Diario del viaggio in Palestina...era il 2009, molte cose sono - TopicsExpress



          

Diario del viaggio in Palestina...era il 2009, molte cose sono cambiate in peggio. Time for responsabilities 10-17 ottobre 2009 Asino bianco asino nero Diario di viaggio di Barbara Mangiapane 10 ottobre 2009 - Betlemme Arrivati in albergo a Betlemme, scambio due parole in inglese con il cameriere che mi accompagna alla mia camera. Ad un certo punto mi chiede Where do you think Bethlehem is, Israel or Palestine?. Io, che non avevo ben capito il senso della domanda, ho risposto in modo spontaneo e quasi scontato Palestine!. Il cameriere, Salah, mi sorride esprimendo un incontenibile felicità e mi dice Great!. In questo angolo di mondo lappartenenza alla propria terra non è scontata e la propria identità viene continuamente messa in discussione tanto da sentire il bisogno di essere rassicurati da uno straniero ogni volta se ne presenta la possibilità. Questo è stato il mio primo impatto con Betlemme, insieme alla colomba della pace con il giubbotto antiproiettile e il mirino sul petto. Salah ha continuato a raccontarmi di come la costruzione del muro e gli ostacoli israeliani allingresso a Betlemme stanno mettendo in ginocchio una città che viveva di turismo e delle attività ad esso collegate. Salah mi saluta con la raccomandazione di dire in giro che Betlemme è una città sicura, non cè la guerra a Betlemme e che i turisti sono benvenuti e ben accolti come lo sono sempre stati in passato. Girando per la città e in particolare lungo le strade divise a metà da muro è facile imbattersi in negozi e attività artigianali chiusi da pochi anni e le cause sono evidenti. Nellincontro del pomeriggio in Comune, il Sindaco di Betlemme conferma che da anni ormai nessuna comitiva di turisti pernotta più a Betlemme, si fermano tutti nelle città israeliane e passano da Betlemme solo per un brevissimo giro turistico. Ma questi sono solo una parte dei gravi problemi che questa piccola ma da sempre vitale città si trova a dover affrontare. Nellincontro con la responsabile dellufficio delle Nazioni Unite per le questioni umanitarie nei Territori Palestinesi Occupati, dopo averci illustrato la situazione drammatica di Gaza, ci presenta un secondo rapporto su quanto sta accadendo a Betlemme e nella West Bank, esprimendo forte preoccupazione perché la densità di popolazione a Betlemme ha superato quella di Gaza: prima della costruzione del muro il territorio della municipalità di Betlemme occupava una superficie di 65 Kmq; oggi sono 5 Kmq. E poi gli insediamenti israeliani, i posti di blocco e di controllo, la zona C e le riserve naturali: un territorio frammentato, diviso, separato in tanti bantustans, nel quale spostarsi per andare a lavoro, a scuola o in un ospedale diventa unimpresa. Il diritto alla libera circolazione sulla propria terra è di fatto impraticabile, e dipende dal libero arbitrio israeliano di concedere o meno il permesso di transito, e di conseguenza il diritto al lavoro, con la disoccupazione in crescita esponenziale, il diritto allistruzione, alla salute: i diritti umani fondamentali sono diventati merce di scambio. 6 Il muro, la cui costruzione lungo questo tracciato che non rispetta i confini del 1967 né gli accordi di Oslo, è stata condannata da una risoluzione delle Nazioni Unite dopo una sentenza del Tribunale Internazionale di Giustizia, il muro dicevamo ha inglobato nello stato israeliano tutte le falde acquifere di Betlemme nonché le terre migliori. Gli israeliani inoltre rivendono ai palestinesi lacqua prelevata dalle falde di Betlemme ad un prezzo 4 volte superiore rispetto a quello praticato agli israeliani. Questi brevi aneddoti non sono certo sufficienti a descrivere emozioni e situazioni. E siamo ancora al primo giorno. La cosa interessante è che sul sito dellufficio delle nazioni unite per i territori occupati si possono scaricare non solo i rapporti ma anche le diapositive che ci sono state presentate: ochopt.org. 11 ottobre 2009 – Betlemme – Ramallah La delegazione di 400 persone provenienti da tutta Italia è stata suddivisa in vari gruppi con specifici programmi in diverse città: Ramallah, Betlemme, Hebron, Bilin, Birzeit, Villaggi di Swahreh- At Tuwani-Artas, Jenin, Nablus, Gerusalemme. Lestrazione a sorte mi ha inviato a Betlemme. Il nostro capogruppo è Tonio DallOlio, responsabile internazionale di Libera. Iniziamo la giornata con la visita al campo profughi di Aida a Betlemme. Ci guidano i due responsabili del campo, due palestinesi entrambi nati, come i loro genitori e i loro nonni ormai, in uno dei tanti campi profughi sparsi per la Palestina, la Siria, la Giordania e il Libano, che lavorano per lUNWRA. Il campo di AIDA nasce nel 1951 a seguito della Nakba, la catastrofe, quando milioni di palestini vennero cacciati dalle loro case. In una delle foto è possibile vedere una delle chiavi delle loro antiche case che le famiglie palestinesi conservano con lobbiettivo di ritornare a viverci. È inutile dire che queste case non esistono ormai più, oltre a ricadere probabilmente fuori dai confini tracciati nel 1967, punto di riferimento per qualsiasi ipotesi di accordo. Il campo sorge proprio a ridosso del muro e di un paio di torrette di guardia dalle quali ogni tanto partono raffiche di mitra dirette a colpire le cisterne dacqua poste sui tetti delle case. Lacqua, che peraltro proviene dalle falde di Betlemme, viene distribuita ai profughi due volte al mese, ed ecco spiegata lesigenza delle cisterne del tutto legali. Il campo ospita 5.000 persone, il 60% sotto i 18 anni, il 65% disoccupati. Le terre sulle quali è stato costruito il campo sono di proprietà di due famiglie cristiane di Betlemme che sono state prese in affitto dallUNWRA: i profughi non possono acquistare terre né case, di conseguenza lunica soluzione è laffitto o la donazione. Nel campo ci sono due una scuole, una per le bambine e laltra per i bambini, entrambe senza finestre, con i sacchi di sabbia appoggiati a ridosso dei muri interni. Non esistono spazi allaperto per questi bambini, niente verde, né spazi per giocare. Solo la strada. LUNWRA gestisce un centro culturale per attività di vario tipo: teatro, video center, attività sportiva per donne. I programmi del centro si rivolgono principalmente ai bambini e ai ragazzi, ma anche alle loro madri. Senza la collaborazione delle famiglie infatti non è possibile coinvolgere i ragazzi e alcuni progetti coinvolgono madri e figli. Il centro ha creato un teatro allaperto a ridosso del muro, sul quale proiettano anche video e film. La fantasia non manca. Gli spettacoli dei ragazzi stanno girando il mondo: Francia, Svezia, Stati Uniti. Il centro dispone inoltre di un piccolo furgone chiamato La bella resistenza con il quale girano il campo per portare le iniziative anche fuori dal centro. 