Cio che di meraviglioso ha lIsola di San Giulio in se ma tutto - TopicsExpress



          

Cio che di meraviglioso ha lIsola di San Giulio in se ma tutto quello che vive e si fa ascoltare... “Mater Ecclesiae”: L’abbazia benedettina di Orta San Giulio. Intervista ad Anna Maria Canopi Noi che notte e giorno Te per straniera terra andiamo ricercando, parole vive profumate d’infanzia, estasiati berremo alla tua fonte: cielo, stella, fiore, luce, silenzio, amore.. O voi beati - ci dirai allora – voi che portate occhi da bambini per vedere la luce del mio volto! Anna Maria Canopi 28-06-2012 Quando il piccolo motoscafo lascia l’imbarcadero di Orta San Giulio per portarti, in pochi minuti, al molo dei Sabbioni, sull’isola dove si trova l’abbazia benedettina “Mater Ecclesiae”, hai l’impressione di lasciarti alle spalle la vita frenetica e chiassosa e di entrare in un mondo segnato dal silenzio e dalla ricerca dell’Assoluto. Non solo perché, di primo mattino, nessuno passeggia nei strettissimi viottoli dell’unica strada – non a caso chiamata “Via del Silenzio” - che porta al monastero, oggi insediato nel luogo dove, in un tempo, non molto lontano, si trovava il seminario diocesano di Novara. Forse è l’impatto con settanta monache, moltissime delle quali giovani; forse è la cura della liturgia, la bellezza del canto, il suono della cetra. Comunque sia, il monastero è certamente uno dei luoghi più suggestivi che si possano immaginare. Incastonato in mezzo al lago d’Orta, in una terra, da sempre, zona di confine e di comunicazione (sul percorso principale dell’antica via Franzisca, che porta al di là delle Alpi), l’abbazia sorprende il visitatore che, solo lì, riesce a comprendere le parole – apparse enfatiche lette a casa - della abbadessa del monastero, Anna Maria Canopi: “Tutti coloro che sono assetati di bellezza e d’infinito, vi potranno trovare la patria del loro cuore”. A raccontarmi qualcosa della storia dell’isola è don Giacomo Bagnati, parroco (la Basilica è parrocchia) e cappellano del monastero, mentre, terminata l’Eucarestia, andiamo insieme verso il refettorio degli ospiti a consumare la colazione. La centesima chiesa La storia dell’isola viene da molto lontano. Leggenda e tradizione raccontano che verso la fine del quarto secolo su questa terra – allora alquanto inospitale – giungesse Giulio, prete e pellegrino. Proveniva, con Giuliano, suo fratello minore, dalla Grecia dalla quale venne scacciato in seguito al dilagare dell’eresia ariana. Teodosio I, figlio di Costantino, affidò ai due fratelli il compito di predicare il Vangelo fra le genti con l’appoggio dell’amministrazione governativa. Essi attraversarono da missionari la penisola e, dopo un lungo soggiorno romano e la fondazione di novantotto chiese, giunsero nella valle Padana. Dopo aver attraversato il lago Maggiore giunsero verso i monti del Cusio, l’odierno lago d’Orta. Dopo la fondazione della novantanovesima chiesa a Gozzano, Giuliano vi si fermò. Giulio invece venne attratto dalla piccola isola che, a quel tempo, era ancora invasa da vegetazione selvaggia e abitata da ratti e serpenti. Quando ne toccò la riva, il santo pronunciò poche parole e gli animali docilmente gli lasciarono il passo, quasi consapevoli della nuova età che necessariamente doveva oramai inaugurarsi. Su quel frammento di terra da dissodare che avrebbe preso il suo nome, Giulio edificò la centesima chiesa, sul cui sito sorge tuttora la basilica che gli è dedicata. Ritiratosi sull’isola, Giulio morì all’alba del 401, assistito dal prete Elia che continuò la missione. Una basilica di colori, luci e ori Della chiesa primitiva di San Giulio oggi non rimane nulla. Al fonte battesimale della Basilica, costruita a partire dal nono secolo, assurta al rango di pieve, per lungo tempo, vennero battezzati tutti i catecumeni della zona del lago. La basilica come la vediamo oggi, appare, all’esterno come una costruzione romanica; il campanile, racconta ancora la