Elias Khury, Benvenuti a Beirut! Lo scrittore libanese Elias - TopicsExpress



          

Elias Khury, Benvenuti a Beirut! Lo scrittore libanese Elias Khury che ha contribuito al progetto “Casa internazionale degli scrittori”, ha presenziato all’inaugurazione di questa ‘casa’ che non ha nessun luogo che la ospita: una casa fatta di parole, “che assomiglia oggi – spiega – alle case dei siriani, alle loro anime vagabonde, al loro sogno di democrazia che il regime tirannico ha trasformato in un incubo di morte, di oppressione e di tormento”. Di seguito la traduzione del suo discorso, che parla di Libano, della tragedia siriana e del dolore palestinese. Che parla della scrittura intesa come impegno, perché “specchio dell’animo umano” e del letterato che non può essere distaccato dalla realtà che lo circonda. Un articolo da leggere tutto, fino in fondo. (di Elias Khury per al Quds al arabi. Traduzione dall’arabo di Khouzama Reda). Oggi ci incontriamo per inaugurare la fondazione della “Casa internazionale degli scrittori” a Beirut. Avrei preferito che quest’incontro si tenesse in un campo per i profughi siriani in Libano, anziché in questo bel posto, costruito sul bordo di un cumulo di macerie della nostra antica città, sepolto nel fondo del mare[1]. Ma lo stato libanese non vuole ammettere l’esistenza del problema dei profughi siriani il cui numero ha ormai superato il milione. Questa è una questione complicata, e questi non sono né l’occasione né il momento per approfondirla, perché si aprirebbero le porte dell’inferno libanese che rischia di deflagrare in qualsiasi momento. Ho detto che avrei preferito andare in un campo per i profughi siriani che non esiste, non perché voglio mescolare le cose. Io credo che la letteratura non sia semplicemente specchio della realtà: essa esprime i diversi elementi della realtà, perché è lo specchio dell’animo umano, lo specchio delle domande, uno specchio nato frammentato nel fango, nelle follie e nelle sofferenze della storia. Ho detto che avrei preferito il campo, perché penso che la “Casa degli scrittori” non possa erigersi se non in uno spazio senza confini. È una casa senza finestre e senza porte, una casa senza tetto, che ha solo le parole. È per questo che assomiglia oggi alle case dei siriani, alle loro anime vagabonde, al loro sogno di democrazia che il regime tirannico ha trasformato in un incubo di morte, di oppressione e di tormento. Ci saremmo anche potuti incontrare in un campo profughi palestinese a Beirut, ma le condizioni di questi campi sono difficili. I loro lunghi assedi avvenuti in seguito a massacri brutali, rendono il campo palestinese un luogo impossibile. La nostra vicinanza a questi campi, però, ci fa sentire il rumore strisciante del dolore che si sprigiona da una Nakba continua, i cui primi capitoli sono iniziati nel 1948 e che oggi continua nelle case demolite ogni giorno in Palestina e nell’occupazione israeliana divenuta una malattia incurabile. Come vedete, signore e signori, quando vi invitiamo a Beirut, non vi invitiamo in un rifugio della scrittura, con la sua idea dell’isolamento eterno dello scrittore, isolamento che gli consente di allontanarsi dal mondo per interrogare il silenzio delle parole. Beirut, che vive la sua rovina a contatto con due grandi tragedie che la circondano da ogni parte, non è un posto adatto a una casa come questa. Beirut vi invita in una casa che vive la distruzione al ritmo di due tragedie: la tragedia del Levante arabo, con la tirannia che ha prodotto questo enorme dolore siriano; e la sua stessa tragedia, con l’occupazione israeliana che vuole trasformare le leggende in storia, impastata nel sangue della vittima palestinese. È lunga e complicata la nostra storia con la tirannia. I regimi militari-mafiosi sono riusciti a distruggere la società per più di quarant’anni. Per questo le rivolte popolari arabe sono arrivate spontaneamente e senza quadri organizzativi, e così si spiegano i percorsi complicati delle rivoluzioni nei nostri Paesi. Chi aspettava lo spuntare dell’alba della democrazia nel volgere di una notte è rimasto deluso amaramente. E chi invece pensava che l’Occidente coloniale sarebbe corso a soccorrere i popoli in difesa della democrazia, ha dimenticato o ha voluto dimenticare che il passato coloniale non è ancora passato, e che i valori della politica internazionale non sono che una copertura della dominazione. Naturalmente tutto questo non giustifica il fallimento evidente delle élites democratiche arabe che non hanno saputo guidare il processo di cambiamento. Alla fine era questa la loro responsabilità e avrebbero dovuto escogitare nuove forme di lotta prima che il cambiamento sprofondasse nel buio di nuove forme di tirannia. La nostra storia con l’occupazione israeliana è invece la sintesi dell’illusione di un compromesso con un progetto ancora in corso. Il progetto sionista, nella sua essenza, è un progetto di sradicamento, che è riuscito a fornire la sua lettura degli accordi di Oslo, come di una tregua tra due fasi della Nakba. Che ha proseguito il suo piano di insediamento nei territori palestinesi, cosicché il motto dei due Stati è diventato una copertura per continuare l’occupazione, addomesticando i palestinesi e mettendoli dietro le sbarre. E questo vuol dire soltanto che la devastazione continuerà in Palestina e nei suoi dintorni finché i rapporti di forza non cambieranno radicalmente, ma a ciò non si arriva senza orrori e spargimento di sangue. Accanto a queste due tragedie che ci circondano e si instillano profondamente nelle nostre vite e nella nostra coscienza al punto da averci spinto sull’orlo della guerra civile, la nostra città vive in una regione che porta il racconto dell’identità alla sua miserabile fine. E qui risiede una grande domanda che avvolge il mondo intero, ma nella nostra regione assume una forma più sincera e limpida: nel periodo della postmodernità, dopo la grande caduta della dittatura sovietica, la questione dell’identità e le politiche ad essa relative sono diventate la copertura per nascondere il dominio del dio mercato sul mondo. Questo nuovo dio è spietato e crudele. Ha spazzato via tutti i valori morali per far posto al capitalismo brutale che non ha altro fine se non l’accumulo della ricchezza. All’ombra di questo dio, la politica dell’identità ha acquisito importanza nel linguaggio politico. È aumentato il divario tra le classi sociali e la popolazioni più povere sono diventate cumuli di mendicanti e di aspiranti emigranti sulle navi della morte. Le politiche dell’identità che presagiscono la rinascita delle correnti nazional-sciovinistiche in Europa e accrescono la paura dell’Islam, o l’islamofobia, come una nuova forma di antisemitismo, nella nostra regione assumono la loro configurazione più violenta con fondamentalismi rivali che lacerano il tessuto sociale e ci gettano nel tunnel di guerre terrificanti. Nella città che vive sul cratere di queste tragedie e che ha già pagato a caro prezzo le guerre e le follie della storia, oggi fondiamo una casa per gli scrittori che dovrebbe essere in grado di costruire una nuova consapevolezza. Intendendo con ciò la scrittura come uno spazio di creatività, come una terra per affrontare il dolore con il dolore delle parole e come un luogo per dialogare con l’altro che vive nelle profondità del proprio io. Benvenuti a Beirut. [1] L’autore qui si riferisce al fatto che le macerie della città, distrutta dalla guerra civile (1975-’90), sono state accumulate nel mare, dove è stato edificato il Biel (Beirut International Exhibition and Leisure Center) che ospita il salone del libro francofono. Redazione SiriaLibano
Posted on: Thu, 14 Nov 2013 20:08:23 +0000

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