DORIA, Andrea Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 41 - TopicsExpress



          

DORIA, Andrea Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 41 (1992) di Edoardo Grendi DORIA, Andrea. - Nacque a Oneglia il 30 nov. 1466. Il casato era illustre, ma distintamente feudale, di mediocrissima fortuna. Il padre Ceva aveva sposato Caracosa dei Doria di Dolceacqua. Indubbiamente le acquisizioni territoriali dei Doria non avevano avuto la rilevanza di quelle dei Fieschi e degli Spinola di Luccoli che gestivano centri appenninici di grande rilevanza strategica: nulla sappiamo delleffettiva coesione del gentilizio (Doria di S. Matteo e Doria dei feudi) che si era consolidato allinizio del Trecento e aveva formato albergo unificando i blasoni. Cera una forte tradizione del casato nellarmamento navale militare (Meloria, Curzola, Tenedo) ma non fu questa la strada che si offerse al giovane D., e neppure la tonsura o la mercatura. I feudali erano del resto i parenti poveri, né probabilmente erano forti le ragioni della colleganza come nel caso dei Fieschi, già alla testa di un forte Stato territoriale con forti posizioni nella Curia romana: uninfluenza in declino eppur in grado di organizzare nella splendida dimora di via Lata un centro di vita cosmopolita che sarà unico nella Genova del primo Cinquecento. Gli stessi Grimaldi, corsari a Monaco, erano pienamente inseriti nella vita economica europea tramite il controllo delle allumerie di Tolfa. Ed è a questa Roma dei Fieschi e dei Grimaldi che approda il D. nel 1484, orfano diciottenne e senza titolo giacché la madre prima di morire ha ceduto i suoi carati del feudo onegliese al cugino Gian Domenico. Gian Domenico, tramite i buoni uffici dei Cibo (Innocenzo VIII), imparentati coi Doria, e di Nicolò Doria, capitano al servizio del papa, riuscì a ottenere per il D. un posto in quel corpo militare. Succeduto al pontificato Alessandro VI (1492), il D. fu costretto a pigliar nuovi partiti ai casi suoi (Sigonio): fu a Urbino presso Guidubaldo (e non Federico, come scrive il non sempre esatto Sigonio) da Montefeltro e poi a Napoli, dove gli fu data una piazza duomini darme. Liberato dagli incarichi per la fuga di re Alfonso dinnanzi a Carlo VIII (1495), il D., dopo un viaggio in Terrasanta, si presentò con 26 balestrieri a cavallo pagati per tre mesi a Giovanni Della Rovere, prefetto dellUrbe, che gli assegnò la difesa di Rocca Guglielma presso il Liri, contro le milizie spagnole di Gonzalo Fernandez de Cordoba. Qui la narrazione del Sigonio assume un colore cavalleresco: la valorosa difesa, lammirazione e lo scambio di cortesie con Gonzalo, la fedeltà ai Della Rovere che lo mandarono in missione presso Luigi XII di Francia. Tutore del figlio e protettore della vedova del Della Rovere, il D. sarebbe riuscito a giocare dastuzia lo stesso duca Valentino a Senigallia e a sventare i piani di Giuliano Della Rovere (poi Giulio II) che ambiva impossessarsi dei castelli del fratello defunto. Ancora privo di mezzi, il D. accettò linvito del Banco di S. Giorgio e si arruolò nella condotta di Nicolò Doria contro Ranuccio Della Rocca, ribelle in Corsica. Nel 1507, mettendo a frutto il nuovo favore dei nobili genovesi (esiliati durante il dogato popolare di Paolo da Novi) cui fu prodigo di efficaci consigli, il D. ebbe una condotta per sé contro lo stesso Ranuccio: con 200 fanti e 40 cavalieri invase lo Stato dei Della Rocca, bruciò, imprigionò e uccise, sicché Ranuccio, appoggiato dalla Francia, si salvò solo attraverso un salvacondotto rilasciatogli dal Banco. Fondamentale fu questa saldatura con interessi genovesi che lo portò ad allearsi coi Fregoso e, forse per la mediazione di Nicolò tornato a comandare le truppe papali, con la politica della Lega santa di Giulio II. Era del resto la politica dei Doria alleati dei Fregoso e avversi ai Francesi: partecipò così alla spedizione del Contarini contro Genova e con Giano Fregoso rimise piede in città nel giugno 1512, prese parte allassedio del Castelletto e nellottobre assunse lincarico dellallestimento di due galere. Il 6 marzo 1513, seguendo ancora una volta Nicolò Doria, che, dimesso da Roma, aveva assunto il comando di una flotta genovese a tutela della navigazione, entrò al servizio della Repubblica come capitano delle due galere da lui fatte costruire. Ferito nellazione guidata da Emanuele Cavallo per impedìre che la fortezza della Lanterna, tenuta dai Francesi, fosse adeguatamente approvvigionata, riprese il mare dopo un mese: 950 lire al mese per ciascuna delle galere (una metà dello stipendio da riscuotere a sue spese per una tassa posta sulle Riviere protette dalle sue navi), onere suo il provvedersi di salnitri e palle di cannone, regolata la spartizione del bottino di guerra. Fu il peggior contratto che avesse mai firmato e dovette esibire i suoi garanti. Dopo che Adorno, Fieschi e Francesi ebbero rioccupato temporaneamente Genova, il 17 giugno tornarono i Fregoso che con Ottaviano tennero la città fino al sacco del 1522 perpetrato dallalleanza ispano-pontificia che restituì il dogato agli Adorno. Nel frattempo Ottaviano aveva clamorosamente invertito le alleanze ed era divenuto governatore per il re di Francia. La strategia dei Fregoso concedeva ampio spazio alliniziativa navale e non solo per difendersi dai tradizionali nemici, ma anche per contrastare lintensificata presenza turco-barbaresca nel Mediterraneo. Sotto il comando di Federico Fregoso, il D. aveva preso parte alla spedizione di Biserta contro il pirata Cotorgoli: poi, sempre nel 1516, proprietario di tre galere, aveva firmato un contratto con Ottaviano che gli riconosceva i pieni frutti della guerra di corsa. Ed è questa la direzione verso la quale si orientò sempre più lattività militare del D. che nel 1519 Poté riportare alla Pianosa una vittoria importante e lucrosa con la cattura di Gad Alì. Intanto Khair ad-dīn Barbarossa di Algeri era stato riconosciuto da Selim come luogotenente generale dellImpero osmano in Africa e questa saldatura nel Mediterraneo delle forze turco-berbere evidenziava appieno ai sovrani europei limportanza fondamentale del potere navale nel quadro delle rivalità italiane. Sconfitti i Fregoso, il D. offrì i suoi servizi al re di Francia e ai suoi alleati e questa opzione politica durò fino al 30 giugno 1528, anche nel periodo in cui il D. fu al soldo di Clemente VII (1526-27). Questo significa che le sue operazioni navali erano in buona parte vincolate a operazioni