E’ davvero possibile per un piccolo gruppo di cosiddetti - TopicsExpress



          

E’ davvero possibile per un piccolo gruppo di cosiddetti ‘illuminati’ dominare il mondo oggi? Non parliamo tanto del dominio attraverso le tecnologie, come sta venendo fuori in questi giorni nelle clamorose vicende del Datagate. E nemmeno di una ristretta cerchia di abili manipolatori “psico-religiosi” che tenta la strada del messaggio subliminale o dell’arringatore sempre fuori dagli schemi. Parliamo, invece, del club Bilderberg e annessi, come la Trilateral Commission. Tutte invenzioni del novecento che il milieau della borghesia internazionale ha tirato fuori dal cappello per tenere testa alla sfida della globalizzazione. Insomma, al di là della facili fantasie complottiste o degli immaginifici “grandi fratelli”, ciò che il sociologo ed economista Domenico Moro documenta con puntigliosità e precisione nel suo “Club Bilderberg. Gli uomini che comandano il mondo” è che la borghesia, nel senso della classe proprietaria del capitale e dei mezzi di produzione, sta chiudendo il cerchio di una fase iniziata qualche decennio fa quando cominciò a porsi il problema di arginare l’offensiva del movimento dei lavoratori. Lette da qui, le affermazioni di JP Morgan sull’inutilità di democrazia e antifascismo non stupiscono più di tanto, quindi. In fondo, tentare di togliere di mezzo le istituzioni democratiche per quel “piccolo difetto” di non essere completamente riducibili ad uno schema di comando capitalistico unilaterale, elitario e immediato, è da tempo uno degli obiettivi della borghesia. Quella che Giovanni Agnelli definiva la sfida della governabilità è ancora un nodo da risolvere. Un nodo che la borghesia non riesce a sciogliere nonostante il grande potere economico e sociale di cui oggi è titolare. Ed allora ecco la via breve della soluzione unilaterale basata sull’esercizio del potere effettivo. La politica come gioco ad armi pari, oppure lo stesso Stato, quando identifica il bene pubblico, senza contare la dura china del decentramento democratico dei poteri, sono tutti concetti che i veri dominatori, anche nella versione progressista, non ce la fanno a gestire. Non potendo perseguire il loro disegno per via istituzionale, perché altrimenti si tornerebbe al fascismo, ecco allora la via della “cooptazione dei potenti” che dagli anni Cinquanta in poi ha aperto la strada ai “corpi separati” ovvero a quegli organismi esclusivi che dapprima pian piano tentano di affiancarsi e poi sostituire via via i soggetti legittimamente eletti dai popoli. Gruppi di potere più o meno organizzati, comitati di affari, filiere politico-criminali, logge e loggette: c’è solo l’imbarazzo della scelta. Dalla tavola di “Re Artù” ad oggi, il contributo della borghesia capitalista al progresso del mondo è stato meno che zero. Un lento lavoro ai fianchi delle aspirazioni legittime ad un mondo migliore che oggi ha portato molti, tra gli uomini al vertice di governi, parlamenti, e organismi vari, a maturare il loro percorso di formazione e decisionale in territori altri e dentro un sistema di relazioni che risponde a precisi interessi privati e globali e dove il potere non è una astrazione del diritto ma un fatto molto concreto. E’ in questi ambiti che, in sostanza, si decidono le sorti del mondo, sempre alla ricerca di un equilibro che, vista la complessità della situazione geopolitica, ha bisogno di continui aggiustamenti. C’è quindi una sorta di “riunione permanente” che vigila e produce i passaggi necessari alla soluzione o all’aggravamento delle crisi a seconda degli interessi predominanti in quel momento. Alla cosiddetta “sovranità nazionale” viene lasciato il solo compito di ratifica formale. E’ in questa sede che viene trovata la “quadra” alle contraddizioni, che rappresentano ancora un nodo di cui la borghesia internazionale non riesce a liberarsi per la sua stessa natura di classe endemicamente conflittuale. Moro li individua uno per uno questi “illuminati” citandoli per nome e per cognome, facendo le dovute comparazioni e traendone le giuste conclusioni sul peso relativo che ogni gruppo o raggruppamento geopolitico detiene in un momento dato. Dalla sua analisi viene fuori un quadro impietoso in cui praticamente, niente e nessuno resiste