7 Il teatro, e larte in genere, è visto come un mezzo per trasformare la rabbia. Cè la consapevolezza che la rabbia è un punto di debolezza sul quale gli israeliani fanno leva per provocare reazioni violente e di conseguenza giustificative della loro repressione. Non cè una strada per la pace. La pace è la strada, dice Gandhi. Nel corso di unoperazione militare israeliana antiterroristica, non ho ben capito per quale necessità logistica, i militari israeliani passavano casa per casa e facevano un buco su di una parete (si vede ancora il cemento non intonacato sulle pareti delle case). La gente ormai era preparata e apriva tranquillamente la porta senza opporre resistenza, così stava facendo anche uninsegnante mentre i soldati avevano deciso che questa volta per fare prima avrebbero fatto saltare direttamente la porta di casa. Ovviamente la padrona di casa è morta a seguito dell’esplosione e nessun colpevole è stato processato nonostante fosse stata avviata un’indagine. Con noi cè anche Don Mario, un prete di Fiesole che ha chiesto al vescovo di essere distaccato nella parrocchia di Santa Caterina a Betlemme, di fianco alla basilica della natività, gestita dai cristiani ortodossi. Il campo profughi è allinterno di un quartiere a maggioranza cattolica, e don Mario ci spiega che la convivenza tra cristiani e musulmani è pacifica, anche perché forse nella comunità musulmana cè la consapevolezza dellimportanza che riveste Betlemme per il mondo cristiano e per quello cattolico in particolare. Comunque entrambe le comunità identificano un altro comune oppressore e solo questo fatto genera solidarietà. Scambio due parole con il responsabile del campo, Ibrahim. Secondo lui è impensabile in questa situazione pensare a due popoli due stati. Il territorio palestinese è di fatto composto da tanti bantustans. La soluzione più saggia secondo lui è un unico stato con uguali diritti e uguali doveri per tutti, indipendentemente dallessere palestinesi o israeliani, ebrei, musulmani o cristiani. Alle 11.00 andiamo (chi vuole) alla celebrazione della messa con rito cattolico alla chiesa di Santa Caterina, di fianco alla basilica della natività. La messa cattolica in arabo è emozionante e suggestiva. Poi un giro alla basilica della natività completa la percezione di autenticità, di grande energia di questi luoghi. Cleo, una ragazza di Torino, mentre noi eravamo alla messa decide di recarsi nella moschea di fronte. Il caso vuole che incontri subito il muezzin che si sta recando per fare il richiamo alla preghiera. Il muezzin la fa entrare di nascosto nella moschea e le fa assistere a questo rito misterioso, per poi farla uscire sempre di nascosto allarrivo dei fedeli. È arrivata lora di pranzo. Siamo divisi in gruppi di tre e ospitati dalle famiglie di Betlemme. Don Mario ci raccomanda di non portare doni né tantomeno denaro, ma di accettare con serenità lospitalità della famiglia; sarebbe unoffesa cercare di ripagare. Accettare un dono e vincere limpulso a sdebitarsi: molto lontano dalla nostra mentalità di scambio continuo, do ut des. La nostra è la famiglia di Saleh e Mona, due palestinesi cattolici, con due bambine, Mariana e Mirna. Saleh lavora con la chiesa di Santa Caterina, si occupa di assistenza sociale. È una famiglia agiata e lappartamento è molto bello, grande, elegante. Le bambine, anche grazie ai contributi di famiglie italiane, studiano in una scuola privata (ahimè le scuole governative non sono proprio come le nostre). Vogliono arrivare allUniversità, ma non vogliono lasciare Betlemme. Si sentono privilegiate, ma non hanno mai visto il mare e non possono andare a fare un pic nic nelle campagne intorno a Betlemme, ormai quasi completamente sotto il controllo dei coloni israeliani. Chi non lavora nei territori controllati da Israele ha solo due giorni di permesso allanno per poter uscire dai territori palestinesi. E chi vuole fare un viaggio allestero deve recarsi in Giordania, ad Amman. 8 La loro famiglia è tranquilla, ci dice Saleh, ma la situazione è precipitata, non si sentono più liberi come prima e soprattutto vedono la loro terra spogliarsi piano piano delle energie migliori perché chi può va a studiare allestero e poi non torna. Anche lui poteva emigrare in Cile, dove ha parenti, ha deciso di restare non solo perché ha la fortuna di avere un lavoro, ma anche perché non vuole lasciare la sua terra Non è giusto! ha detto. Anche se, come ci conferma, la vita quotidiana è sempre più complicata e sottoposta allarbitrio degli occupanti, che, anche dal punto di vista amministrativo, hanno il potere di concedere o meno licenze, permessi e ogni altra richiesta amministrativa. Saleh ci invita a cena per domani a fumare il narghilè. Speriamo che il programma ce lo consenta. Ci ritroviamo alle 14.30 con il resto del gruppo 2 alla Casa del Bambin Gesù, un centro di accoglienza e riabilitazione per bambini con gravi disabilità fisiche e psichiche, gestito dalle suore. Oltre a problemi dei ordine economico, ci sono problemi culturali fortissimi perché le famiglie considerano una vergogna un bimbo con handicap e spesso li abbandonano senza tanti scrupoli. Inoltre, mancano in Palestina le figure professionali specializzate per intervenire su disabili gravi. Le suore, aiutate anche da giovani volontari palestinesi e internazionali, cercano di coinvolgere nei loro progetti anche le famiglie più sensibili e soprattutto le autorità locali. Ma possiamo immaginare che tipo di stato sociale ci possa essere in uno stato che non è ancora una stato. La tappa successiva è Arabian Women Union di Betlemme. Tra noi donne serpeggia una certa delusione quando ci accorgiamo che non si tratta di donne che lottano per i diritti delle donne, ma di unassociazione che raccoglie i manufatti delle donne palestinesi e le mette in vendita per consentire a queste donne di avere un reddito alternativo. Beh, anche noi abbiano i