militari complessive nellarea mediterranea: in difesa di Marsiglia, contro la flotta imperiale di Ugo de Moncada, contro Genova, contro Napoli. Ciò non vietava colpi occasionali contro le navi spagnole e barbaresche, ma implicava una pluralità di comandi e la subordinazione a una direzione superiore. Era un tipico difetto dellazione militare cristiana nel Mediterraneo, più spesso azione di forze alleate che occorreva radunare e conciliare in una difficile unità di obiettivi. Già sotto Francesco I balzarono in chiara luce questi difetti di coordinamento, motivazioni politiche diverse, difformità di valutazioni militari, materia di contrasto che finì per compromettere la posizione del D. alla corte di Francia. In particolare la questione del diritto del corsaro al beneficio del riscatto dei prigionieri fu materia di ampia contestazione: Francesco I esigeva la consegna dei prigionieri di riguardo e non pagava. Il re aveva scarsa comprensione per il carattere mercantile del servizio del Doria. In realtà lunico scontro navale di un qualche rilievo fu la battaglia di Capo dOrso (Paestum) nellaprile 1528, quando otto galere guidate da Filippo (Filippino) Doria sconfissero sei galere del Moncada che fu ucciso in battaglia. La vittoria tuttavia non ebbe conseguenze politiche: Napoli fu salva e per le diffidenze dei Veneziani e per il disimpegno del Doria che aveva preferito rimanere a Genova, riconquistata ai Francesi nellagosto 1527. Fin dal 1525 Carlo V aveva cercato di stornare il D. dallalleanza antimperiale. Il cancelliere M. Arborio marchese di Gattinara fu tenace assertore di questa esigenza politico-militare presso limperatore: il D. e Genova erano elementi decisivi nel rapporto di forza militare. Il mare in mano ai Francesi comprometteva gli approvvigionamenti spagnolì. Francesco I aveva nominato il D. suo luogotenente nel Mediterraneo e lo aveva insignito dei cavalierato di S. Michele. Rimanevano però antiche e nuove pendenze: i crediti del D., la questione di Savona, lopposizione allUnione cittadina secondo il programma dei Dodici riformatori, pur particolarmente attivi sotto il governatore T. Trivulzio. Fu proprio la prontezza imperiale a sciogliere questi nodi che indusse il D. ad accantonare gli ultimi dubbi. Così come dal punto di vista del D., anche dal punto di vista imperiale lopzione dellammiraglio era vista come omologa dellopzione di Genova. La carriera del D. segui davvicino quella di Nicolò Doria ed entrambe si iscrivono nellambito di influenza della politica pontificia: Ottaviano Fregoso era un protetto di Leone X. E tuttavia decisivi per le fortune del D. furono i contatti presi con gruppi politici genovesi a partire dal 1506: furono questi con qualche importante appoggio economico che gli aprirono la carriera del mare. Lopzione per questo tipo di imprenditoria militare aveva certamente delle motivazioni mercantili (guerra di corsa, stipendi). Tuttavia, almeno fin dalla missione presso Luigi XII del 507, il D. coltivò tenacemente il proprio ruolo politico: la scelta della dimora a Fassolo fu compiuta già nel 1521 quando non aveva che quattro galere. Per quanto avesse reclutato persone del casato, vi è qualche testimonianza che il voltafaccia del 28 avesse causato in esso dei malumori: i Fregoso rimanevano esiliati e ostili alla Repubblica ispanizzata. E tuttavia la risoluzione del 1528 aveva segnato il pieno sequestro personale del mito antico dellUnione ravvivato come non mai dallopera dei riformatori. La gestazione della riforma costituzionale del 1528 è ancora avvolta in molte oscurità, cosi come in generale il quadro sociopolitico urbano fra Quattro e Cinquecento. La rivolta delle capette - il dogato del tintore Paolo da Novi (1506) - può esser letta come lanticlimax della serrata del 28 e della nuova costituzione aristocratica. Tuttavia il quadro da dipanare e ben altrimenti ricco. Fin dagli ultimi decenni del Quattrocento ci sono ampie testimonianze di un movimento di giovani, associati fuori della solidarietà degli alberghi, che esprimono nel titolo delle loro società laspirazione alla unione e alla concordia, proprio mentre enfatizzano la concorrenza cerimoniale fra nobili e popolari compartecipi del governo genovese. Sono poi molto probabili i legami della compagnia dei giovani del Divino Amore, radicalmente novatrice della carità nei primi decenni del Cinquecento, con gli ambienti umanistici in cui si fece strada, attorno a Ottaviano Fregoso, il progetto della Riforma. Il D., che non era certo un umanista, non fece che secondare un progetto lungamente in gestazione, dandogli lo sbocco della indipendenza. Enorme dovette essere il prestigio derivante dalla realizzazione di quel lungo mito dellUnione secolarmente frustrato nella città divisa. LUnione fu unoperazione politica conservatrice: non una restaurazione del Comune originario gestito in forma senatoria dai maggiorenti, ma una Repubblica aristocratica che definiva una volta per tutte i quadri della civilitas come linsieme delle famiglie di coloro, di parte nobile e popolare, che avessero ricoperto le cariche politiche maggiori prima del 1506. Nasceva così la moderna nobiltà genovese col suo Libro doro, una nobiltà caratteristicamente politica, proclamata classe con diritto esclusivo alle cariche repubblicane. Si trattava di un sottile ricalco della costituzione politica del Banco di S. Giorgio ove la selezione e le differenziazioni erano fra luoghisti comunque e classi di luoghisti, cioè di detentori dei titoli del debito pubblico. La soluzione istituzionale seguiva una logica appropriata: incremento delle strutture rappresentative (i Consigli) con funzioni elettive, consultive e talora anche deliberative; collegializzazione del potere del doge fatto pari ai senatori affiancati dai procuratori: i serenissimi Collegi; istituzione di una suprema magistratura di controllo, i Supremi sindacatori, il cui sindacato era a sua volta giudicato dal Consiglio minore. Ed è qui che il D. scelse di collocarsi nel 1528 come membro a vita del Collegio dei supremi sindacatori: con lui Sinibaldo Fieschi e altri tre nobili vecchi, certamente non a vita. La scelta è significativa come scelta dintenzione. In ogni caso più dei fattori e dei ruoli istituzionali continuarono a contare quelli personali. La presenza di un tradizionale avversario come il Fieschi testimonia dellunanimismo di facciata del 1528, ma in effetti è necessario rintracciare la formazione e la presenza di un partito del Doria. La