alla cooptazione: politici, giornalisti, magistrati, militari, medici, avvocati, e via dicendo. Il mondo dell’imprenditoria è il principale protagonista ovviamente. Del resto, tutto nasce da lì. Dal bisogno, cioè, di trovare una camera di compensazione alla miriade di potenziali conflitti in uno scenario globale in cui la sovranità nazionale non conta più come prima e in cui il bisogno di trovare contemporaneamente sbocchi di mercato che realizzino il plusvalore e braccia da sfruttare è ancora il problema “geopolitico” per eccellenza. E infatti, il problema della guerra è ancora un elemento dell’attualità. Nell’agenda della borghesia “trilaterale” non c’è il “se” e nemmeno il “quando”, considerato il clima permanente di emergenza, ma solo il “come”. Un libro affascinante quello di Moro in grado di squadernare una ricognizione precisa su temi e personaggi di Bildergerg e Trilateral per tutti gli anni della loro storia e al conte pompo di inserirli nella collocazione attuale. Le vicende Bilderberg e Trilateral misurano indirettamente il grosso ritardo della sinistra antagonista. E anche per questo il saggio di Moro ha un valore enorme per il tentativo di riflessione che si sta producendo in questo periodo di crisi. L’inadeguatezza è il primo tema da introdurre. Ed anche, per il taglio storico che il libro propone, una ricerca del punto esatto che ha cominciato a produrla. Domenico Moro è nato a Roma nel 1964. È laureato in sociologia. Collabora con quotidiani e riviste nazionali ed è autore di diversi volumi di carattere economico, politico e militare. Negli ultimi anni ha pubblicato il Nuovo Compendio del Capitale. Fonte: controlacrisi.org L’estratto dal libro 3.3 Caos endemico o nuovo ordine mondiale? Gli Usa sono entrati in una prima fase di crisi negli anni ’70 – come capirono bene i fondatori della Trilaterale – cui è seguita una fase di finanziarizzazione che ha toccato il suo apice con lo scoppio della bolla subprime. Come ha sostenuto Arrighi , il periodo attuale sembra avere le caratteristiche della fase di caos finale tipica dei cicli sistemici secolari, con l’emersione di nuovi centri di potere economici e statuali. Tuttavia, a differenza che nei cicli precedenti, non si profila per il momento né un conflitto generale né un nuovo Stato in grado di sostituire gli Usa. La potenza egemone, pur avendo perso i mezzi finanziari per risolvere i problemi sistemici, conserva sul piano militare una superiorità schiacciante. Inoltre, lo sviluppo delle armi nucleari inibisce ogni confronto militare decisivo. La Cina, l’unico contendente che potrebbe impensierire gli Usa, sembra lontana da una possibile evoluzione economica di tipo imperialista classica, né dispone dei sofisticati mezzi finanziari necessari a dirigere l’economia mondiale. L’Eurozona, sebbene controlli la massa più importante di capitale mobile mondiale , non è uno Stato e ha un rapporto contraddittorio, da , con gli Usa. Infine, le stesse caratteristiche della fase transnazionale rendono difficile una soluzione classica. Il sistema economico mondiale ha raggiunto dimensioni e complessità tali che probabilmente non è possibile ad alcun singolo Stato, per quanto colossale, porsi come centro egemonico. L’euro appare essere più che un antagonista del dollaro, la sua necessaria spalla, magari da ridimensionare con attacchi speculativi nel caso in cui si rafforzi troppo. Del resto, la duplicità valutaria è utile al capitale finanziario mondiale, che può giocare sulle oscillazioni tra dollaro ed euro, ai quali, forse, potrebbe aggiungersi in futuro lo yuan. Tale situazione di apparente stallo è, però, tutt’altro che pacifica e stabile. Proprio l’impossibilità di una soluzione alle contraddizioni economiche e politiche con una guerra generale aumenta le contraddizioni a tutti i livelli, a partire dal livello della lotta fra le classi. La tendenza alla caduta del saggio di profitto, ripresentatasi nei Paesi centrali a partire dalla metà degli anni ’70, è stata affrontata cercando di comprimente la quota del salario. Vista la forza delle organizzazioni sindacali, le imprese scelsero di sostituire la forza lavoro con le macchine, sfruttando la robotizzazione e la rivoluzione informatica. Ma l’aumento della disoccupazione non produsse un soddisfacente