di grande aiuto è la “Regia Platea S. Eliae Prophetae venerabilis ac vetustissimi Carbonensis Monasterii ordinis S. Basilii Magni, 1741”, che si trovava nella biblioteca privata della famiglia Cascini in Carbone, ora donata alla Biblioteca Provinciale di Potenza. La “Platea” c’informa sulla successione e sull’operato dei vari commendatari, delle relazioni con i vari affittuari ecc. Con Roberto Sanseverino, il monastero perse altri beni e svanì la speranza di poter riavere i feudi di Policoro, Scanzana e Calvera. Suo successore fu Alessandro che difese le giurisdizioni del monastero contro le pretese del vescovo d’Anglona e dei principi di Bisignano. Dopo il governo relativamente tranquillo di Lelio della Valle, subentrò Giovanni Gesualdo «connivente con il principe di Bisignano, che di fatto finì col ridurlo alle sue dipendenze, abusando a piene mani della proprietà del monastero. (…) Alla sua morte il commendatario si lasciò andare a Carbone ad ogni sorta di vendetta contro presunti traditori, non risparmiando il monastero, del quale diroccò mura, sfece pavimenti, ruppe l’atrio del palazzo, cancellò le immagini dipinte di antecessori archimandriti, buttando fuori dalla loro sepoltura finanche le ossa dei morti». Seguirono poi i commendatari Ferdinando Roggiero, Ludovico Roggiero suo fratello, e Cesare Roggiero nipote di Ludovico. Per evitare nuovi contrasti a causa delle mire espansionistiche dei vicini feudatari e le pretese dei vescovi di Anglona-Tursi, il Papa Pio V, affidò la commenda a Giulio Antonio Santoro. L’operato del cardinale mirò in un primo momento al recupero dei beni del monastero sottratti da Aurelia, cognata di Cesare Roggiero, che lasciata da quest’ultimo «padrona e signora delle cose, agiva a suo piacimento nei beni della chiesa». Aurelia prese diplomi, manoscritti, buoi, pecore e capre e «una parte venne spinta verso Taranto e un’altra verso Laurenzana. (…) Si dovette sudare a lungo contro la donna, che resisteva con indomita ostinazione», ma alla fine gran parte dei manoscritti e diplomi vennero recuperati. Dopo questo il Santoro si dedicò alla ristrutturazione e all’ampliamento del monastero, perché «gli dava fastidio l’angustia del luogo». Dotò la chiesa e il sacrario di molti ornamenti e di un corredo di paramenti sacri «dopo aver tolto l’antico sudiciume da far vergogna anche in una casa privata, tanto più nel tempio di Dio» fece togliere dalla chiesa i gradini di legno sostituendoli con quelli di mattone, ricostruì il campanile e restaurò il vecchio palazzo cadente, al quale aggiunse nuove stanze, e dotò il tutto di un grande parco Fece anche una ricognizione di beni, censi, diritti, recuperando antiche scritture, affidando a Federico Mezio il compito di riprodurle dal greco al latino (come riferisce il Menniti nell’anno 1581). Quest’opera di ricostruzione documentaria, come afferma A. Lerra, si venne a concretizzare nella compilazione della Platea del 1577-1578. Dell’operato del cardinal Santoro bisogna ricordare l’attuazione della “separazione delle mense” imposta da Gregorio XIII e che serviva a dare un sostentamento ai monaci e a consentir loro di non dover più mendicare. Questo documento, stipulato a Roma il 28 settembre del 1581, si rinviene nella già citata Platea del 1741 ai ff. 75-86 e pubblicato anche dallo Spena nella sua Storia. Tutto questo fece il cardinale Santoro nel tentativo e con la speranza di ridare al monastero lo splendore di cui aveva goduto; tentativo in gran parte non raggiunto, per quello che lascia intendere il nipote Paolo Emilio Santoro nelle pagine finali della sua Historia, probabilmente a causa dei baroni del tempo che cercarono sempre di impadronirsi dei beni e possedimenti del monastero. «Apriamo la porta e offriamo ai baroni l’ingresso nei templi per far saccheggiare i beni della chiesa a chi non è mai sazio di preda né lo sarà mai. Stanno, essi, con la bocca spalancata, e a distruggere le fortune dei vassalli, e, spinti da immane furore, bramano ardentemente le rendite ecclesiastiche, desiderosi (se fosse possibile alle loro forze) di sradicare dagli animi dei mortali ogni sentimento religioso». Cercò di continuare l’opera dello zio, Paolo Emilio Santoro, arcivescovo di Cosenza nel 1617 e poi d’Urbino nel 1623. Sotto il governo di questo commendatario sorse il santuario di S. Maria