nostri schemi mentali occidentali da superare e questa è una bella lezione. Adesso partiamo per Ramallah dove siamo attesi tutti e 400 per incontrare il primo ministro dellAutorità Nazionale Palestinese, Fayyad. Arriviamo al primo check point, quello che separa Betlemme da Gerusalemme, siamo in ritardo. Il nostro autobus con targa israeliana e i nostri passaporti italiani ci consentirebbero di passare e di evitare i controlli e di conseguenza la coda. Invece siamo sotto larbitrio di due imberbi soldati israeliani che ci impongono di scendere dal pullman e di passare uno ad uno i controlli. Don Mario cerca di discutere prima pacatamente, poi sbotta This is not your land, poi si trattiene, perché si rende conto che con noi cè anche Randa Harb, una palestinese con passaporto italiano, una grande donna, che al contrario di noi rischia di subire vessazioni se facciamo arrabbiare troppo questi soldati. E così, coda, check point, telecamere, bunker, soldati coi mitra sulle torrette, tornelli...mi ricorda qualcosa.... Passiamo e attraversiamo Gerusalemme. Un secondo check point ci attende, quello di Candalia che separa Gerusalemme da Ramallah. Questa volta è la lunga coda che ci fa accumulare un altro po’ di ritardo. Ci chiediamo: noi in fondo siamo appena spazientiti da questa situazione, da queste piccole vessazioni, poco più che dispetti. Ma pensiamo ai lavoratori palestinesi che tutti i giorni devo alzarsi alle 4 la mattina per farsi ore di coda, le vessazioni e le umiliazioni continue che devono subire, il controllo delle impronte digitali...tutti i giorni, mattina e sera. Don Mario ha commentato, intelligentemente: non stanno rubando solo le terre e lacqua, ma anche il tempo. Arriviamo comunque a Ramallah per riuscire ad ascoltare la seconda parte dellintervento di Fayyad: una bella personalità, che ribadisce il concetto di due popoli due stati, e che chiede lintervento dellUnione Europea perchè venga rispettato il diritto internazionale e le risoluzioni dellONU. Gli ultimi interventi di Obama hanno dato speranza, ma cè molta diffidenza in ogni caso verso gli Stati Uniti e lEuropa viene messa di fronte alle proprie responsabilità, di non avere usato tutti i mezzi che avrebbe potuto usare, a cominciare da quelli economici e commerciali, per spingere Israele a rispettare il diritto e la legalità. Ovviamente parla anche dei problemi interni allAutorità Nazionale Palestinese, riconosce il totale scollamento tra la West bank e Gaza, le inefficienze di una macchina amministrativa governativa in embrione e quindi le difficoltà di controllo del territorio, le difficoltà economiche e la disoccupazione. Al termine dellincontro, coordinato da Luisa Morgantini e tradotto da Lisa Clark, altri due grandi figure che ci accompagnano in questa settimana, mi restano sensazioni contraddittorie: da un lato la speranza che mi arrivava dai responsabili del campo profughi di AIDA, con lidea di uno stato unico, aperto, dellabbattimento di muri e barriere; dallaltro il pragmatismo di Fayyad, con la sensazione però che quella che sembra la strada più semplice, due stati, è forse la più difficile e che 9 una strada che comincia a farsi largo nel popolo palestinese sembra essere quella di lottare per i propri diritti in un unico stato. Ciò presuppone che Israele abbandoni il progetto sionista, di uno stato puramente ebraico, e che i governanti palestinesi sappiano ascoltare il proprio popolo, la voce che cerca pace e convivenza. A margine, una considerazione personale: in questi due giorni la mia sana indignazione è cresciuta, ho assistito a continue umiliazioni e svilimenti della dignità di uomini, donne e bambini solo perché appartenenti ad un popolo, a giovani soldati imberbi che si divertono a praticare piccoli quotidiani dispetti e discriminazioni: da un lato, un lento processo di deumanizzazione delle vittime e dei carnefici, dallaltro, al furto di terra, acqua e tempo, a continui ostacoli alla possibilità di vivere con il proprio lavoro....è banale dire che mi ricorda qualcosa che è accaduto e che tutto il mondo si era impegnato a fare in modo che non accadesse mai più? 12 ottobre 2009 – Nazareth Anche oggi siamo divisi in 9 gruppi: Tel Aviv, Nazareth, Haifa, Neve Shalom, Jaffa, insediamenti dei coloni ebraici, Sderot, Galilea-Tel Aviv, Misgav-Sachnin. La sorte mi manda a Nazareth. Partiamo alle 6.30 e al solito check point ci fanno scendere dal pullman per un controllo passeggeri individuale (ad altri di noi è andato peggio: sono saliti su con mitra a controllare passeggero per passeggero). Nazareth è una città a maggioranza palestinese nello Stato dIsraele. I palestinesi israeliani nello Stato d’Israele sono una minoranza, circa il 20%. Le scuole ovviamente sono separate. Noi andiamo a visitare una scuola palestinese modello, realizzata con i soldi del lotto palestinese. Un caso più unico che raro, ci viene detto, e non è difficile crederci. I dirigenti della scuola ci fanno entrare in una classe, corrispondete alle nostre terze superiori. Mi sono sentita violenta, in quel momento, entrare così in una classe, tra adolescenti, mi sentivo fuori luogo, di essere entrata come un elefante in una cristalleria. Abbiamo provato a metterci nei panni di questi ragazzi palestinesi, con tutta la loro storia, che ad un certo punto si trovano sotto la lente dingrandimento di un gruppo di europei mai visti prima? Qualcuno di noi pone qualche domanda sulla convivenza con i ragazzi ebrei, è evidente limbarazzo, e mi chiedo quanto sia legittimo per il nostro desiderio di conoscenza invadere una sfera tanto privata. La mia misura è colma quando uno di noi fa la ramanzina, tirando in ballo persino Gandhi, ad uno studente palestinese che dice chiaramente che finché gli ebrei non rispetteranno i loro diritti lui non vorrà mai avere un amico ebreo. Ciò che questa persona ha detto, vale a dire, che bisogna combattere le strutture non le persone, è giusto e lo condivido in pieno, ma chi siamo noi per dire ad un ragazzo palestinese, del quale non conosciamo nulla, come si deve comportare, cosa deve fare? Forse sono scrupoli eccessivi, ciò non toglie che mi sono sentita di usare violenza verso questi ragazzi. Incontriamo il responsabile dellassociazione araba per i diritti umani che ci illustra il rapporto sulle discriminazioni che la minoranza palestinese subisce allinterno dello Stato