Commento alle letture: XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO -C- - TopicsExpress



          

Commento alle letture: XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO -C- (01-09-2013) 1a lettura (Sir 3,19-21.30-31) “Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso”. La generosità dona, dispensa, i beni necessari soprattutto nel momento del bisogno; essi non sono disponibili se non attraverso di essa. È una dimensione importane nei rapporti umani: manifesta l’attenzione verso persone bisognose (moralmente, fisicamente o economicamente), verso situazioni di sofferenza, ed è frutto del sentimento di condivisione e solidarietà. Il senso di gratitudine amorosa accompagna ogni persona di buon senso, favorita dall’attenzione alla generosità. Ma c’è un modo di essere generoso, e in generale di compiere delle opere, che valorizza ancora di più la generosità e coinvolge, ancor più profondamente, le persone: la virtù della mitezza. Quest’ultima è un modo di porsi nel rapporto interpersonale e consiste in un armonioso insieme di attenzione, pazienza, affabilità e sincera accoglienza, che genera spazio d’incontro e suscita un sentimento di benessere, di possibile comunione e fraternità. Evidentemente, la persona mite ha maturato e coltivato in sé una chiara identità del proprio essere, una buona accettazione dei propri difetti e pregi, la conoscenza delle proprie attitudini e incapacità, la consapevolezza della propria professione, missione, finalità della vita e coscienza del destino ultimo. È una personalità piuttosto completa, anche se sempre perfettibile, com’è proprio della condizione umana, ma che vive in pace e serenità con se stesso. Ascolta tutti e cerca la comunione fraterna, ma non dipende da nessuno; possiede, inoltre, una buona autonomia di gestione di se stesso. Il vangelo afferma che costoro “avranno in eredità la terra” (Mt 5,5), e si capisce bene in che senso, non certamente per spadroneggiare e dominare. “Quanto più sei grande, tanto più fatti umile”. Nella persona autenticamente mite, grandezza e umiltà camminano assieme. Il farsi umile non è negare o diminuire le proprie virtù e capacità, ma assumerle, con la gratitudine e l’intelligenza di chi sa che sono un dono del Signore. Dono che, percepito come tale, è sviluppato, accresciuto e consolidato con applicazione, con la ferma volontà di destinarlo al bene degli altri e della collettività; ma, in ogni caso, è e rimarrà, sempre, un dono ricevuto. Per l’esercizio della virtù dell’umiltà “troverai grazia davanti al Signore” e, ai miti, “Dio rivela i suoi segreti”. Costoro partecipano dell’intimità e familiarità con Dio, ne condividono la vita, la gioia e la pratica dell’amore verso gli umili e i bisognosi di trovare un cammino e un significato alla propria vita; diventano testimoni del suo amore, manifestazione della sua presenza, “perché grande è la potenza del Signore (…)”. In tal modo motivano e favoriscono la causa del regno di Dio per un mondo più giusto, più umano, e una collettività fraterna e solidale. “(…) e dagli umili egli è glorificato” perché “l’uomo vivente è gloria di Dio e la vita dell’uomo è lode a Dio”, per l’immersione nell’oceano dell’amore di Dio, il mistero che è fonte di vita in abbondanza. L’autore riconosce la grandezza e il potere di Dio, pienamente testimoniato dall’umiltà del mite, con parole e atteggiamenti opportuni. Ciò manifesta la gloria di Dio; in altre parole, la santità del Signore presente in lui, per quel che la condizione umana consente. Il contrario dell’umile è l’orgoglioso; “Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi (…)per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male”. L’orgoglio è la caratteristica della persona che fa del proprio sapere, e della propria attività, un punto irrinunciabile e indiscutibile della sua competenza e professionalità. Ne fa questione di dignità o d’onore e presume che nessuno, e niente, la può intaccare. Diventa impermeabile a ogni osservazione, contributo che non rientri nei propri parametri, e l’amor proprio è così elevato che si sente ferito e infastidito da ogni contrarietà. Generalmente, è così sicuro di se stesso che guarda gli altri dall’alto verso il basso e, pertanto, la pianta del male va crescendo sempre più, in termine di non comunicazione, impossibilità di crescere nella conoscenza e qualificare l’esperienza. Finisce per isolarsi da tutti e da tutto, oltre ad essere vittima di un inganno. Perciò il testo termina con questa esortazione: ”Il cuore del sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio”. Per quanto profonda sia la conoscenza e ampia l’esperienza della propria attività, l’umiltà del saggio sa che non sa, che molto ancora deve imparare e che, quando e da dove meno se l’aspetta, può arrivare una luce, un’intuizione che mai avrebbe immaginato. Il desiderio di crescere in sapienza è così intenso da dare senso e sapore alla propria vita giornaliera, in ogni circostanza. Punto di riferimento importante di questo processo è l’immersione nel mistero di Dio che apre orizzonti inediti, come afferma la seconda lettura. 