formidabile posizione dellammiraglio e lindipendenza formale del governo comportavano un certo dualismo: la Repubblica e il luogotenente imperiale ci appaiono come due corpi politici diversi e in ogni caso due centri distinti di iniziativa politico-diplomatica. Ma lasimmetria era netta e qualificata dal ruolo di mediazione esclusiva fra la Repubblica e lImpero che lasiento del 1528 riconosceva allammiraglio. Materia del contratto infatti non erano soltanto questioni di stipendi, di assicurazione sulla regolarità bimestrale dei pagamenti, del placet imperiale alla guerra di corsa, ma anche il riconoscimento della preminenza genovese su Savona e dellindipendenza della Repubblica sotto la sovranità nominale dellimperatore. Successivamente il D. otteneva il titolo di capitano generale dellarmata imperiale marittima (26 agosto) e, latore il nuovo ambasciatore G. Suárez de Figueroa, garanzie sullapprovvigionamento granario dalla Sicilia (per le galee e la città) e il riconoscimento di un ruolo di mediazione per gli asiento de dineros che Carlo V avrebbe negoziato con gli uomini di negozio genovesi. Il D. era così posto nella condizione magnanima e prestigiosa di offrire la libertà alla Repubblica sostanziando questo atto con la demolizione della fortezza del Casteltetto, simbolo del dominio straniero. I primi capitoli dellasiento del1528 guidano liniziativa diplomatica genovese, i temi della libertà e dellindipendenza della Repubblica ne sono la base ispiratrice, integrata più tardi dal tema classico della neutralità. Questo consenti ai Collegi di presentarsi su tale piano sia pure formale come liberi dal riferimento troppo ovvio alla personalità dominante dellasientista che del resto non era giuridicamente riconosciuta come tale. Le preoccupazioni dello Stato mercantile (non compromettere gli interessi esteri), la stessa formula di darsi in signoria personale a un principe straniero, soluzioni di difesa e di compromesso, si evolvevano in programma politico-diplomatico di una personalità statuale autonoma che vedeva riconosciuto il suo rango negli accordi internazionali. Mito diplomatico? E possibile: ma questo è appunto il livello operativo del gioco politico, quello delle formulazioni giuridiche. Linterlocutore non può appellarsi alla sostanza delle cose e la sostanza non vè dubbio era quella di un governo strettamente condizionato dalla volontà del D. che agiva daccordo con lui e che, lui assente, era tenuto a inviargli circostanziate relazioni. Lasimmetria risulta evidente sul terreno cerimoniale. Non vè dubbio che il cerimoniale privato e quindi il prestigio del principe era clamorosamente esaltato dalla sua preminenza nei rapporti con la corte e i governatori spagnoli, ricevuti sistematicamente nel palazzo di Fassolo. Da questo punto di vista il D. non faceva che portare a compimento, esemplificare nel modo più brillante e assoluto, una costante della storia politica genovese: quella di una tradizione di cerimoniale privato in concorrenza vittoriosa con lo sviluppo, promosso e insieme bloccato, di un cerimoniale pubblico. Il segno più vistoso della supremazia doriana è da individuare nelle vicende del palazzo di Fassolo, un sito già scelto nel 1521 e la prima fase dei lavori conclusa già nel 1529. Il palazzo doveva crescere per un secolo: moltiplicarsi le fabbriche, i porticati, gli affreschi, le decorazioni, i giardini. Il corsaro poteva secondare i suoi gusti, formatisi nella giovinezza romana: come i Gonzaga avevano chiamato a Mantova Giulio Romano, egli chiamò Pietro Buonaccorsi (Perin del Vaga), anchegli un discepolo di Raffaello, che lavorò a Fassolo fra il 1528 e il 36. Non vi fu unità organica nella costruzione architettonica: da uniniziale massa squadrata, quasi di fortezza, si sviluppò - tramite espansione della linea orizzontale in armonia con lo spazio e la natura circostante - la villa cinquecentesca dispirazione rinascimentale. Così il D. offriva un modello nuovo alla classe dirigente genovese: limmagine di un reggente illuminato e umanista che sadoperava a trasformare il cantiere di Fassolo in unoccasione culturale internazionale rompendo decisamente con gli schemi tradizionali della conimittenza genovese. Il contraltare era il palazzo Fieschi di via Lata, anchesso dotato di accesso al mare. Ma la decorazione di Fassolo esprimeva decisamente nella figurazione mitologico-storica lincomparabile posizione di potere e prestigio del residente e, nello stesso linguaggio artistico, la dimensione internazionale della corte doriana che ospitò Carlo V (1533), Paolo III, e il futuro Filippo II (1548): principi, generali, ambasciatori e artisti di fama europea. Fu un episodio unico nella storia di Genova, quello di una dimora regale, di una corte internazionale, espressioni del ruolo eccezionale del principe, signore di Genova e luogotenente di Carlo V. Il linguaggio pittorico e decorativo ne esprimeva il programma politico con la caratteristica enfasi retorica della celebrazione di un apogeo, i trionfi del D. e di Carlo V posti sul medesimo piano. In particolare liconografia del Doria-Nettuno si affermava in Genova e fuori Genova ora nellaccentuazione mitologica, ora in quella realistica, a seconda delle esigenze. Non vè dubbio che la società genovese, nobile e popolare, recepisse questo messaggio. Il prestigio personale era chiaramente un instrumentum regni e il D. ne aveva coscienza. Egli prendeva cura di ospitare alla sua corte i nobili genovesi, a cominciare dai figli di Sinibaldo Fieschi. Conviti, intrattenimenti musicali, giostre e tornei, gioco della palla: il rampollo della nobile casata genovese poteva aver la ventura di conversare con i principi dItalia e dellImpero, di giocare a palla col marchese di Pescara, gran generale di Carlo V. Naturalmente il vecchio ammiraglio si costruì anche la famiglia che non aveva, giacché il suo matrimonio con Peretta De Mari (Usodimare), vedova Del Carretto, era rimasto sterile. Ma non mancavano i figli di primo letto di Peretta: il D. adottò MarcAntonio, nominato nel 34 erede del principato di Melfi e andato sposo alla figlia di don Giovanni de Leyva. Nominò poi suo luogotenente imperiale, ed erede, Giannettino Doria, figlio di Tomaso, suo cugino di primo grado. La serie degli onori e dei titoli aumentava continuamente: cavaliere di S. Michele, principe di Melfi (con rendita di 3.000 scudi), cavaliere del Toson doro, duca di Tursi, protonotaro di Napoli. Si aggiungano le prestigiose relazioni personali: non mancavano