dIsraele. La premessa è che non si tratta di una minoranza da sempre compresente allattuale maggioranza ebraica né di minoranze immigrate in uno stato ebraico, ma di minoranze indigene, preesistenti allarrivo degli israeliani. La tutela dei diritti umani individuali e dei diritti collettivi delle minoranze prescinde da questa mia ultima considerazione ma appare evidente come la loro violazione provochi in chi la subisce una rabbia ancora più grande. Dal 1948 al1966 lo Stato dIsraele aveva un sistema di apartheid legale, due sistemi legali diversificati per ebrei e non ebrei: un sistema di leggi civili per gli ebrei e un sistema militare per i non ebrei. Non uso la parola ebreo a caso. È la legge dello Stato dIsraele, per non parlare del suo atto costitutivo che la utilizza e poi vedremo come. 10 Questa situazione ha comportato tra il 1948 la confisca del 60% delle terre palestinesi che erano rimasti dentro lo Stato dIsraele. Se pensiamo che la popolazione palestinese era composta principalmente da contadini possiamo provare ad immaginare quali conseguenza la confisca delle terre abbia avuto sulle loro vite. Inoltre, si è verificata una forte restrizione nei diritti umani e delle libertà fondamentali, in particolare la libertà di movimento. Allora come oggi sono necessari permessi difficilissimi da ottenere per muoversi nei territori occupati. Dal 1966 il sistema dapartheid ufficiale viene sostituito da un sistema di discriminazioni molto più intelligente che si articola su 4 livelli: · discriminazione legale palese: la legge israeliana prevede espressamente che la piena cittadinanza israeliana possa essere concessa solo a chi è di religione ebraica, ovvero risulti che la madre o la nonna materna siano di religione ebraica; per tutti gli altri è molto, molto difficile. · discriminazione legale mascherata: la legge israeliana prevede il servizio militare obbligatorio per tutti i giovani. Il ministro della difesa ha il potere di esonerare dal servizio militare. E i palestinesi israeliani sono sempre esentati, per lovvia ragione che non conviene ad Israele armare e preparare 1.200.000 palestinesi. Il problema è che alladempimento degli obblighi militari è legato il godimento di tantissimi altri diritti, primo fra la possibilità di accedere ad un impiego pubblico, che qui in Israele vanno dalle amministrazioni locali, alla sanità, alle poste, ai trasporti pubblici, alla compagnia dei telefoni; la conseguenza è che la minoranza palestinese in Israele è esclusa dal godimento di tutti i diritti, anche quello al lavoro; · Discriminazione Istituzionale: si esplica nelle enormi differenze nellallocazione di risorse da parte dei vari ministeri alle amministrazioni locali in materia di infrastrutture, arredo urbano, edilizia pubblica, sanità, scuole, etc., a seconda che si tratti di comuni arabi o comuni ebrei. · Discriminazione culturale: un sondaggio del governo israeliano sostiene chei l 60% dei giovani è favorevole alla deportazione della minoranza palestinese fuori dallo Stato arabo. Questo semplice esempio può darci lidea delle discriminazioni, del razzismo strisciante o più evidente che la minoranza palestinese deve subire ogni giorno, nei trasporti pubblici o nei luoghi di lavoro, o nelle altre scarse occasioni dincontro. Pochi ebrei condividono questa analisi, anche perché analizzando la progressione del voto negli ultimi trentanni è evidente lo spostamento a destra e verso la destra fascista. Non è impensabile che nellarco di 10 anni Lieberman sarà Primo Ministro. Lidea della deportazione, che 10 anni fa, sembrava impensabile a chiunque, adesso è diventata parte principale dellagenda politica di questo governo, che parla di Trasferimenti e di creazione di uno Stato puro ebraico. Breve visita della Nazareth vecchia. Abbiamo visitato la basilica dellannunciazione ortodossa e poi la basilica cattolica dellannunciazione. La differenza è che per la tradizione ortodossa larcangelo Gabriele apparve a Maria prima alla fonte presso la quale lei si era recata a prendere lacqua; poi a casa sua. Nella tradizione cattolica invece lannunciazione è avvenuta solo presso la casa di Maria. Quindi la chiesa ortodossa sorge sulla fonte nella quale avvenne la prima annunciazione, la chiesa cattolica invece sorge sulla casa della Vergine. Nel pomeriggio abbiamo incontrato una rappresentanza dei sindaci arabi israeliani, i sindaci dei comuni a maggioranza araba nello Stato dIsraele, The National Vommittee for the Arab Local Authorities, che fa parte integrante dellassociazione dei comuni israeliani, ULAI, che un altro gruppo dei nostri delegati ha incontrato la mattina. Per completare il quadro, il giorno prima questo stesso gruppo aveva incontrato lassociazione dei comuni dei territori palestinesi. Il sindaco di Nazareth, la più importante città araba in Israele, ci illustra le difficoltà che devono affrontare, alcune delle quali ci erano state illustrate la mattina dal responsabile dellassociazione 11 araba per i diritti umani dei palestinesi/israeliani: forti problemi finanziari – riduzione delle terre a disposizione per i palestinesi – divieto per i comuni arabi israeliani a costruire case per i senza tetto. Il sindaco di Nazareth ci dice Ciascuno di noi ha parenti a Gaza, in Cisgiordania, e nei campi profughi sparsi per il Libano, la Siria e la Giordania. Facciamo parte del popolo palestinese ma ci sentiamo a pieno titolo cittadini israeliani. Abbiamo accettato la soluzione 2 popoli 2 stati e accetteremo che Nazareth continui ad essere una città israeliana, ma noi vogliamo che ci vengano riconosciuti i diritti individuali in quanto esseri umani e cittadini e i diritti collettivi in quanto minoranza. Dobbiamo essere coinvolti nel processo di pace. Allincontro sono presenti anche la delegazione francese degli enti locali e la delegazione spagnola. Il presidente della delegazione francese dice LEuropa ha commesso un crimine verso gli ebrei e lha fatto pagare ai palestinesi. In Francia, come in altre nazioni europee, rischiamo che il conflitto israelo – palestinese venga importato, anche perché la Francia ha una forte comunità ebraica e unaltrettanto forte comunità islamica. Noi chiediamo il rispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite, delle leggi e degli accordi internazionali. Loccupazione deve finire. Nessun processo di pace sarà possibile finchè la Palestina sarà militarmente occupata. Questo per noi significa anche garantire lesistenza dello Stato dIsraele dentro frontiere sicure. 