tradizione, fu disegnato da uno dei figli più illustri dell’isola: quel Guglielmo da Volpino, monaco dell’anno Mille, costruttore di abbazie, abate di ben quaranta monasteri che riformò, portando un soffio nuovo sull’Europa medievale e sull’ordine benedettino riportandolo verso la purezza delle origini. All’interno della basilica sono evidenti modifiche e rimaneggiamenti: epoche e stili – dal romanico al tardo barocco - si sovrappongono senza nulla togliere all’armonia generale. Marmi policromi, stucchi dorati, affreschi un po’ naif ma straordinariamente vivi: colori, luci e ori convivono senza stonatura. Il pezzo forte è senz’altro l’ambone in serpentino d’Oria, un piccolo paese della riviera del Cusio dove, in tempi passati, c’erano cave di estrazione di una roccia che, con il passare degli anni, tende ad assumere il color bronzo. Il pulpito – romanico – è ricchissimo di figure antropomorfe, simboli cristiani, animali tra i quali aquile e cervi, monaci e guerrieri. Nella cripta un’urna in vetro e argento racchiude il corpo di san Giulio. Siamo mendicanti di Dio Dopo aver visitato la Basilica, attraverso la Via del Silenzio, contrassegnata da scritte in quattro lingue che richiamano alla vita interiore, raggiungiamo l’Abbazia benedettina. Ad accoglierci è Maria Canopi, la madre abbadessa del monastero, una figura chiave della rinascita del monastero. Relatrice al convegno ecclesiale di Palermo, ha collaborato alla edizione della Bibbia CEI e alle edizioni dei nuovi Messali e Lezionari. Ha pubblicato diversi libri (troppi, pensavo prima di incontrarla) di spiritualità biblica e monastica. Per Giovanni Paolo II ha scritto – prima donna a farlo - i testi della Via Crucis del Venerdì Santo al Colosseo. La sua figura, esile e scarna, mal si concilia con la forza e la passione con la quale racconta. “Con altre cinque sorelle, sono arrivata sull’isola nel 1973 chiamata dal Vescovo di Novara, mons. Aldo Del Monte. Ci siamo staccate dall’Abbazia di Viboldone, una comunità molto bella, vicina a Legnano, dalla quale avevo ricevuto molto. Volevamo una maggiore solitudine, un più profondo spoliamento. Invece i piani di Dio erano differenti. Ci siamo trovate in pochi anni a condividere la vita monastica con molte altre giovani mandate dal Signore. Intanto, aumentavano anche le richieste, da parte dei laici, di aiuto nella preghiera, nella lectio, e di consolazione nelle varie prove della vita”. Quali sono le ragioni che spingono tante persone su quest’isola? “È difficile spiegarlo, ma credo si tratti dell’attrattiva esercitata dalla preghiera che qui si respira. Tante persone arrivano qui angosciate per i tanti bisogni che li assillano e davanti ai quali devono rassegnarsi a rimanere impotenti. Spesso hanno il cuore colmo di tristezza e persino di rabbia, ma, dopo aver scoperto la potenza della preghiera, ripartono confortati. A tutti dovrebbe essere possibile programmare dei momenti di ritiro presso luoghi dove sia favorito l’incontro con Dio nel silenzio orante. Non per un turismo spirituale”. Ogni anno sono migliaia le persone che raggiungono l’isola. Molti salgono per le bellezze artistiche della Basilica, altri per il silenzio che – soprattutto d’inverno e nei giorni feriali – regna tra le poche case (sono una ventina, quasi tutte abitate da svizzeri o tedeschi). Alcuni, dopo aver partecipato all’Eucarestia, visto le monache pregare o cantare rimangono impressionati e decidono di fermarsi qualche giorno in più. “Tutti – mi dice l’abbadessa - sostanzialmente sono affamati di verità: oggi questi sono i poveri che bussano alla porta dei monasteri spinti da un bisogno che non sanno nemmeno definire, in cerca di risposte ai loro confusi interrogativi. Sono loro i veri poveri del nostro tempo, i poveri di vita spirituale. Noi benedettini abbiamo il dovere dell’ospitalità: una volta questo significava aprire le porte a chi mancava di cibo e di vestiti, oggi a chi non ha fede, non ha amore, non ha speranza. Il