davvero le possibilità per lesercizio di un efficace patronato. La straordinaria ascesa sociale e politica dei Barbarossa e dei Dragut è stata posta in connessione con le fortune della pirateria, la pirateria mondo americano come ha scritto Braudel. Il norne chiaramente distingueva il D. da quegli ammiragli barbareschi e quel nome fu certamente un prezioso strumento politico per linserimento nei quadri della vecchia nobiltà genovese. In ogni caso del tutto eccezionale fu la fortuna che gli concesse dimporsi su quellaristocrazia avviata verso uno strepitoso ruolo di egemonia sulla finanza europea e pronta a prender ispirazione da Fassolo nella splendida vicenda architettonica di strada Nuova. A Fassolo i segni della eccezionalità, lisolamento e il fasto si sposavano con lubicazione strategica, lontano dalle risse cittadine, vicino alle sue galere. Figueroa, il maggior conoscitore spagnolo delle cose di Genova, poteva ancora sostenere nel 1559 che il comando delle galere rappresentava la chiave di volta della situazione politica genovese. Indubbiamente questa era stata lintuizione fondamentale del Doria. E nondimeno quello stuolo di galere doveva esser redditizio: la crescita delle entrate era necessaria a sostenere il carisma. Accanto al D. spicca la figura di uno straordinario mercante e banchiere, Adamo Centurione, che appare come lattento gestore degli affari del D.: unimpresa quella dellasientode galeras che richiedeva spese ingenti, anticipazioni di danaro, sollecitazioni e trasferimenti dei pagamenti. Verso il 1540-50 Francesco Lomellini e i suoi fratelli appaiono come gli abituali fornitori di biscotto per le galere, Francesco Grimaldi fornitore di tela e carne, ma Adamo deve firmare tutte le cedole relative. In unoccasione almeno fu inviato a discutere con limperatore i termini del nuovo contratto di asiento. Sitrattava di unazienda come unaltra e non vè dubbio che il D. la considerasse come tale: il D. come altri suoi contemporanei ammiragli, un Barbarossa, un Paolo Vettori, uno Strozzi. Come ogni altro mestiere poi questo dellimprenditore di guerra comportava una logica, le regole di un gioco, un gioco singolare fra corsa e guerra, della cui natura il D. era perfettamente consapevole. Le entrate, cioè i pagamenti di Carlo V, erano stabilite come anticipi, ma a rate brevi e certamente non corrispondenti alla dinamica della spesa. A probabile che limperatore assegnasse carattere di priorità a questi pagamenti: le difficoltà per il D. erano piuttosto quelle poste dalle esportazioni di numerario dalla Spagna. Nel 1552, ad esempio, lammiraglio lamentava che dei 123.000 ducati pattuiti egli riusciva a rimborsarne soltanto 96.170. La struttura della spesa si articolava nelle voci: corpo della nave, cioè costi dello scafo e dellarmamento coi relativi tempi di ammortamento, e costi di riparazione e sostituzione più il mantenimento, cioè il soldo pagato a marinai e buonavoglia e il vitto necessario a tutti. Nel caso di impiego di schiavi al remo lacquisto degli stessi comportava un massiccio investimento. I rematori potevano comunque esser razziati o ottenuti come preda di guerra, mentre i forzati potevano esser ottenuti per la benevolenza di qualche sovrano fin dalla lontana Ungheria. La galera, lunga e sottile, non più di 3.000 cantari di portata, raccoglieva a bordo 250-300 uomini e più (a seconda del carico di soldati) in 250 mq: il nucleo prevalente era composto dai rematori disposti a 3 0 4 per banco per 3 0 4 remi, poi un remo solo col successo, tardo, del sistema alla galozza. Questi rematori, 150-170, erano sulle galere del D. soprattutto schiavi. A metà secolo uno schiavo poteva valere 40 scudi per un totale di 6.000 0 7.000 scudi mentre un buonavoglia era pagato 6 lire al mese, cioè 13 scudi allanno (7-8 mensilità): 170 costavano così 2.200 scudi allanno. Bastava quindi che un rematore schiavo vogasse per tre anni e la preferenzialità economica del suo impiego era assicurata. Inoltre poteva non costare nulla: per i forzati si raccomandava di non accettarne se non fra i condannati a più di sei anni. Lincidenza dei costo-nave non era elevata: lo scafo rappresentava il 40-50% di un costo complessivo dato nel 1552 a 1.600 scudi. Calcoli di poco successivi stimano il rapporto fra costo dellimbarcazione armata e costo della ciurma schiava a un terzo verso due terzi: la nostra valutazione abbassa ulteriormente lincidenza della prima voce di costo. In ogni caso saggiungeva alla seconda voce il pagamento del soldo, per prodieri, nocchieri, artigiani, uomini di cavo e i costi del vitto per tutti sicché il costo del mantenimento era valutabile a 3.000-3.500 scudi. A metà secolo quindi lincidenza delle tre voci di costo - armamento, schiavi e mantenimento - era rispettivamente del 14, 54 e 31%. Ma le prime due voci vanno frazionate nel bilancio annuale secondo un quoziente dato dal tempo di ammortamento. La galera poteva reggere il mare 4 0 5 anni: calcoliamo così 320 scudi allanno. Più aleatoria la durata dello schiavo al remo: se calcoliamo una media di dieci anni avremo 600-700 scudi allanno. In totale quindi 1.000 scudi, cosicché il costo prevalente appare nel bilancio annuale quello del matenimento (il 75%). Rispetto a un costo annuo di 4.000-4.500 scudi abbiamo un pagamento che nellasiento del 1528 si poneva già al di sopra: 5.000 scudi e non più di 6.000 alla metà del secolo. Il margine era dunque di 1.500 scudi per galera (massimo 2.000). Le difficoltà di estrarre il numerario dalla Spagna appaiono così decisive per lequilibrio economico dellazienda. Questa era cresciuta rigogliosamente: dodici galere nel 1528, quindici nel 1530, diciassette in azione a Tunisi nel 35, ventidue nel 38 alla Prevesa e nel 41 ad Algeri, venti nel 1547 e nel 52: diciamo un esercito di 6.000 marinai e rematori, un capitale di 150.000 scudi. Osserviamo che nella Genova della metà del secolo solo quattro cittadini erano accreditati di una fortuna superiore alle 300.000 lire. Il teorico capitale del D. dava un reddito, sempre teorico, del 20%: un buon investimento si direbbe, ma, in unepoca in cui gli operatori economici erano soliti variare i propri investimenti, quello del D. era un investimento di capitale eccezionalmente univoco e in un settore esposto ai temporali, ai pirati, alle flotte nemiche e in ogni caso governato dallesterno, cioè dalliniziativa politica dellimperatore. Quanto tempo gli era lasciato per la favorita guerra di corsa o per qualche prezioso carico di