13 ottobre 2009 – Gerusalemme La mattina partecipiamo alla Conferenza Internazionale “Il ruolo dellEuropa per la Pace in Oriente”. I moderatori sono sono Eric Salerno, giornalista di origine ebrea de Il messaggero e Paola Caridi, giornalista di Lettera 22. Intervengono: Flavio Lotti, Direttore del Coordinamento Italiano degli enti locali per la pace e i diritti umani; Nils Eliasson, Console Generale della Svezia a Gerusalemme, rappresentante dellUE; Sari Nusseibeh, Professore di Filosofia allUniversità araba di Al-Quds; Christian Berger, rappresentante della UE nei territori palestinesi; Janet Aviad, Scrittrice, Professoressa alla facoltà di Scienze delleducazione dellUniversità Ebraica; Michel Sabbah, Emerito Patriarca Latino di Gerusalemme; George Morin, presidente della delegazione francerse degli enti locali; Joseph Weidenholzer, Presidente di Solidar, la rete europea delle ong; Josè Maria Ruiberriz, rappresentante della Madrid Coalition Sergio Bassoli, direttore della piattaforma italiana delle ong per il medio oriente; Naomi Chaza, Professoressa di Scienze politiche alluniversità ebraica, già membro del Kenesset; Luisa Morgantini, già vice presidente del parlamento europeo. Dovevano intervenire anche Ghassan Khatib, ex ministro dellautorità nazionale palestinese, e Fajr Harb, coordinatore dei programmi del Carter Center, che non sono potuti entrare a Gerusalemme da Ramallah, bloccati dagli israeliani. Molto deludenti sono stati gli interventi dei rappresentanti dellUE. Hanno ribadito alcuni concetti chiave: 2 popoli 2 stati – la fine delloccupazione israeliana nei territori occupati – il blocco degli insediamenti dei coloni ebraici nei territori occupati – Gerusalemme est capitale dello Stato Palestinese. Nel fare questo, hanno dichiarato che lUE ha chiesto a Israele di rispettare gli accordi internazionali e le risoluzioni dellONU. Tutti gli altri interventi hanno sottolineato che lUE non può limitarsi a chiedere a chi non rispetta la legalità il rispetto della legalità. È come limitarsi a dire a un criminale di non commettere crimini. E poi? Fuori dal coro ma pieno di spunti interessanti è stato lintervento di Sari Nusseibeh su due punti particolari: in primo luogo ha messo in discussione la soluzione 2 popoli 2 stati, non tanto perché non sarebbe teoricamente auspicabile, anzi, sulla carta si presenta come la soluzione desiderabile; il problema, secondo, lui è che lo stato di fatto nel quale si trovano i territori palestinesi, frammentato in bantustans, allontana sempre di più la soluzione 2 popoli 2 stati rendendola realisticamente impraticabile, mentre si fa strada sempre più l’opinione che si debba 12 lavorare per uno stato unico con uguali diritti per israeliani e palestinesi. Le obbiezioni a questa posizione, che non può essere liquidata come provocatoria soprattutto a seguito di un’attenta analisi dell’attuale situazione, emergono immediatamente: nessun israeliano, nemmeno quello più illuminato può accettare di diventare minoranza, anche ammettendo che si riesca a far abbandonare alla maggioranza della popolazione l’ideologia sionista. Un secondo passaggio di Nusseibeh importante riguarda il ruolo della cooperazione e le responsabilità della classe dirigente palestinese. La cooperazione internazionale ha da un lato sottratto ad Israele le responsabilità rispetto alla situazione del popolo palestinese, dall’altro ha alimentato una classe dirigente palestinese che “vive” di cooperazione. Per cui, secondo Nusseibeh è necessario ripensare le condizioni di cooperazione, nel senso di porre come condizione per ogni intervento che ci siano passi concreti verso la pace. Gli altri relatori hanno tutti portato contributi importanti, ma l’unico che ha lasciato un segno, almeno dentro di me, è stato quello di Michel Sabbà, per la nettezza, la chiarezza e l’autorevolezza delle affermazioni: in questa terra vige la legge del più forte. Il diritto è morto. Il più forte fa il diritto. E nessuno osa intervenire. Cambiano i giocatori, ma la nostra situazione quotidiana non è cambiata per niente, c’è un popolo che ogni giorno soffre. L’Europa ha le maggiori responsabilità, perché l’Europa ha fatto nascere questa tragedia. L’Europa non deve avere paura dell’accusa di antisemitismo. Per evitare l’accusa dell’antisemitismo ogniqualvolta di parla della questione israelo-palestinese, bisogna iniziare con una condanna forte e sincera dell’antisemitismo, con la consapevolezza che l’obbiettivo non è condannare il forte né il debole, ma di arrivare ad una pace giusta, una pace che garantisca i diritti e le libertà dei palestinesi. L’Europa può pensare a piccole azioni di boicottaggio, ma principalmente può sospendere gli accordi di associazione con Israele. Non la guerra, non un intervento militare, ma fare sentire al più forte di essere meno appoggiato. Questo è l’unico strumento concreto che deve essere usato se vogliamo che le condanne dell’UE non restino lettera morta, se vogliamo uscire dalle conferenze di pace. Ha concluso i lavori Luisa Morgantini: “il grande ostacolo alla pace è la scelta pervicace delle autorità israeliane di continuare la crescita delle colonie; è questa scelta che ha fatto fallire Oslo: furto della terra, furto dell’acqua, furto del tempo, devastazione ambientale. La costruzione del muro altro non è che annessione territoriale. Ed è impensabile far credere ai palestinesi di avere speranza se Israele non torna indietro sui propri passi. L’autorità palestinese è debole, Abu Mazen, con la posizione assunta a Ginevra sul rapporto Goldstone, ha indebolito Al Fatah, così come l’azione di Hamas ha indebolito il popolo palestinese. Le responsabilità della comunità internazionale, in particolare dell’UE, rispetto all’indebolimento dell’autorità palestinese, sono tante, certo, ma non è questo il punto, perché l’UE da sola può far poco. In primo luogo, vorrei dire chiaramente che Israele deve essere portato di fronte al Tribunale Internazionale di Giustizia per ciò che ha fatto a Gaza. In secondo luogo, devono essere responsabilizzati non solo l’UE, ma anche Obama, e soprattutto i governi arabi. Giudico pericoloso per il proseguimento del dialogo che mentre arabi e UE lavorano per ricucire la spaccatura tra palestinesi, tra Al Fatah e Hamas, e scongiurare la cristallizzazione di due stati palestinesi, gli Stati Uniti si oppongono a questo tentativo di riavvicinamento. Io sono contraria alle sanzioni e ai boicottaggi, ma dobbiamo lavorare per la sospensione degli accordi di associazione, anche perché i trattati costitutivi dell’UE prevedono espressamente il divieto di stipulare accordi di associazione con i Paesi che violano i diritti umani”. Per concludere vorrei riprendere una frase di Joseph Weidenhulzer, il presidente di Solidar, “Le soluzioni di pace non richiedono il sacrificio di vite umane, ma il sacrificio di idee”. 