abbassamento dei salari, soprattutto perché contemporaneamente si espandevano le reti di protezione del welfare state. A questo punto, si accentuò la spinta all’esportazione dei capitali dove i salari erano più bassi. Nell’imperialismo di Hobson e Lenin l’esportazione dei capitali si indirizzava quasi esclusivamente alla finanza, al minerario e alle infrastrutture, rappresentando l’aspetto dominante ma non prevalente dell’economia capitalistica. Invece, nell’imperialismo attuale i capitali sono massicciamente investiti all’estero anche nella manifattura, e l’esportazione di capitale prevale su quella di merci. Questo ha determinato il peggioramento della bilancia della partite correnti e della posizione finanziaria degli Stati centrali, che esportano molto più capitale di quello che attraggono. Ma soprattutto la classe capitalistica transnazionale ha potuto scardinare il potere di negoziazione dei sindacati. Sulla spinta della concorrenza dei salari dei Paesi periferici, è riuscita a deregolamentare il mercato del lavoro, introducendo precarietà e riducendo i salari, che negli Usa, tra 2008 e 2012, sono diminuiti del 9%. Lì dove la concorrenza dei bassi salari periferici non è stata sufficiente è intervenuto l’euro. Il peggioramento della situazione finanziaria e debitoria degli Stati, accentuato e reso ingestibile dai vincoli posti dall’appartenenza all’euro, ha condotto, grazie alla minaccia di bancarotta, alla riduzione dei salari pubblici, alla deregolamentazione del mercato del lavoro privato, e a pesanti tagli delle reti di protezione del welfare. Questi nuovi fattori hanno reintrodotto due fenomeni che nei Paesi avanzati sembravano archiviati per sempre. Il primo è l’esercito industriale di riserva, cioè una forza lavoro sempre disponibile, in grado di essere impiegata a basso costo e a seconda dell’andamento ciclico tipico del capitalismo. L’altro aspetto è l’impoverimento non solo relativo ma anche assoluto dei salariati, che riattualizza la povertà di massa e la figura del povero che lavora. Fatti che confermano le affermazioni di Arrighi di oltre venti anni fa: “Le previsioni del Manifesto [del partito comunista di Marx-Engels] possono essere più rilevanti sul movimento operaio nei prossimi 50-60 anni di quanto lo siano state negli ultimi 90-100 anni.” Ma la riduzione del potere sociale dei lavoratori non poteva essere attuata senza una contemporanea riduzione dell’, come suggeriva Huntington nel documento della Trilaterale del 1975. L’introduzione di sistemi elettorali e di governo maggioritari, ispirati al modello statunitense, hanno favorito la convergenza bipartisan sugli interessi del capitale transnazionale dei partiti maggiori e l’eliminazione delle ali estreme. In questo modo, la declinante capacità dei lavoratori di influire sulle decisioni politiche e la loro marginalizzazione economica e sociale hanno favorito l’insorgere anche in Italia di quell’apatia verso la politica, che W. H. Morris auspicava per le democrazie occidentali già nel 1954, e che si manifesta con l’aumento del tasso di astensionismo e con la sfiducia verso i partiti. L’elezione della governabilità a principio di governo assoluto ha condotto alla progressiva prevalenza degli esecutivi sui parlamenti, che in Italia si sostanzia anche nell’uso normale dello strumento del decreto legge, che invece dovrebbe essere impiegato solo eccezionalmente. Come sottolinea il filosofo Giorgio Agamben, “il parlamento si limita a ratificare i decreti emanati dal potere esecutivo. In senso tecnico in Italia la Repubblica non è più parlamentare ma governamentale.” L’esempio più puro di torsione della democrazia parlamentare in senso oligarchico è rintracciabile nell’uso dello stato d’eccezione, che, in virtù di una situazione di emergenza, sospende il normale funzionamento costituzionale. Lo stato d’eccezione, nato con la guerra, fu ben presto esteso al campo economico, affermando la “tendenza moderna a far coincidere emergenza politico-militare e crisi economica” . Il governo di Monti, ex dirigente del Bilderberg e della Trilaterale, è stato un caso esemplare in questo senso. Il pericolo di bancarotta e disastro finanziario, che in realtà secondo la Commissione Europea l’Italia non ha mai corso , ha giustificato il predominio