seta e dargento da prendere a nolo? Trasporto di soldati, di principi, di sovrani; pattugliamento di coste; azioni contro corsari; partecipazione ad assedi e imprese militari a grande raggio; lunghe soste nei porti linverno o al riparo di flotte nemiche strapotenti. Le immense cure del luogotenente generale di Carlo V nel Mediterraneo, nella scia di una politica continentale, mediterranea e italiana sempre alla ricerca di una difficile egemonia imperiale, era un castello che appena puntellato sembrava crollare di colpo. E proprio sul mare il più duro e terribile dei nemici, la flotta di Solimano, alleata dei corsari barbareschi di Algeri. Un sistema di guerra oramai antico: sempre più uomini negli stessi spazi di una volta e pochi cannoni perché appunto lo spazio era ridotto; guerra crudele e astuta, condotta dagli ammiragli indigeni con accortezza mercantile, nel dispregio assoluto di qualsiasi convenzione cavalleresca che sul mare non aveva mai attecchito. Del resto come rimproverare al D. e al suo rivale di avere anchessi una propria Realpolitik che sidentificava con la cura dei propri interessi? Carlo V doveva aver comprensione per questo interesse. Il legame stretto nel 1528 fra un giovane imperatore e un ammiraglio già sessuagenario doveva durare fino alla morte. Il D. entrava così nella grande storia del suo secolo: come interprete sul mare della politica imperiale e come signore di Genova. Luomo grave e appassionato che fu Carlo V non manifestò mai dubbi di sorta nei confronti del suo ammiraglio. Fin dal 1528 aveva dunque perfetta consapevolezza dei servizi che poteva attendersi: legoismo mercantile del D. gli appariva del tutto logico e accettabile. Gli assicurava comunque il controllo di Genova e una guida per una flotta sempre composita: galere di privati e di Genova, di Napoli e di Sicilia, galere spagnole, pontificie e di Malta. Tale ricorrente sforzo navale rappresentava una componente non secondaria nel complesso gioco politico e militare internazionale che riguardava la Berberia e tutto il continente fino alle pianure danubiane e richiedeva quindi una straordinaria mobilitazione di energie militari, diplomatiche e finanziarie. In effetti non si può isolare la vicenda mediterranea dal contesto di questa politica che fissava volta a volta allimperatore priorità diverse. Fu sul Mediterraneo comunque che prese corpo lalleanza franco-turca; era nel Mediterraneo verso il Magreb che gravitava la tradizionale politica spagnola e verso Oriente (Cipro e Corfù) che gravitava invece la neutralità armata di Venezia, non riconducibile alla egemonia imperiale ma naturalmente nemica del grande Impero osmano. Ancora: era sul Mediterraneo che ancora poteva pulsare il grande progetto storico della crociata, ripresa nel vario contesto dei rapporti fra Impero e Papato e in grado di vincolare temporaneamente anche i nemici cristiani di Carlo V. Se lette nel più ampio contesto politico-diplomatico le campagne mediterranee del D. ritrovano una loro razionalità di congiuntura: considerate per se stesse, secondo unottica strategica di più lungo periodo, esse indicano certamente un insuccesso, sottolineano lascesa turco-barbaresca e la situazione di scacco della flotta imperiale dal 1538 al 1560 e oltre. La caduta di Rodi (1522) aveva aperto il Mediterraneo ai mussulmani. Algeri si affrancava direttamente nel 1529 e diventava sotto il Barbarossa la capitale militare nel Mediterraneo. Per qualche tempo il D. mantenne una certa iniziativa: nel 1530 muoveva alla testa di trenta galere (tredici francesi) contro Scercel, ma la spedizione non ebbe esiti molto positivi; nel 1532 fu la volta della Morea con la conquista di Corone e Patrasso, ma il mancato accordo coi Veneziani fece sfumare loccasione per battere la flotta di Ahmed. Nel 33 ancora Corone fu soccorsa con successo. Lanno seguente tuttavia il Barbarossa assumeva il comando della flotta mussulmana: alleato coi Francesi, saccheggiava indisturbato lItalia meridionale e conquistava Tunisi. A questo punto limperatore reagì e nel 35 organizzò la liberazione di Tunisi, senza riuscire però a catturare Barbarossa che sfuggì alla sorveglianza di Adamo Centurione. Nel 36 il D. era impegnato in Provenza; nel 37 i Veneziani investirono Corfù e poi conquistarono le Cicladi: il D., forte di trentadue galere, sconfisse dodici galere turche ma il prezzo pagato fu molto alto. Nel 38 lo scacco della Prevesa: la lega antimussulmana, forte dellappoggio veneziano, si dissolse in una parodia di battaglia che inaugurò legemonia mussulmana sul Mediterraneo. Ormai la sproporzione delle forze era evidente: Antonio Doria in una relazione del 1539 sostenne che per contrastare il Turco occorrevano duecentocinquanta galere e a questo fine era necessaria lalleanza con Venezia. LImpero avrebbe dovuto tenere in campo centoventicinque galere invece delle sessantadue che teneva abitualmente. Era necessario che lo stuolo restasse unito a lungo, che avesse un suo porto fisso. Il necessario sforzo finanziario era stimato ammontare a 430.000 scudi allanno. Ormai la carta dellalleanza veneta era stata buttata via alla Prevesa e non sarà più disponibile fino ai giorni di Lepanto. Il D. era sulla difensiva. Ancora uno sporadico successo nel 1540 quando Giannettino Doria catturò Dragut che venne incatenato al remo. Ma subito dopo fu il disastro di Algeri: la spedizione imperiale naufragò miseramente sulla spiaggia africana. In quei giorni il D. salvava lImpero e Carlo V riconoscente lo nominava protonotaro del Regno di Napoli e marchese di Tursi. Ormai la partita mediterranea era ampiamente compromessa e di conseguenza scemò limpegno nel Mediterraneo. Ancora nel 43 il D. poteva battere la squadra francese isolata, ma larrivo di Barbarossa capovolse la situazione: Nizza fu saccheggiata, Genova risparmiata. P un fatto che loro genovese aveva cominciato a correre, che rapporti più o meno segreti erano mantenuti con la Porta e con i pascià dagli stessi Imperiali. Si spiega così la liberazione di Dragut, la cui vita valeva bene un sacco di Genova. Accordi personali o accordi politici? Il confine è sfuggente e comunque pedantesco. I tornaconti del D., come quelli della Repubblica, sono evidenti: Barbarossa era corruttibile come più tardi lo furono i pascià, né lammiraglio poteva opporsi alla soverchiante forza mussulmana. Le successive spedizioni contro Dragut, il più famoso corsaro mediterraneo, furono infruttuose. Nel periodo di pace militare sul mare fra il 1545 