nostro intento è di far capire che ogni uomo ha un tesoro nel suo intimo, ha dei valori che deve scoprire e coltivare. Ciascuno ha qualcosa da dare agli altri e chi arriva a tendere la mano, a chiedere, a bussare, è già ricco, perché ha l’umiltà che lo dispone ad accogliere. A queste persone vorremmo far sentire che tutti siamo poveri ed abbiamo bisogno; tutti siamo i mendicanti di Dio”. Tra coloro che bussano alle porte del monastero vi sono tanti giovani. Ogni anno, qualcuno di loro si ferma e chiede di iniziare un cammino con la comunità che oggi è composta da una settantina di monache, per lo più di giovane età, molte delle quali laureate. “Il discernimento che operiamo fa vedere subito se una persona viene a cercare se stessa o viene a cercare Dio. Ci deve essere almeno la tensione ad andare oltre se stessi, a “perdersi”, come dice Gesù. La cosa principale è proprio questa: invitare i giovani a concepire la vita come un dono ricevuto e che si deve restituire. La vita è un dono e noi dobbiamo ridonarlo, ha senso e valore solo se è donata, altrimenti è come un seme che non germoglia, una pianta che non da frutto”. Alzarsi nel cuore della notte Lo dice bene il pellegrino russo: “i contemplativi sono come i pilastri che sostengono la Chiesa con la loro preghiera segreta e incessante. Dal lontano passato fino ai nostri giorni, essi sono in grado di servire il loro prossimo e di agire per il bene dell’intera società, stando in preghiera, in disparte”. Anche sull’isola di San Giulio il cuore è rappresentato senz’altro dalla preghiera. La continua ricerca di Dio è tradotta, quotidianamente, nel primato dato a ciò che san Benedetto definiva opus Dei: opera di Dio. L’orario della giornata è, a questo proposito, eloquente. Le monache si alzano intorno alle 4 (qualcuna anche prima) e alle 4,50 inizia il canto del Mattutino. Nelle domeniche di Avvento e di Quaresima e in altri giorni festivi si anticipa alle 3,40. Dopo non si torna più a dormire. Anna Maria Canopi mi spiega che alzarsi nel cuore della notte per lodare Dio è l’espressione più significativa della gratitudine e della gratuità. Seguono poi le Lodi con la lectio divina e la celebrazione eucaristica. Al mattino ci sono quindi circa cinque ore di preghiera ininterrotta. Inizia poi il lavoro che è scandito da momenti di preghiera più brevi: le Ore minori di Terza, Sesta e Nona. Al tramonto si celebrano i Vespri seguiti dalla lectio divina personale e, dopo cena, dalla Compieta. Alle 21 inizia il grande silenzio della notte. “Osserviamo il silenzio durante tutta la giornata – dice l’abbadessa - in modo che la Parola ascoltata e celebrata fin dalla notte sia custodita come pane per il viaggio della vita quotidiana. Camminiamo in compagnia della Parola e la facciamo diventare preghiera. Se non avessimo il silenzio perderemmo la quiete della nostra cella interiore e potremmo facilmente disperderci nella molteplicità delle occupazioni quotidiane”. Nel silenzio, un dialogo d’amore Al silenzio, San Benedetto ha dedicato un capitolo della sua Regola, citando in apertura il salmista: “Ho detto: custodirò il mio cammino per non peccare con la mia lingua; ho posto un freno alla mia bocca, mi sono fatto muto, mi sono umiliato e ho taciuto anche delle cose buone”. San Benedetto colloca il silenzio in alto nella sua scalda dell’umiltà, addirittura verso la cima. Evidentemente lo considera una conquista non immediata, ma graduale, che richiede una certa abilità ed esperienza spirituale. Il silenzio che avvolge l’isola circonda anche la vita delle monache. Senza radio e televisione (come non sempre avviene nei monasteri), con un uso limitato della stampa e del telefono, le monache passano gran parte della loro giornata comunicando tra loro con segni. “La vita monastica – mi dice ancora l’abbadessa – richiede anzitutto amore al silenzio. Senza questa disposizione interiore l’ascolto della Parola diventa impossibile. Il silenzio è Dio presente in noi. È