dell’esecutivo, che ha potuto attuare, senza fastidiosi freni parlamentari, le politiche di austerità ispirate della Ue e dalla Bce. È, però, significativo come nella situazione attuale, per quanto (in apparenza) pacifica, i problemi economici vengano affrontati con strumenti di guerra. A quanto pare, ad essere decaduta è la lotta di classe democratica, che si è espressa per una lunga fase storica secondo “le forme pacifiche e regolate dalla legge del confronto elettorale e parlamentare tra partiti politici che esprimono gli interessi delle classi in conflitto.” Il capitale transnazionale, oltre a cambiare il contesto del conflitto di classe, modifica anche la composizione della classe dei lavoratori salariati, creando, secondo alcuni, una classe salariata transnazionale con interessi simili . In questo modo, si stabilirebbero le basi per un nuovo internazionalismo. Altri sono più prudenti, e parlano di un processo contraddittorio, vista la permanenza di notevoli differenze di reddito tra le diverse aree e Stati . Inoltre, tra la classe capitalistica e lavoratrice ci sono due differenze importanti. La prima è che i capitalisti sono coscienti dei propri comuni interessi a livello internazionale, mentre i lavoratori sono più lontani da una tale consapevolezza. La seconda è che la classe capitalistica è oggettivamente interconnessa, avendo relazioni economiche integrate e contando su organizzazioni sovrannazionali ufficiali, come l’Fmi e la Bce, e non ufficiali, come il Bilderberg e la Trilaterale. Mentre il capitale è transnazionale, il lavoro lo è molto meno, essendo limitato dall’esistenza di confini materiali che lo vincolano ad un territorio e allo Stato di appartenenza. Forse il rifiuto di estendere l’unità europea al piano istituzionale-politico mira anche ad impedire la creazione di un terreno comune alle lotte dei lavoratori, favorendo la concorrenza tra salariati dei vari Stati. In sintesi, la fase transnazionale è caratterizzata da un intreccio di conflittualità a vari livelli, tra le aree economiche mondiali ed entro le aree economiche, quindi tra e all’interno degli Stati. Schematizzando sinteticamente, ad un primo livello conflittuale troviamo i Paesi occidentali, Usa ed Europa occidentale, che si contrappongono ai Paesi emergenti, tra i quali quelli del Brics, e ai Paesi minori che ostacolano la loro tendenza al dominio. Ad un secondo livello, c’è la contrapposizione tra Usa e Ue, in particolare tra Usa ed Eurozona. Ad un terzo livello agisce la contrapposizione tra Stati dell’Eurozona, soprattutto tra la Germania e gli altri Stati. Infine, ad un quarto livello, all’interno dei singoli Stati, si sviluppa il conflitto di classe, compreso quello tra borghesia transnazionale e altri settori borghesi. Sembra, dunque, difficile identificare nell’esistenza di blocchi compatti in lotta tra di loro la caratteristica dominante della fase attuale, che invece pare rintracciarsi maggiormente in una situazione di conflittualità diffusa. Questa situazione rimanda alle caratteristiche della fase transnazionale, diversa dalla fase del capitalismo monopolistico di Stato, che spingeva alla creazione di blocchi imperialistici compatti e contrapposti. L’orizzonte della Germania nazista (e guglielmina), dell’Italia fascista e del Giappone imperiale era la costruzione di imperi regionali . La loro sconfitta non fu dovuta solamente all’aver preteso di combattere una guerra mondiale senza essere potenze mondiali , ma all’incapacità di rappresentare i veri interessi di quel che è il capitale. L’orizzonte del capitale è mondiale e non regionale, anche se possono esserci fasi temporanee in cui l’aspetto regionale è dominante. Gli Usa vinsero perché erano (ed avevano le risorse per esserlo) la migliore espressione dell’essenza del capitale, mobilità e molteplicità, e puntavano al ristabilimento del mercato mondiale. Non a caso la Germania attuale, sebbene paradossalmente abbia realizzato quell’egemonia europea che le era sfuggita nelle due guerre mondiali, non sembra interessata a tradurla in unità politica e si tiene autonoma e aperta a livello mondiale, soprattutto verso la Russia e l’Estremo Oriente. Sebbene, come detto, non sia prevedibile un conflitto generale, la conflittualità diffusa e la crisi generano una sempre