2a lettura (Eb 12,18-19. 22-24ª) L’autore rivolgendosi ai connazionali si riferisce all’esperienza di Mosè riguardo alla teofania del Sinai, descritta in termini di grande sconcerto personale perché accompagnata da fenomeni che generano spavento, paura e profondo timore. L’autore prende lo spunto da questo avvenimento che Mosè ebbe sul monte Sinai, e ricorda, ai destinatari dell’epistola, alcune caratteristiche. “Non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba o suono di parole”. Fu un evento impressionante e sconvolgente per coloro che erano presenti, non con Mosè sul monte ma ai piedi dello stesso, e ne tramandarono la memoria. Nonostante la distanza, essi rimasero così così colpiti che “scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola”. Il Dio che si manifesta come chi è “tre volte santo”, come dirà il profeta Isaia, ossia l’assolutamente “altro”, trascendente, intangibile e inaccessibile, nella persona di Gesù Cristo si fa prossimo, si avvicina, si fa uomo, diventa uno di noi e, come tale, “mediatore, dell’alleanza nuova”. Più ancora. In tale condizione diviene rappresentate davanti al Padre di ogni uomo, di ogni tempo e luogo – dell’umanità intera – per svolgere il ruolo di mediatore, di ponte, che collega il divino con l’umano e viceversa, nella perfetta identità e autonomia delle due parti, ma creando la comunione per la quale l’umano si divinizza e il divino si umanizza. Gesù media la nuova alleanza, sta nel mezzo fra Dio e l’umanità allontanatasi dal Padre. La finalità è riscattare il rapporto e la comunione, interrotti dal popolo per seguire un proprio cammino. Ripristinare il rapporto di familiarità e sintonia con il progetto di Dio, manifesta la gloria di Dio nella pratica della giustizia e dell’amore fraterno, in modo che ognuno, nella sua singolarità, abbia la vita in abbondanza e l’umanità piena armonia nel vincolo della pace. La nuova alleanza si sostiene per quello che Gesù ha insegnato e testimoniato, negli eventi giornalieri, con il suo stile di vita, il modo e il contenuto dei suoi rapporti interpersonali, l’audacia e il coraggio di reinterpretare la tradizione scontrandosi con chi la riteneva intoccabile, la pazienza verso l’incomprensione dei discepoli e l’opposizione di chi lo riteneva il contrario di quello che diceva essere e infine, con l’evento della sua morte e risurrezione e, particolarmente, per la ricaduta su chi ha fiducia in lui, nel senso di ridisegnare radicalmente, e una volta per sempre, il rapporto con il Padre nello Spirito Santo. La nuova condizione del credente, in virtù della nuova alleanza, oltre a percepire un orizzonte di comprensione di se stesso, prende coscienza del rapporto con Dio ben diverso da quello precedente. Infatti, “Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste”, per essere introdotti all’ambito del regno di Dio. Lo stare in Cristo, vivere con Lui – camminare con lui a fianco nelle diverse circostanze, come maestro e compagno di viaggio -, e agire per Lui a favore della causa del regno, oltre alla familiarità e alla comunione, permette di percepire il destino ultimo della città terrena, purificata da tutte le ambiguità e trasformata nella casa di Dio, la città del Dio vivente. Più ancora. Il credente in essa sarà in comunione con “migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nome sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti”. Queste ultime parole, riguardo al giusto reso perfetto, tracciano il cammino di costante crescita che sarà completato dall’azione di Dio in considerazione delle inevitabili debolezze e limiti umani. Infatti, il giusto non sarà tale in questa terra per la perfezione, ma per la costante e permanente accettazione degli effetti del mistero pasquale che lo rende tale e lo stimola alla crescita nella perfezione. Quest’ultima