e il 1550 era divampata la guerra di corsa: tipica risorsa dei tempi di magra quando non era possibile sostenere lo sforzo grandioso della guerra di flotta e le priorità sono diverse (i Turchi impegnati in Persia). Lazione militare del D. si caratterizza così per lestrema prudenza. Il capitale in gioco era prezioso e dopo il 1538 il rapporto di forze era decisamente sfavorevole. Daltra parte una clamorosa disfatta era pregiudizievole anche per gli interessi imperiali. Certamente anche il destino di Genova era direttamente coinvolto da questa vicenda militare, la minaccia corsara sempre viva sulle Riviere, soprattutto dopo il 1540, una sorta di grande paura che non favoriva certo il carisma del Doria. Poteva dun colpo cessare la passione faziosa proprio quando la mobilità della situazione internazionale, la grande volatilità delle fortune militari, gli interessi e gli intrighi dei papi, dei re e dei principierano allopera sulla società genovese, questo sensibile nervo dellegemonia italiana di Carlo V? Lepisodio classico fu la congiura del conte Gian Luigi Fieschi del 1547, ma essa rivelava appunto un nido di vipere. Fu una classica tragedia rinascimentale, di quelle care alla sensibilità romantica. Cominciava con una rivalità di giovani: il colto e sensibile Gian Luigi e il rozzo Giannettino Doria, balzato dalle povere rendite onegliesi ai fasti della luogotenenza imperiale per il favore dello zio. In un certo senso la riproduzione di un contrasto stereotipo: laristocratico raffinato e il parvenu politico che tutto si permetteva, perfino di insidiare la moglie del primo. Orgoglio di casato, invidie marinare, gelosie di marito alimentati dalla frequentazione stessa e strumentalizzati dalle corti di Roma e di Francia. La rivalità acquista presto risvolti politici, stimolati dalle tradizioni di ostilità familiari e da un certo clima culturale: popolo e libertà contro tirannide, lesempio antico di Bruto. Il passaggio allazione è fatale a entrambi i contendenti nella stessa notte fra il 2 e il 3 gennaio: Gian Luigi morto affogato per una banale caduta in mare e Giannettino morto ammazzato mentre accorre alle grida. Un fulmine a ciel sereno che coglie il principe impreparato ma lesto comunque a sellare un cavallo per Masone. Morti i protagonisti, il gioco delle parti si rivela solo lentamente in un lungo stillicidio di quadri: diffidenze e connivenze, alternative e continuità. Notiamo anzitutto la preoccupazione generale per quel che sarebbe accaduto con la morte del vecchio principe ottuagenario. Che occorresse agire subito era opinione diffusa, tanto da parte spagnola quanto da parte genovese. La linea apologetica di Scipione Fieschi fu quella che Gian Luigi volesse evitare una signoria di Giannettino. Lambasciatore Figueroa del resto aveva posto il problema della successione fin dal 1533. Ma cerano diverse tendenze attorno alla congiura e una faceva capo a Spinola e Adorno, nonché a un popolare influente come Lasagna. Allindomani dei fatti di gennaio questo gruppo si presenta come oltranzista filoispanico e Agostino Spinola come luomo di Figueroa. E ovviamente cerano anche i fregosardi. Ma le forze dellopposizione non riuscirono a coagularsi. Uniniziativa di famiglia quella di Gian Luigi, i fratelli, i cognati Niccolò Doria e Giulio Cibo. I primi furono subito compromessi, ma ottennero lindulto da un Senato diviso e spaurito, purché abbandonassero Genova. Ma risulteranno coinvolti anche uno Spinola, un Giustiniani e lex doge G. B. Fornari. Ancorché la frattura fra nobili vecchi e nobili nuovi fosse già in atto - comè dimostrato dallelezione a sorpresa dello stesso Fornari nel 45 - la loro collaborazione nelle diverse fazioni traspare tuttavia chiaramente. Cè il sospetto di un sostegno plebeo allazione dei Fieschi: con riferimento al Verrina e al suo seguito nonché alla benevolenza del conte Fieschi verso i tessitori di seta. Il 1546, occorre ricordare era stato anno nero per gli approvvigionamenti granari. Linterrogativo rimane. Anche il Lasagna vantò al Figueroa un sostegno di massa alla causa spagnola. Nel febbraio del 1547 lambasciatore comunicava a Carlo V la notizia di un moto fomentato in borgo S. Donato da un tale di casa Doria contro la minaccia Spagna e Adorno, y como en atiquella parte son Fregosos, facilmente se alborotaron todos. Lantica tradizione del governo a cappellaccio, cioè di fazione, poggiava su sentimenti ancora ben vivi di partigianeria rionale. Il D. ne era consapevole e ribatteva allambasciatore che era meglio che fossero disuniti con le loro passioni particolari cosicché non avrebbero fatto novità. Certo il processo dellUnione che aveva preso corpo nella costituzione del 28 non era molto avanzato e la signoria informale del D. appariva come una pausa nel gioco politico decisivo delle fazioni. Su di esse lavoravano tanto Adamo Centurione che si proclamava come vero interprete dellumore dei cittadini per conto dellammiraglio, tutto preso dalle cose militari, quanto il Lasagna per Agostino Spinola. Di fatto gli avvenimenti del 1547-48 riportavano in primo piano il ruolo delle grandi famiglie Fieschi, Doria, Spinola con qualche frattura interna, più vistosa nel caso dei Doria forse per la rivalità acuta fra il D. e il cugino cardinale Gerolamo, padre di Nicolò imparentato coi Fieschi. Figueroa e Ferrante Gonzaga sembravano puntare sugli Spinola, più pronti ad accettare il progetto della fortezza che avrebbe dovuto garantire il controllo della città allImpero: contro, Adamo Centurione, che appare il vero capofila del partito del principe, controllava col figlio Marco le galere ed era in effetti il più probabile successore del Doria. Del resto i funzionari imperiali non potevano trascurare la volontà del D. che non consentiva che uno Spinola occupasse il posto di capo militare di una più sostanziosa guarnigione a Genova. In questi mesi critici il suo predominio era garantito dalle venti galere ancorate nel porto e pagate da Carlo V: 125.000 scudi allanno - annotava Ferrante Gonzaga - assai più di quanto sarebbe occorso per costruire la fortezza. Francesco Grimaldi e Adamo Centurione con due successive missioni per conto del principe presso Carlo V erano riusciti a stornare la minaccia immediata. Tutto era stato rimandato alla imminente visita del principe Filippo a Genova. Filippo venne infatti verso la fine del novembre 1548, ospite del D. a Fassolo: lungo la via, cosparsa di archi di trionfo, le imprese pitturate su enormi pannelli di legno