14 ottobre 2009 – Gerusalemme, campo profughi di Shu’fat, Yad Vashem, Parents’ Circle Campo profughi di Shu’fat Passato il check point di Betlemme (è sorprendente come nel giro di pochi giorni ci si abitui e ci si ammansisca di fronte alla mancanza più assoluta di rispetto per la dignità umana e si eseguano gli ordini senza fiatare), ci dirigiamo al Campo Profughi di Shu’fat, 4 Km a nord di Gerusalemme, guidati dall’UNRWA. 13 Prima di iniziare la visita del campo, incontriamo Filippo Grandi, Vice Commissario Generale dell’ONU per i rifugiati che ci introduce la situazione al campo e nel resto dei campi profughi per i palestinesi sparsi per il Medio Oriente: “Shu’fat è un campo profughi costruito nel 1966 per accogliere 3000 palestinesi provenienti dalla città vecchia di Gerusalemme. L’UNRWA svolge compiti legati all’assistenza sanitaria, l’educazione, sostegno ai più bisognosi e i servizi infrastrutturali, come alloggi, oltre ad avere avviato un programma di microcredito. A tal fine l’UNRWA gestisce una clinica, 3 scuole e, insieme al comitato popolare di gestione del campo, un centro per disabili ed uno per le donne. Oggi ospita,sulla stessa superficie, 18.000 palestinesi, 8.000 dei quali provenienti dai villaggi vicini della West Bank o dai sobborghi di Gerusalemme, in special modo coloro ai quali è stata confiscata la carta d’identità israeliana per aver vissuto fuori dai confini della città di Gerusalemme. Il campo è stato successivamente e illegalmente annesso alla città di Gerusalemme; illegalmente in quanto tale annessione non è riconosciuta dalla comunità internazionale. I problemi con le autorità di occupazione israeliane, come potete immaginare sono numerosi: dal 1987, anno dell’occupazione, a oggi sono stati condotti numerosi raids militari, demolite case, è stata tagliata la fornitura di acqua potabile al campo, oltre che aver imposto agli esercizi commerciali presenti nel campo tasse, senza però che al pagamento di queste corrispondano i servizi che invece vengono garantiti dalla municipalità nelle altre zone della città, a cominciare dallo smaltimento dei rifiuti. L’UNRWA ha sempre cercato di sopperire a queste assenze dell’autorità israeliana, ma i recenti tagli di tutti i governi nazionali, principalmente di quello italiano, rende sempre più difficile riuscire a garantire i precedenti livelli di servizio. Tutto ciò comporta un’escalation dei problemi educativi, sanitari, ambientali e psicologici. Vediamo più nel dettaglio questi problemi. I rifugiati nel campo soffrono di: 1. Problemi di natura psicologica per il fatto di vivere in condizioni molto dure; 2. Disoccupazione, che ha causato il rapido diffondersi della droga fra i giovani nel campo; 3. Problemi di sanità pubblica, dovuti all’impiego di solo 11 operatori sanitari per l’intero campo (18.000 rifugiati); 4. Cattive condizioni delle infrastrutture del campo, elettricità e strade; 5. La rete idrica è vecchia, dal 1976 non è più stata fatta una manutenzione; 6. L’impianto di depurazione è stata costruito nel 1980. Da allora non sono state compiute opere di rinnovazione né riparazione; 7. Le scuole sovraffollate causano un aumento del fallimento scolastico; 8. Non esistono giardini pubblici né campi da gioco; 9. Il sovraffollamento nelle case è causa di numerosi problemi sociali, e deriva principalmente dall’impossibilità di espansione dell’area del campo; 10. Assenza di un’autorità. La situazione del campo di Shu’fat si colloca all’interno della situazione dei 58 campi profughi palestinesi sparsi in tutto il Medio Oriente, fra Gerusalemme, la Cisgiordania, Gaza, la Giordania, il Libano e la Siria, per un totale di 4.500.000 rifugiati palestinesi che vivono nei campi. La maggior parte degli originari rifugiati è riuscita ad andare a vivere fuori dai campi; sono rimasti ormai coloro che non hanno mezzi per uscire e andare a vivere fuori. 500.000 bambini studiano nelle scuole dell’UNRWA, che gestisce 450 ambulatori sanitari n tutto il Medio oriente; il tutto impiegando 30.000 dipendenti. La situazione a Gaza è gravissima, è un’emergenza umanitaria senza pari. A Gaza il 70% della popolazione palestinese vive in campi profughi, dove l’UNRWA impiega 10.000 persone per garantire oltre ai servizi di base anche l’assistenza umanitaria. Gaza vive in una situazione di isolamento artificiale per cui solo i dipendenti delle agenzie internazionali possono entrare sempre però con gravi difficoltà. La situazione di 1.500.00 persone resta gravissima e bloccata. In Cisgiordania e a Gerusalemme est, le forze israeliane di occupazione hanno impiantato 600 tipi di controlli, tra check point e posti di blocco, 600 ostacoli che la popolazione palestinese deve superare nella vita quotidiana con il conseguente impatto economico, sociale e psicologico. Questo sistema di controlli è ancora del tutto intatto nonostante tutte le dichiarazioni ufficiali in senso contrario. Vorrei concludere dicendo che, noi, in quanto Agenzia dell’ONU per i Rifugiati, non siamo responsabili delle decisioni politiche, o meglio dell’assenza di decisioni politiche. Ed è una soluzione politica quella che deve essere trovata, includendo nello scenario i 4.500.000 di rifugiati palestinesi, senza i quali non è possibile alcun accordo di pace”. 