E’ capitato, domenica scorsa mentre, tornando da Aosta in - TopicsExpress



          

E’ capitato, domenica scorsa mentre, tornando da Aosta in pullman, si chiacchierava un po’ di questo un po’ dell’altro, di ricordare, Carluccio Chiara e io, una corsa in montagna che qui da noi a metà degli anni Settanta era partecipatissima e molto sentita. E cioè la Varallo-Alpe Piane di Cervarolo. Non sono sicura ma mi sembra proprio si disputasse tra la fine di luglio e i primi di agosto. Io, che nella baita al Negrino delle Piane rimessa in sesto e graziosamente arredata ho passato, a quei tempi, diverse estati insieme ai miei e a mia sorella, non vedevo l’ora di farla, quella corsa. Le Piane mi piacevano tanto; adoravo giocare con le pentoline, i piattini in legno che il Severino - falegname in gamba e nonno affettuoso e pieno di premure verso noi due nipotine scavezzacollo - aveva fatto apposta perché Elena e io ci mettessimo dentro i petali e il pistillo delle margherite, riso e polenta per sfamare i buffi commensali di quell’improvvisato e rustico ristorantino di montagna: bamboline, orsacchiotti, omini di pezza seduti su sgabelli in legno traballanti e di altezze diverse pranzavano all’aperto serviti da due cameriere che, con il frinire dei grilli in sottofondo, prendevano improbabili quanto originalissime ordinazioni. Insomma, lassù io stavo bene, benissimo. Pacioccavo nel fango, facevo lunghe camminate con gli scarponi di allora, pesanti, duri e ingombranti, alla ricerca di mirtilli che poi avrei mangiato schiacciati in una tazza con vino e zucchero. Mia mamma si raccomandava di fare molto rumore e di pestare i piedi: le vipere si sarebbero allontanate. Poi mi arrampicavo sulle betulle lasciandomi dondolare a testa in giù dai rami più alti (e più robusti, anche). Sì, certamente, ero – e come me pure mia sorella – un po’ selvatica: ma al martedì mattina si scendeva a Varallo per il mercato, e si tornava per qualche ora in mezzo alla gente. Di sera, come per un incantesimo, in quel paradiso a 1.222 metri di altezza senza corrente elettrica ma con l’acqua fresca e buona che si poteva bere direttamente dalla sorgente, addirittura accendevamo la tivù, alimentata a batteria… Vabbe’. Mi sto perdendo nei ricordi. E nei racconti. Dicevo di questa gara, alla quale partecipavo, dopo i necessari e costanti allenamenti, con il maestro Italo, ancora convinto, all’epoca, di potermi trasmettere in eredità la passione per la corsa a piedi, senza considerare (l’amore paterno soprassiede sovente a evidenze nette) che quella non basta: ci vogliono anche le risorse fisiche. La Varallo-Alpe Piane – e pure in questo mi affido, peraltro in tutta tranquillità, alla memoria – si snodava su un percorso di 13 km circa. La partenza, in piazza Vittorio Emanuele II. Il ritrovo, per le iscrizioni e la distribuzione dei pettorali, mi emozionava già parecchio: atleti esperti, veloci, forti, che vedevo come grandi grandissimi campioni, e in realtà alcuni di loro lo erano veramente; poi una folta schiera di semplici camminatori, come me in fondo, desiderosi di godersi una passeggiata su mulattiere, sentieri, in mezzo ai nostri boschi profumati e dalle tinte già intense. Partiti dal centro di Varallo, si proseguiva su strada normale fin verso il ponte della Gula. Poi i Prati di Cervarolo; quindi, appunto lungo magnifiche scorciatoie, pulite e comode, prima raggiungevi Cervarolo, sbucando in piazzetta, poi riprendevi la salita. Altre stradine, e si usciva a Villa Superiore. L’ultimo tratto, quel meraviglioso sterrato (ora purtroppo per metà coperto e soffocato dall’asfalto; ma questa è un’opinione personale, chi alle Piane ci va ancora, e spesso, l’ha considerata un’opera utile quella di sistemare quel chilometro e mezzo circa di tragitto, durante il quale le auto non rischiano più di sentirsi carambolare sul fondo sassi e sassetti o di finire in qualche depressione scavata dalla pioggia), per un totale suppergiù di tre chilometri, lo si percorreva solo in parte, tagliando ancora per un paio di mulattiere. Una volta all’alpe, la prima cosa che si vedeva (e che sempre si vede) era la piccola e gentile chiesetta. Alla tua destra il rifugio Camosci, quindi l’ultima salitina; per finire, il traguardo. Ho bei ricordi, anzi splendidi, di quelle domeniche “competitive”. Non so quanto ci impiegassi con il maestro Italo da Varallo fin su. Comunque io correvo in tre punti precisi: alla partenza, perché è quasi un obbligo e i concorrenti pronti a sfidarsi, belli carichi, col pettorale bene in vista son lì a farti presente che, sì, è davvero una gara; a Pianebelle, quando transitavo davanti a casa dei nonni paterni, che mi applaudivano orgogliosi; sempre a Pianebelle, davanti al ristorante, perché c’era un po’ di gente a vederci passare e qualcuno lo conoscevo; e poi all’arrivo, con mio papà a lasciare che lo superassi, per andare incontro “vittoriosa” a mia mamma e a mia sorella: assai meno sportive di noi, salivano alle Piane con la vecchia 500 color caffellatte (tra l’altro mai minimamente danneggiata dallo sterrato). Chi vinceva? Tra le donne, non saprei dirlo. Tra gli uomini, sempre lui, l’Angelo Detomasi, che partiva da piazza Vittorio come un treno ed esattamente allo stesso modo tagliava il traguardo. Io sono sempre riuscita a portarmi a casa una coppa, grande o forse più piccola, ma che mi rendeva felice.
Posted on: Tue, 29 Oct 2013 12:17:46 +0000

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