più evidente tendenza alla guerra, che si presenta, però, in forme nuove. La guerra vera e propria si fonda sulle operazioni di da parte degli Stati centrali nei confronti dei Paesi periferici, che fanno parlare i militari di expeditionary era. Queste operazioni vedono spesso la partecipazione unitaria degli Usa e degli Stati europei occidentali, come in Iraq, Afghanistan e Libia. Anche gli Stati sconfitti della Seconda Guerra Mondiale, Italia, Germania e Giappone vi sono sempre più coinvolti, in contrasto con le loro Costituzioni e dotandosi di strumenti bellici adeguati. Sempre condotte dagli stati centrali ci sono le proxy war, combattute per procura da movimenti locali, sostenuti con armi, denaro e l’intervento di corpi speciali e di compagnie private di mercenari. Ma oltre alle forme direttamente violente ci sono le , un concetto che “amplia la nostra percezione di ciò che esattamente costituisce uno stato di guerra a tutti i campi dell’attività umana” . Tra i nuovi mezzi di guerra ci sono la guerra commerciale, che può avere un effetto distruttivo pari a quello di una operazione militare, e la guerra finanziaria, basata su attacchi a sorpresa deliberatamente pianificati e sferrati da detentori di capitale mobile internazionale per mettere in ginocchio interi Paesi. La guerra finanziaria si è trasformata in un’arma , perché oltre ad essere estremamente distruttiva è facilmente manipolabile e consente azioni dissimulate. Le operazioni di e le , condotte soprattutto nei confronti di Stati minori, sono, in realtà parte di un confronto tra gli Stati più potenti. Gli Usa e i loro alleati europei tendono a togliere ai potenziali avversari, Cina e Russia soprattutto, alleati e fornitori di materie prime e ad assicurarsi il controllo di aree strategiche dal punto di vista militare e delle vie commerciali. Tuttavia, se nel breve-medio periodo la situazione è in questi termini, nell’arco di un periodo un po’ più lungo gli scenari potrebbero essere diversi, anche in considerazione della progressiva perdita di peso economico relativo di Usa e di gran parte degli Stati europei. I servizi segreti Usa contemplano per il futuro un sicuro aumento dell’insicurezza e della conflittualità internazionale, visto che “nel 2030 nessun Paese – compresi gli Usa, la Cina e gli altri grandi Paesi – sarà una potenza egemonica” . Inoltre, non viene del tutto esclusa neanche la possibilità di un worst scenario: “Nei prossimi vent’anni conflitti che coinvolgano le potenze maggiori non sono inconcepibili, ma se un tale conflitto dovesse accadere esso quasi certamente non sarà al livello di una guerra mondiale con tutte le maggiori potenze coinvolte.” Fare previsioni è un esercizio molto difficile. Quel che è certo è che la situazione di conflittualità intrecciata e multilivello è stata aggravata dal fallimento della finanziarizzazione e porta con sé la sostituzione della forza al diritto sia nelle relazioni tra Stati che tra classi. Il disordine mondiale non è, però, dovuto a poteri oscuri o non facilmente individuabili, come ipotizzano i teorici del complotto, né è un semplice prodotto dell’aumento della complessità e dell’allargamento geografico del mercato e delle relazioni internazionali, come sostiene Davignon. Il disordine è soprattutto il prodotto del movimento e della contraddizioni del capitale transnazionale nonché delle decisioni dell’élite transnazionale, che ne è agente. Questa nuova classe si dimostra tutt’altro che in grado di controllare la complessità del mercato mondiale e delle relazioni internazionali e di pianificare quel , che era stato progettato dalla Trilaterale negli anni ’70 e che gli Usa di Bush e Clinton pensavano fosse ormai possibile con la fine dell’Urss. Persino nei Paesi avanzati, dinanzi all’impoverimento crescente dei salariati e alle difficoltà dei settori non monopolistici del capitale, sembra essere tutt’altro che agevole, per l’élite transnazionale, costruire un blocco di alleanze sociali e mantenere la sua egemonia. In effetti, la classe capitalistica transnazionale costituisce il fattore principale di quel caos sistemico che sembra essere la cifra del mondo attuale. Fonte: controlacrisi.org
Posted on: Sun, 21 Jul 2013 15:48:32 +0000

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