14 A questo punto abbiamo visitato il campo, dove abbiamo potuto toccare con mano le parole di Grandi: la spazzatura è accumulata lungo i lati delle strade da dove spuntavano di tanto in tanto falò, unico sistema di smaltimento dei rifiuti. La rabbia sale insieme all’indignazione e al senso di impotenza. Se a Betlemme e in Cisgiordania si respira un’aria asfissiante di un’occupazione invisibile ma pervasiva, qui tocchi con mano il disprezzo del più forte per il perseguitato. Ci rechiamo presso il centro di aggregazione giovanile del campo, gestito dal Consiglio del Campo di Shu’fat. Restiamo colpiti dall’ospitalità ricevuta: un generoso coffee break, ma soprattutto l’allegria delle bambine del campo che si esibiscono in una danza popolare palestinese, un’allegria contagiosa che s’impadronisce di noi e ci fa diventare una cosa sola con i nostri ospiti. Yad Vashem Il secondo appuntamento della giornata prevede la vista allo Yad Vashem, il museo dell’olocausto. La visita è preceduta da un discorso del direttore del museo, che parla del loro impegno non solo nel mantenere viva la memoria ma soprattutto nell’azione culturale per far sì che il passato non si ripeta. Un unico, brevissimo accenno al popolo palestinese: “Noi qui non facciamo politica, ma cultura. Ho molti amici palestinesi e penso che tutti gli uomini siano uguali e abbiano gli stessi diritti”. Non mi sento in grado di descrivere la visita. È stata un’esperienza che ciascuno di noi ha vissuto in modo solitario e intimo, nonostante fossimo in più di 400. A gennaio sono stata ad Auschwitz. A Gerusalemme non ho provato le stesse emozioni. Se la visita al campo di sterminio mi aveva fatto provare un senso di immedesimazione, per quanto ciò fosse possibile data l’immane barbarie di fronte alla quale mi trovavo che può essere descritta solo dal vuoto del silenzio; la visita allo Yad Vashem mi lascia in preda a sentimenti confusi, difficili da decifrare, c’è rabbia mista ad un senso di annientamento, di rassegnazione, c’è la sensazione che qualcosa ci sfugga, che non è cos’ semplice associare la Shoah a ciò che accade in Palestina, forse è un po’ semplicistico dire che gli israeliani in quanto vittime della Shoah avrebbero un doppio dovere morale nei confronti di quanto stanno facendo passare ai palestinesi. Però poi ti chiedi perché? Qual è la differenza tra un tedesco, o un francese o un inglese, o un italiano, che negli anni trenta leggeva in molti opuscoli che gli ebrei erano degli insetti, e un colono ebreo ortodosso che nel 2009 ritiene giusto picchiare un bambino palestinese che va a scuola perché, secondo lui i palestinesi sono solo degli animali che meritano di morire? Qual è la differenza tra chi parlava di razza pura ariana, di spazio vitale negli anni trenta, e l’attuale ministro degli esteri israeliano Lieberman che parla esplicitamente di “trasferire” i palestinesi-israeliani per realizzare uno stato “puro” ebraico? Dove può portare tutto ciò? Parents’ Circe Poi capisci che la storia non si ripete, che niente può essere paragonato a ciò che è avvenuto nel passato, ma che l’uomo è capace di generare barbarie in forme sempre nuove e diversificate. Non c’è bisogno di paragoni. La Shoah è qualcosa che non ha pari nella storia, così come la nakba e l’oppressione del popolo palestinese: ciò che il governo israeliano sta attuando è un sistema di repressione, oppressione, apartheid e pulizia etnica completamente nuovo e inusitato. Ascoltando le testimonianze dei parenti delle vittime israeliani e palestinesi, parlando con ragazzi comuni a Tel Aviv, con i rappresentanti delle associazioni di israeliani che si occupano dei diritti dei palestinesi , con gli ormai pochi intellettuali israeliani che si oppongono al loro governo e alla cultura dominante nel Paese, avverti la complessità di un mondo nel quale noi pacifisti e nonviolenti italiani saremmo dovuti entrare con più umiltà e meno arroganza. Che senso ha chiedere ad una madre israeliana alla quale è morto il figlio che faceva il servizio militare e che ora lotta fianco a fianco ad un giovane ragazzo palestinese, ex combattente, che è stato in carcere, ha perso il fratello ucciso dagli israeliani, e insieme hanno scelto la via della nonviolenza, cosa si prova a vivere in un stato fascista, militarizzato, che non rispetta i diritti umani? A una donna che ha il coraggio di fare controinformazione in un paese nel quale è vietato ai propri cittadini di recarsi nei territori palestinesi, con una multa fino a 5.000 € e la reclusione fino a 3 anni? Una donna che ha trasformato l’odio per l’assassinio del figlio in impegno per una soluzione di pace? Abbiamo provato a sentire cosa deve sopportare questa donna ogni giorno, le lotte continue con se stessa, e poi con i propri vicini, la diffidenza per non dire di peggio dell’ambiente nel quale si muove? Abbiamo idea di quai siano le informazioni che il governo decide di far passare? Cosa puoi dire ad un tassista che ti dice che da 15 quando è stato costruito il muro non ci sono più attentati, ad un ventenne di Tel Aviv che vuole uscire a bere una birra con gli amici senza correre il rischio che un kamikaze si faccia esplodere nel bar nel quale si trova, o ad un anziano sopravvissuto ai campi di sterminio che vuole concludere la propria esistenza in uno Stato nel quale si sente al sicuro? Poi accompagni un amico giornalista ad incontrare a Tel Aviv il responsabile israeliano di un’associazione che si occupa dei diritti dei migranti in Israele che ti parla dell’odioso sistema delle “porte girevoli”, ascolti le testimonianze di chi dei nostri ha incontrato i sindacati dei lavoratori israeliani parlarti di come lo stato abbia smantellato negli ultimi vent’anni il sistema di protezioni sociali e di come il diritto di sciopero sia stato abolito di fronte al più importante diritto di proprietà. E allora capisci. Capisci che Israele non è più lo Stato per gli ebrei, ma lo Stato per gli ebrei ricchi. Capisci che il popolo israeliano non è il suo governo, anche se lo ha eletto e lo sostiene. Capisci che il governo sfrutta la paura dei propri cittadini, una paura atavica e radicata nel profondo, che non emerge girando per le strade di Gerusalemme o di Tel Aviv, dove la gente, forse ubriaca di consumismo e benessere, vive in modo apparentemente sereno e tranquillo, a differenza di quanto possa avvenire a Betlemme o a Ramallah per non parlare di Gaza; una paura che viene fuori non appena gratti la superficie patinata e che nasce da millenni di persecuzioni da parte di tutti i popoli della terra e da sessant’anni di guerre contro i paesi arabi e di terrorismo. Capisci che i governanti non hanno paura, sono ben consapevoli di ciò che stanno facendo, ma strumentalizzano la paura del proprio popolo per perseguire fini espansionistici e colonialistici di cui saranno in pochi a beneficiare. Di fronte alla paura legittima, solo un lavoro di paziente e lenta ricostruzione della fiducia, da un lato, e di trasformazione della rabbia legittima, dall’altro, può far rinascere la speranza. Per questo, non possiamo fare altro che sostenere da entrambe le parti chi lavora in queste direzioni, chi ha scelto la strada lunga e ingrata della nonviolenza. 