Dio in noi. L’esperienza del silenzio coincide con l’esperienza mistica della presenza di Dio... ”Madre, che senso può avere oggi una vita ritirata dal mondo come la vostra? “La monaca benedettina non si ritira dal mondo perché lo disprezza, ma se ne distanzia per poterlo vedere e amare dalla parte di Dio. Oggi più che mai l’uomo è decentrato a causa di uno stile di vita alienante che lo priva del tempo per fermarsi a pensare. Il ritiro dal tumulto del mondo invece mette in condizione di poter rientrare in se stessi e stare alla presenza di Dio. Pregare allora è rimanere sul monte con le braccia alzate per intercedere presso Dio in favore di tutti gli uomini. Essi hanno bisogno, infatti, di ricevere forza per vincere le seduzioni dell’idolatria e del male in tutte le sue forme. Il nostro servizio di oranti richiede proprio solitudine e distacco per una visione più ampia: più si va in alto, più l’orizzonte si allarga; più ci si avvicina a Dio, più in Lui si vede e si abbraccia tutta l’umanità. Il lavoro e la comunità Il volto di un’autentica comunità monastica benedettina ha i tratti essenziali della chiesa orante e contemplativa. “È un segno escatologico”, mi ripete la badessa. Ciò non significa che essa sia estranea alla storia e alle sollecitudini di tutta la Chiesa per l’evangelizzazione e la carità operativa. Il ministero principale della preghiera si completa con quello dell’ospitalità e – come ancora dice la Regola di San Benedetto – con il lavoro. “L’ozio nuoce al vero bene del monaco. Perciò i fratelli devono, in tempi determinati, dedicarsi al lavoro manuale e in altre ore alla lettura divina”. Lo ricorda anche un Detto di Antonio, il padre del monachesimo. “Il santo abba Antonio, mentre dimorava nel deserto, fu preda dell’acedia e fu assalito da molti oscuri pensieri. Si rivolse allora a Dio: “Signore, voglio salvarmi, ma questi pensieri non mi abbandonano; che debbo fare nella mia afflizione?..” Poco dopo, essendosi alzato per uscire, vide un uomo simile a lui seduto a lavorare, che si alzò per pregare, poi si sedette di nuovo per intrecciare una corda e quindi si rialzò per pregare. Era un angelo del Signore inviato per correggerlo e per rassicurarlo. E l’angelo gli disse: “Fa così e sarai salvo”. A queste parole, Antonio provò una grande gioia”. Nei laboratori del monastero vengono riparati antichi paramenti sacri: la sorella responsabile ci mostra un catalogo fitto di lavori svolti per parrocchie e diocesi di tutta Italia. Trame e orditi di tessuti che parevano oramai irrecuperabili ritornano a nuova vita grazie al lavoro paziente e minuzioso di una ventina di monache. Le monache poi eseguono acquarelli a tema sacro, stampano libri e pubblicazioni, dipingono icone, confezionano paramenti talari, lavorano al computer: insomma, una comunità che cerca di vivere del lavoro delle proprie mani. Adesso è il tempo della fede Ad uno sguardo disattento, potrebbe sembrare che la vita monastica sia immune da fatiche e da dubbi. Sappiamo che non è così. Come vivete i dubbi della fede? “A volte, anche tra le mura del monastero, di fronte a situazioni difficili e insanabili, anche a noi può venire il dubbio: il Signore non ci ascolta… È questo il momento in cui Dio ci chiede di dare prova davanti al mondo di una fede più pura e di una speranza incrollabile; di quella speranza di cui parla San Paolo quando porta l’esempio di Abramo. Noi crediamo, nonostante tutto, che Dio chiaramente ci ascolti come un Padre che conosce e prepara per i suoi figli un bene più grande di quello che sono capaci di desiderare e chiedere. La salvezza dell’umanità forse è più legata all’offerta di pochi che alla conversione di tutti. Ciascuno di noi credenti deve dare totalmente se stesso nel partecipare al mistero di Cristo. Il risultato lo vedremo. Adesso è il tempo della fede! E, insieme, il tempo della speranza…”
Posted on: Thu, 14 Nov 2013 12:39:42 +0000

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