ripetevano i motivi celebrativi ormai tradizionali, e una di queste invitava il giovane ingegno a cedere di fronte alla matura esperienza. Bernardino Mendoza, in un suo classico ragionamento, difendeva lindipendenza di Genova: giuri fiscali e feudi legavano sempre più la nobiltà, la vecchia soprattutto, ai destini della Corona spagnola. Era linvisibile ma inespugnabile fortezza dellinteresse più solida e duratura di quella del Castelletto: una giusta intuizione dei tempi nuovi che erano maturati con la più recente e massiccia partecipazione dei capitali genovesi ai prestiti imperiali. Il D. rimaneva probabilmente legato alla simbologia del 1528, quando egli aveva fatto abbattere la fortezza. In ogni caso lautorità ufficiale della Repubblica fu chiaramente coartata e la diplomazia parallela del principe si rivelò ben più decisiva che non liniziativa dellambasciatore Ceva Doria. Lindulto concesso ai fratelli Fieschi era stato revocato; Montoggio assediata e i colpevoli, a cominciare da Gerolamo Fieschi, messi a morte. Così nella corsa alla spogliazione dei feudi Fieschi le aspirazioni della Repubblica su Torriglia e Montoggio erano state frustrate: il D. ottenne, a titolo di risarcimento per i danni subiti e per la benevolenza imperiale, questi e altri feudi dei Fieschi. Antonio Doria ebbe Santo Stefano e la Repubblica dovette accontentarsi di Roccatagliata e Varese (Varese Ligure), centri non altrettanto importanti dal punto di vista strategico. La cronaca di questi mesi cruciali getta luce sul carattere della signoria doriana: in ultima istanza lelemento decisivo è rappresentato dal rapporto speciale con limperatore. Per quanto ostili e critici, soprattutto il Gonzaga, i funzionari imperiali non potevano prescindere dalla sua volontà e neppure dai suoi umori. Lasientista tenevain sella il signore. Lesito interno fu la creazione di una maggiore solidarietà fra i nobili vecchi: da questo punto di vista la riforma costituzionale del 1547 fu un chiaro atto di partigianeria politica. Vecchi erano tutti gli asientistas de dineros. Al di là della semplice riforma del sistema elettorale il D. tendeva a una drastica riduzione dei membri dei serenissimi Collegi e cioè a un potenziamento dellesecutivo in senso oligarchico. La riforma detta del garibetto creò un forte scontento fra i nobili nuovi e polarizzò il contrasto sociale e politico nella classica linea storica del contrasto fra nobili e popolari smentendo lUnione. I nodi sarebbero venuti al pettine nel 1575. Per il momento la stella del D. poteva continuare a brillare. Beninteso si continuò a parlare del problema della successione. Non è chiaro quanto questo problema fosse o restasse legato con quello del comando delle galere: il D. era comunque il più grosso proprietario di galere su piazza e questo era un patrimonio ben suo, che egli poteva risolvere in termini di delega e successione. Intanto nel 1551 riapparve la flotta di Siman pascià che conquistò Tripoli: il D., rinchiusosi in Villafranca, rifiutò perfino lo scontro con lo stuolo francese dello Strozzi. Nel 1552 Siman investì Reggio e Napoli e fu giocoforza operare in soccorso di Napoli - quaranta contro centoventi galere - e il D. ne perse sette a Ponza. Nel 1553 Dragut ebbe il comando della flotta turca e con i Francesi investì la Corsica. Ma Genova e gli Imperiali organizzarono unefficace riscossa: si attese che la flotta turca rientrasse alle basi per svernare e si riprese liniziativa. Così si operò anche negli anni seguenti. Il D. e Cosimo I, unalleanza certo poco sincera, erano in questi anni i protagonisti della politica imperiale in Italia. Il debutto di Gian Andrea Doria, figlio del defunto Giannettino, non avvenne sotto buoni auspici: ben dieci galere furono perse per mera imperizia di manovra. La rinnovata minaccia della flotta turca e linvasione della Corsica crearono probabilmente negli anni Cinquanta un certo clima di emergenza a Genova. Pur impotenti contro il Turco, la flotta del D. e lalleanza con lImpero e la Spagna rappresentavano per la Repubblica lunica possibilità di colpire a sua volta, di lanciare la sua controffensiva per la difesa di un possedimento ritenuto vitale. Daltronde fu proprio in questi anni che Genova poté tornare a rifornirsi di grano orientale entrando in qualche modo nel gioco della stessa enipia alleanza franco-turca. Loro genovese fece ancora miracoli nel 1558: lavorato dal denaro genovese, Piali pascià risparmiò ancora una volta le Riviere e frustrò i più ambiziosi disegni politico-militari del re di Francia. Sicché la pace di Cateau-Cambrésis del 1559, riconoscendo a Genova il possesso della Corsica, concludeva questo capitolo dei controversi rapporti storici fra metropoli e colonia (1553-59). Pertanto iniziate in Corsica contro Ranuccio Della Rocca le sue imprese genovesi, ancora nella Corsica doveva concluderle il D. (per delega beninteso) contro Sampiero di Bastelica. Nel novembre dello stesso anno Medinaceli e Giovanni (Gian) Andrea Doria guidavano la flotta e un esercito al disastro delle Gerbe (2 marzo 1560). Come venti anni prima ad Algeri. Il vecchio ammiraglio stava vivendo lultimo anno di vita nella sua reggia di Fassolo: la notizia del disastro sancì il suo ambiguo destino militare. Il suo, oramai proverbiale, consiglio di prudenza era rimasto inascoltato. Il destino dellastro Doria nella politica genovese era fatalmente segnato dalla morte del D. avvenuta a Genova il 25 nov. 1560. Filippo II poteva riconoscere la successione del pupillo Gian Andrea nella luogotenenza del Mediterraneo, ma la signoria su Genova restava un fenomeno eminentemente personale. La dinastia stessa, quel ramo dei Doria, sarà fatalmente spinta verso un destino cosmopolitico, soprattutto romano. Lesperimento della signoria informale non era riproducibile per successione: questo era chiaro fin dal 1547. Angoscia terribile per un principe, questa di un patrimonio esclusivamente personale, di una continuità impossibile in termini dinastici. Il D. aveva potuto trasmettere il comando delle galere, perfino la luogotenenza imperiale, ma non una signoria mai riconosciuta come tale. Accostumato al ruolo decisivo dei rapporti personali e speciali, egli non aveva probabilmente alcuna fiducia nella nuova costituzione repubblicana, nelle istituzioni che erano state sperimentate sotto la sua tutela. Ed è per questo forse che negli ultimi anni della sua vita il D. giunse a proporre che la Spagna sinsignorisse di Genova. La testimonianza è