15 ottobre 2009 – Silwan, check point agricolo e “piantagione” degli ulivi Siamo divisi in due gruppi: un gruppo è guidato dai volontari palestinesi dell’YDD, un’associazione che lotta contro l’abbattimento delle case palestinesi a Gerusalemme; l’altro gruppo è guidato dai volontari dell’Icahd, un’associazione di volontari israeliani che lotta sempre contro l’abbattimento delle case dei palestinesi. Con l’YDD andiamo a Silwan, un quartiere di Gerusalemme Est, dove siamo accolti dal presidente del comitato dei residenti di Silwan. Sono centinaia le famiglie minacciate di essere espulse dalle proprie case, circa 80 costruzioni devono essere abbattute, secondo la municipalità di Gerusalemme, per realizzare il parco archeologico di Re David. Queste demolizioni sono illegali e sono anch’esse condannate dagli organismi internazionali, in particolare dall’OCHA, l’organizzazione delle Nazioni Unite per i Territori Occupati. L’ingiustizia è evidente, ma è un terreno di lotta che vede uniti palestinesi e israeliani, seppure in due associazioni diverse. Mi colpisce una frase del presidente del comitato, la cui famiglia vive a Silwan da 400 anni: “ Se Re David fosse vivo non approverebbe ciò che i suoi discendenti stanno facendo in suo nome”. Nel pomeriggio, dopo aver pranzato in un villaggio palestinese nei Territori Occupati, ci rechiamo nelle campagne, di fronte ad un check point agricolo, per piantare alberi di ulivo in segno di pace. Cos’è un check point agricolo? Dunque, il muro è arrivato anche qui, non è ancora in cemento ma in filo spinato. Il muro separa le terre coltivate a ulivi e viti, principalmente, dai legittimi proprietari, che abitano dall’altra parte. Il check point agricolo apre a discrezione dei soldati di guardia; per cui i contadini fanno ore di fila per andare e venire dai campi nell’attesa che arrivi il soldato israeliano ad aprire i cancelli. L’arbitrio è totale: lo scorso anno il cancello non è stato aperto per 10 giorni mandando in rovina il raccolto di uva. Il cancello quando arriviamo è chiuso ma la nostra presenza attira una camionetta di soldati israeliani che ci intima di mantenere una distanza di sicurezza dal cancello. A quel punto, un gruppo di contadini che si trovava dall’altra parte e che aveva finito il proprio lavoro, ne approfitta per chiedere ai soldati di aprire il cancello per tornare a casa. I cancelli vengono aperti e così i contatti, con il loro raccolto caricato su carretti e muli, possono rientrare nelle proprie case. Per noi forse è già difficile immaginare cosa voglia dire coltivare la terra, figuriamoci se siamo in grado di immedesimarci in chi ama il proprio pezzo di terra, ci si spezza la schiena sopra, ogni frutto 16 nasce dal sudore della propria fronte, e capire cosa significhi per lui sopportare quest’autentico calvario ogni giorno per avere qualcosa sul tavolo per la cena. 16 ottobre 2009 – Betlemme, assemblea dei partecipanti, Mar Morto, Gerico Dopo una settimana molto impegnativa, densa di incontri e di emozioni, è arrivato il momento di fare il punto della situazione e di condividere tra noi partecipanti l’esperienza. Così ci ritroviamo la mattina in assemblea per confrontarci e per decidere come continuare ad agire. Siamo tutti impegnati in primo luogo a diffondere i più possibile ciò di cui siamo stati testimoni, nella consapevolezza che il lavoro più importante vada fatto in Italia, a casa nostra, per sensibilizzare il più possibile l’opinione pubblica europea. Decidiamo di ritrovarci nel più breve tempo possibile per capire come agire e coordinare meglio gli interventi di cooperazione decentrata che ciascun ente locale ha in campo in Palestina, al fine di ottimizzare le risorse. Dopo pranzo partiamo alla volta del Mar Morto e di Gerico, la più antica città del mondo. Attraversiamo il deserto di Giudea e osserviamo le tende dei beduini, emarginati fra gli emarginati. Ci fermiamo lungo la strada per il Monastero di San Giorgio, ma non abbiamo tempo per visitarlo. Qui i beduini arrotondano vendendo bigiotterie, veli e facendo foto ai turisti sui cammelli. Arriviamo sul Mar Morto. È fantastico! In uno stabilimento balneare ben organizzato, ci accolgono i Doors e la loro musica che avvolge in un’aurea hippy questa nostra “variazione sul tema”. Certo, anche sul Mar Morto ci sono molti problemi: le acque del Giordano deviate per rendere fertile la sua valle non alimentano più come una volta questo storico mare salato, il cui livello cala in continuazione. Inoltre, partecipiamo allo stand up mondiale contro la povertà nel mondo e penso che sia stato estremamente significativo farlo in Palestina e a 400 m sotto il livello del mare. Ma per poche ore ci tuffiamo in queste acque mitologiche, ci ricopriamo di fango e sale e ci godiamo per un momento il fatto di essere in un posto unico al mondo. La cena è a Gerico. Purtroppo quando arriviamo è già buio e non riusciamo a vedere un granchè. La cena ci allieta e i nostri ospiti ci accolgono nel modo generoso e caloroso tipico di questa terra, per la cui scoperta non sono certo sufficienti 7 giorni. 17 ottobre 2009 – Ritorno in Italia Questa esperienza ci ha cambiato? Se si, come pensiamo, è difficile capire in quale modo. È banale dirlo lo so, ma questa terra mi manca già ancora prima di lasciarla. Il sole, i colori, gli odori, la gente. Come mi mancano già gli amici incontrati in questo viaggio, anche se ovviamente ci terremo in contatto arrivati in Italia, sappiamo già che ciascuno di noi tornerà alle proprie case e alle proprie vite. Questi sono i pensieri che attraversano la mia mente mentre preparo le valigie, salgo sul pullman e attraversiamo il check point di Betlemme per l’ultima volta. Eppure sappiamo che resteremo sempre uniti, in qualche modo, perché solo così la nostra esperienza potrà avere la forza necessaria a seminare qualcosa di positivo anche nel nostro Paese Troppo ottimista.
Posted on: Sun, 20 Oct 2013 15:49:42 +0000

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