si manifesterà alla fine, nella gloria della Gerusalemme celeste, come indica il vangelo. Vangelo (Lc 14,1.7-14) “Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capo dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo”. Il giorno e l’invito non sono casuali in quanto il sabato, dopo la celebrazione nella sinagoga, secondo i farisei, era motivo di merito invitare a pranzo il predicatore. Probabilmente Gesù deve aver detto qualcosa riguardo al regno – era il suo chiodo fisso! – che li ha lasciati per lo meno perplessi, e per questo motivo era sotto la loro attenta osservazione. Prendendo lo spunto da ciò che stava accadendo riguardo all’accaparramento dei posti, “ notando come sceglievano i primi posti”, racconta la parabola e tira la conclusione “chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”. Ha di mira espressamente i farisei, molto impegnati e preoccupati per i primi posti del regno, in virtù dell’accumulo dei meriti acquisiti con le proprie azioni e la condotta in conformità con la Legge, specchio delle esigenze dell’Alleanza. Essi erano molto rigorosi nel compiere tutte le prescrizioni della Legge e della tradizione, in modo da rafforzare il diritto di occupare i primi posti. Gesù li vuole togliere dall’inganno perché è proprio del Padre assegnare i posti e ciò potrebbe essere un momento di onore o di vergogna dipendendo dall’esercizio dell’umiltà, ossia riconoscere la verità della propria condizione e la giusta portata della propria attività, preoccupandosi di stare in sintonia con l’autenticità di se stessi, dei valori di riferimento e della fede nella promessa. In tal caso non è difficile prendere coscienza della correttezza del rapporto con se stessi, con gli altri e con Dio e, sicuramente, non auto-designarsi per i primi posti. In loro c’era un qualcosa fuori luogo che, in un altro testo, il Signore mostra, parlando del momento dell’instaurazione ultima e definitiva del regno: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore’, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. In quel giorno molti mi diranno: ‘Signore, Signore, non abbiamo forse profetato in tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato i demoni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto prodigi?”. Ma allora io dichiarerò loro: “ Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità” (Mt7,21-23). L’affanno di acquisire meriti con attitudini e opere in se stesse lodevoli, li ha tratti in inganno. In un certo senso hanno elaborato una forma di auto giustificazione, in modo tale da ritenersi i primi destinati del regno. Infatti, ritenevano di compiere fedelmente le esigenze dell’alleanza nel compiere alla lettera i comandamenti della Legge; ma, così facendo, non stavano rispettando lo spirito e la finalità della stessa: la pratica del diritto della giustizia per instaurare una società fraterna e solidale. I farisei erano lontani dall’accettare quello che non entrasse nei loro schemi. Gesù li stava mettendo in guardia, per cambiare il loro orizzonte dal merito a quello dell’amore, quello che lui stesso stava facendo e mostrando. Pertanto, si rivolge a chi l’aveva invitato dicendo: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia in contraccambio. Al contrario, quando (…)”. La motivazione è la radicale gratuità. Partecipare al banchetto del Regno non è questione di maggiore o minore merito, ma della gratuità, la prima e fondamentale caratteristica dell’amore. Le opere inique che il Signore condanna sono, appunto, quelle sostenute dalla furbizia, dalla capacità di raggirare, dalla disonestà e dalla menzogna per il vantaggio personale, e non per la dignità, il rispetto, il bisogno di umanità del destinatario. La gratuità è la porta d’entrata nel Regno. La maggiore o minore intensità determinerà, da parte del Signore, l’indicazione del posto di chi, in virtù di essa, sarà considerato come giusto. In ogni caso, la gratuità sarà gestibile, in misura proporzionale da chi l’ha già ricevuta, assaporata e gioito in essa, per la giustificazione davanti al Padre dell’evento pasquale di Cristo. Per mezzo di essa il regno è già alla portata, in modo che“ sarai beato perché non hanno da ricambiarti”. E infine, nel regno “Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”, ossia la pienezza del dono, quando Dio sarà “tutto in tutti” (1Cor 15,28). " P. Luigi Consonni "
Posted on: Sun, 01 Sep 2013 07:24:38 +0000

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