ancora del Figueroa, ma essa, a ben considerare, non fa stupore. Quando nel 1547-48 egli si era opposto a un atto di volontaria dedizione di Genova agli Spagnoli, un gesto che implicava per lui, così come il consenso alla fortezza, la rinuncia al proprio onore, ma non alla possibilità che limperatore prendesse di propria iniziativa una decisione di signoria. Lonore di un corsaro? Piuttosto il puntiglio e lorgoglio di un principe che non voleva rinunciare al miracolo del 1528, al suo personale capolavoro politico. Certamente il D. non era persona che sabbandonasse a scrivere ragionamenti sui tempi suoi, ma ovviamente aveva una sua personale saggezza. Franzino Della Torre riportava così a Federico Gonzaga nel 1535 un colloquio avuto col D.: che oggi tutta la Christianità sia divisa in due affetti, luno de lo Imperatore, laltro di Franza et che quasi sia necessario passare per uno di questi camini ad ogni persona di momento. Che quello dello imperatore mo sia il migliore non gli pare... gli sia dubio. Già Ottaviano Fregoso aveva operato questa scelta nel 1515 offrendo la signoria a Luigi XII. Diviso in due il mondo politico, era necessario scegliere bene la propria parte: alla propria opzione, non ulteriormente giustificata, il D. era riuscito a congiungere lidealità della libertà e indipendenza della Repubblica, come piattaforma di governo idonea a uno Stato di mercanti, unidealità subordinata al realismo politico e non una idea-guida. Grande asientista di Carlo V e suo luogotenente nel Mediterraneo egli possedeva lunico esercito di una Repubblica quasi disarmata, cioè le galere, cosicché, offrendole la libertà, le imponeva di fatto la propria egemonia. Del resto solo la sua posizione militare nel sistema imperiale era in grado di garantire quella indipendenza, entro i limiti ben chiari di unopzione, una scelta necessaria fra le due grandi potenze. Per il doppio apporto di prestigio la sua figura pubblica ne risultava ingigantita e il palazzo-corte di Fassolo esprimeva appunto questa esaltazione. Le vicende militari sul mare, poco brillanti nel complesso, potevano oscurare la fama dellammiraglio: egli rimaneva il garante della fedeltà di Genova e lesecutore di direttive imperiali. Se la sua signoria scricchiolava come nella crisi del 1547-48 rivelando che quella garanzia non era più cosi solida, il D. era purtuttavia il luogotenente dellImpero, il padrone di venti galere, lestremo baluardo di fronte alla assoluta supremazia franco-turca sul mare. Così le sue due dignità, i suoi due ruoli si sostenevano a vicenda e sostenevano le fortune di un uomo ormai vegliardo. Limpressione che se ne ricava è quella di una mirabile costruzione politica della propria fortuna personale: approdato relativamente tardi alla imprenditoria della guerra navale il D. stabilizzò per sempre il suo rapporto col committente imperiale col contratto del 1528 proprio in virtù delle straordinarie clausole politiche che erano comprese nel medesimo. Lammiraglio operava in un quadro preciso: asiento, politica imperiale e sforzi finanziari navali diversi. Il politico ebbe il merito indubbio di costruire attorno alla sua persona una straordinaria retorica protettiva (unione e indipendenza). Per il resto la congiura del Fieschi ha rivelato sentimenti e strutture di alleanza assai tradizionali, il gioco delle fazioni, dei colori e delle famiglie per nulla superato dalla sperimentazione costituzionale. Loligarchia degli amici del D., un direttorio del principe si formò a latere dello Stato come esito della speciale posizione di predominio del principe, senza connessione diretta con le istituzioni: rientrava nella tipologia delle signorie informali caratterizzate da forti elementi di prestigio e di potere personali. Qui è chiaro che il giudizio sommario anticipa lo studio analitico di un sistema di potere che non è ancora stato tentato. La formula interpretativa della figura del D. che si e proposta è sufficientemente utile per sgombrare il campo da molti falsi problemi, sufficientemente rispettosa verso la migliore tradizione degli studi su quel periodo storico. E soprattutto è solo una formula, oltre la quale cioè la ricerca e lanalisi storica possono proseguire su un più moderno terreno di concretezza. Fonti e Bibl.: Genova, Bibl. univ., 3, VII, 5: G. Cibo Recco, Historie che trattano la guerra di Corsica in tempo di Sampiero di Bastelica; Ibid., E, IV, 5-10: A. Doria, Relazione delle cose turchesche; A. Capelloni, Vita del principe A. D., Venezia 1565; A. P. Filippini, La historia di Corsica, III, Toumon 1594; G. Sigonio, Della vita e dei fatti di A. D., Genova 1598; F. Casoni, Annali di Genova nel secolo XVI, Genova 1800, ad Indicem; M. Spinola-L. T. Belgrano-F. Podestà, Documenti ispano-genovesi dellArchivio di Simancas, in Atti della Soc. ligure di storia patria, VIII (1868), pp. 1-291 passim; A. Gavazzo, Nuovi documenti sulla congiura del conte G. L. Fieschi, Genova 1886; E. Bernabò Brea, Sulla congiura del conte G. L. Fieschi, Genova 1863; E. Celesia, La congiura di Gian Luigi Fieschi, Genova 1865, pp. 3 ss.; A. Merli-L. T. Belgrano, Il palazzo del principe Doria a Fassolo, ibid., X (1874), pp. 2 ss.; C. Manfroni, Storia della marina italiana, III, Roma 1897, ad Indicem; A. Neri, A. D. e la corte di Mantova, Genova 1898; G. Manfroni, Le relazioni fra Genova, lImpero bizantino e i Turchi, in Atti della Soc. ligure di storia patria, XXVIII (1898), pp. 757-763, 768, 777, 779, 837 s., 847; E. Pandiani, Il primo comando in mare di A. D., ibid., LXIV (1935), pp. 344-358; A. Neri, I negoziati per attirare A. D. al servizio di Carlo V, in Giorn. stor. e letter. della Liguria, XVIII (1942), pp. 51-75; E. Pandiani, Genova e A. D. nel primo quarto del 500, Genova 1949; G. Oreste, Genova e A. D. nella fase critica del conflitto franco-asburgico, in Atti d. Soc. ligure di storia patria, LXXII (1950), pp. 3-69; V. Piergiovanni, Il Senato della Repubblica di Genova nella riforma di A. D., in Annali d. Facoltà di giurisprudenza d. Univ. d. studi di Genova, IV (1965), I, pp. 230, 233, 235, 275; F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à lépoque de Philippe II, Paris 1966, ad Indicem; E. Parina Armani, Il palazzo del principe A. D. a Fassolo, in LArte, 1970, n. 10, pp. 12-63; E. Grendi, Genova alla metà del 500: una politica del grano?, in Quaderni storici, XIII (1970), pp. 106-109, 121, 149, 157, 160.
Posted on: Mon, 02 Dec 2013 19:56:17 +0000

Trending Topics



Recently Viewed Topics




© 2015