del Soccorso nella contrada Gordio, a devozione del popolo carbonese il quale chiese ed ottenne nel 1604 dal vicario generale dell’arcivescovo Santoro, D. Giovanni Pagano, sacerdote di Caserta, il permesso di edificare la cappella. Nel 1606, fece edificare il campanile della chiesa di S. Luca in cui era apposta un’iscrizione lapidea nella quale si legge: «P. Aemilius Sanctorius Casertanus anno MDCVI, e inoltre lo stemma della sua famiglia inciso in pietra contenente il pellicano». «Ma il maggior beneficio per avventura di tutti gli altri c’egli medesimo e dei suoi predecessori fecero alla stessa commenda, fu la storia del monastero». Dopo Paolo Emilio Santoro, venne nominato come suo successore il cardinale Giovanni Battista Pamphili, eletto pontefice nel 1644 con il nome di Innocenzo X che si impossessò delle pergamenedell’Archivio e dei codici delle Biblioteca e li trasferì a Roma nel suo palazzo. Rimasta vacante la commenda, venne affidata a Francesco Angelo Rapacciolo nel 1645 sotto il quale avvennero dei tumulti che si conclusero tragicamente. Infatti nel 1647 scoppia a Napoli la rivoluzione capeggiata da Tommaso Aniello, detto Masaniello, in occasione di una nuova tassa sul consumo della frutta ma che si trasformò subito in una rivolta antinobiliare. L’eco di tali rivolte, soprattutto dopo la morte di Masaniello, si diffuse in tutto il regno. «I carbonesi avversi ai monaci e commendatarii e a chiunque avesse ed osasse contro di loro signoria e prepotenza, ebbero luogo a sfogare il loro rancore. Essi assalirono il monastero e lo saccheggiarono. Il cardinale commendatario teneva per suo vicario un tale D. Giovan Francesco Giorgetta. I carbonesi presero due cavalli che costui teneva per uso del cardinale ed ucciso un religioso chiamato D. Alfonso Gesummaria, di nazione spagnuolo, e mozzogli il capo lo attaccarono ad un olmo che sorgeva allora innanzi la chiesa e poscia secossi. Il vicario Giorgetta ebbe la ventura di schivare con la fuga un simile complimento» Nel 1657 la commenda passò nelle mani di Paolo Rapacciolo sotto il quale risorsero vecchie questioni giurisdizionali tra il monastero e i vescovi d’Anglona-Tursi. Successe a questi il cardinale Piccolomini, poi il cardinale Lorenzo Brancati di Lauria e, infine, il cardinale Boncompagni nel 1696 che, essendogli stata conferita la sede arcivescovile di Bologna, lasciò l’amministrazione a suor Maria Giroloma Buoncompagni, sua sorella. Nel 1783 Ferdinando IV abolì la commenda e il monastero ritornò all’antica organizzazione interna; all’abate competeva l’amministrazione delle rendite e la guida spirituale. Questa per il monastero non era che l’inizio della fine. Infatti venne emanata la legge di soppressione dei monasteri resa generale da Gioacchino Murat nel 1809. Il giudice di pace, Giacomo Astore, ebbe l’incarico di eseguire la soppressione con l’intervento di un delegato del sindaco e di quattro periti. Nel monastero si trovavano tre monaci sacerdoti. L’abate, D. Michele Pecci di Tramutola, era già morto e «niuno poteva essere eletto abate se prima per lo spazio di tre anni o più, ad arbitrio della Dieta, non era stato sperimentato con l’ufficio di Priore del governo nel zelo, osservanza, abilità ed economia». Priore dei tre monaci era D. Luca De Luca di Gallicchio. Molti beni vennero incamerati dallo stato, vennero sottratti arredi sacri, mobili, quadri e volumi della biblioteca nonostante che di tutto si eseguisse un regolare inventario, come si può riscontrare negli archivi dell’Intendenza. Alcuni beni passarono alla chiesa parrocchiale e altri furono venduti a vari cittadini di Carbone, «tra questi compiangiamo soprattutto la dilapidazione della biblioteca ricca tra l’altro di molti greci volumi, e l’archivio pieno di preziosi monumenti di storia che abbiamo irreparabilmente perduti». Restarono in piedi le sole mura che già erano state pochi anni prima baluardo del paese. Ma contro di queste si estese la durezza del fato e l’ingratitudine di alcuni cittadini. Lo Spena conclude la sua storia con queste parole: «Le mura stesse furono abbattute siccome sogliono con la caduta de’ padroni i monumenti abbattersi dell’odiata signoria. E’ terra incolta dove fu Troia» Tratto da comune.carbone.pz.it
Posted on: Wed, 20 Nov 2013 17:35:31 +0000

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