George WEIGEL John F. Kennedy. Il primo presidente americano - TopicsExpress



          

George WEIGEL John F. Kennedy. Il primo presidente americano cattolico, anzi no, battista... tratto da: 30 Giorni, anno IV, novembre 1986, p. 88s. Per vincere il pregiudizio anti-cattolico del suo Paese Kennedy finì per diventare laraldo del più protestante dogma americano: lassoluta separazione tra fede e politica Il 22 novembre 1963 un proiettile assassino pose fine allesistenza del primo «Presidente cattolico» dAmerica. In questi anni, John Fitzgerald Kennedy è divenuto una figura mitica, la cui eredità viene evocata con una tale regolarità antifonale che il contenuto reale della sua vita e delle sue convinzioni si è cancellata sempre più dalla memoria collettiva. Chi è stato John Kennedy? Quale influenza durevole ha avuto sui suoi correligionari cattolici negli Stati Uniti? Arthur M. Schlesinger jr. ha descritto il cattolicesimo di Kennedy in questi termini: «La religione di Kennedy è stata più umana che dottrinale. Egli può considerarsi cattolico allo stesso modo in cui Franklin Roosevelt può considerarsi episcopale: perché egli era nato nella fede, vissuto in essa e presumibilmente morto in essa... aveva poca conoscenza o mostrava poco interesse riguardo la tradizione dogmatica cattolica... è difficile trovare una relazione intellettuale organica tra la sua fede e la sua attività politica così come è difficile nel suo pensiero sociale cogliere la volontà di applicare i principi della «Rerum Novarum» alla realtà americana. Egli provava una notevole affinità con Papa Giovanni XXIII, ma questa si fondava più sugli aspetti politici e temperamentali del Papa che su considerazioni di ordine teologico». Sebbene Arthur Schlesinger rappresenti il tipo di anti-cattolicesimo inconsapevole e (relativamente) benevolo che si incontra frequentemente nei circoli intellettuali liberal (nota, per esempio, lantinomia degli aggettivi «umano» e «dottrinale» nella frase appena citata), in questo caso almeno egli ha colto nel segno. Il cattolicesimo di John Kennedy era come la sua «irlandesità»: un carattere ereditario. Egli non ebbe una profonda educazione religiosa (suo padre, Joseph P. Kennedy, fece sì che i suoi figli frequentassero corsi scolastici di tipo conservatore, il che naturalmente significava scuole non cattoliche), e sebbene ci siano sicuramente forme peggiori di impegno religioso di quelle determinate dallappartenenza ad un determinato gruppo etnico, sarebbe difficile argomentare che la conoscenza formale del cattolicesimo di John F. Kennedy fosse poco più che superficiale, o che egli cercasse attivamente di porre attenzione allinsegnamento sociale cattolico in ordine ai problemi e alle scelte della vita pubblica. Un sociologo potrebbe ben dire che quella di Kennedy fu una fede «privatizzata». Tutto ciò mette ancora in maggior rilievo la straordinaria ondata di fanatismo anti-cattolico in cui Kennedy si imbattè durante la corsa alla presidenza. Il clima di oggi, fortunatamente più ecumenico, è molto cambiato rispetto a quei giorni. Ma due mesi prima dellelezione del novembre 1960, fu fondata la «National conference of citizens for religious freedom», una nuova organizzazione di eminenti pastori protestanti, allo scopo di chiarire un punto: che la sua fede cattolica escludeva di fatto Kennedy dalla presidenza. Il cattolicesimo, insistevano i pastori, ha fatto «sforzi decisi... per aprire una breccia nel muro di separazione tra Chiesa e stato»; il senatore del Massachusetts, come Nikita Khrušcëv, era «prigioniero di un sistema». Norman Vincent Peale, forse il ministro evangelico più in vista dAmerica, venne per caso sentito dire: «la nostra cultura americana è al palo. Io non dico che essa non sopravviverà (allelezione di Kennedy), ma non sarà più la stessa». (Nel sentire questo, Kennedy esplose: «mi piacerebbe pensare che egli si stia congratulando con me, ma non sono sicuro di questo»). La cultura americana si mostrava, di nuovo, segnata da profonde tendenze anti-cattoliche. Kennedy, che pensava di essersi lasciato alle spalle il «problema religioso» sconfiggendo Hubert Humphrey nelle primarie della Virginia occidentale (allepoca protestante al 95%), a malincuore inserì nella sua agenda una importante allocuzione di fronte alla: «Greater Houston ministerial association», una delle più importanti associazioni americane di pastori protestanti. Quel discorso del 12 settembre viene oggi giustamente considerato come un punto di svolta nella campagna del 1960 e nella storia politica dei cattolici negli Stati Uniti. La posizione di Kennedy su Chiesa e Stato era sintetizzata in questo paragrafo: «Io credo in unAmerica dove la separazione di Chiesa e Stato sia assoluta. Dove nessun prelato cattolico direbbe al presidente (nel caso fosse cattolico) come agire e nessun pastore protestante direbbe ai suoi parrocchiani per chi votare. Dove a nessuna chiesa o scuola confessionale vengano accordati fondi pubblici o preferenze politiche... Io credo in unAmerica ufficialmente né cattolica, né protestante, né israelita. Dove nessun pubblico ufficiale richieda o accetti istruzioni in politica dal Papa, dal Consiglio nazionale delle chiese, o da qualsiasi altra autorità ecclesiastica. Dove nessun gruppo religioso cerchi di imporre i suoi voleri direttamente o indirettamente sulla popolazione in generale o sugli atti pubblici dei suoi funzionari. E dove la libertà religiosa sia così indivisibile che unazione contro una qualsiasi chiesa sia considerata come unazione contro tutte... Io credo in un Presidente le cui opinioni sulla religione siano un suo affare privato, né imposte da lui alla nazione, né imposte a lui dalla nazione come una condizione per assolvere il proprio ufficio». Il dilemma di Kennedy nel discorso di Houston venne elegantemente colto da William Lee Miller, professore allUniversità della Virginia: «Kennedy veniva stretto tra i semplici stereotipi protestanti sulla Chiesa cattolica da un lato, e le concezioni più complicate dei sofisticati teologi dallaltra. Se si concorre alle elezioni, si deve però concedere maggiore attenzione ai primi». Questo fu il gioco che Kennedy dovette giocare: più che offrire una originale difesa cattolica del principio della separazione tra Chiesa e Stato sancito dal Primo Emendamento, così come egli avrebbe trovato negli scritti del teologo gesuita John Courtney Murray, Kennedy accolse le preoccupazioni del suo uditorio mostrando come, sulla base delle sue vedute politiche secolarizzate, esse erano infondate. Il discorso di Kennedy a Houston si rivelò, senza discussione, un successo tattico: esso tagliò corto sulla «questione religiosa» nella campagna presidenziale del 1960 affibbiando con successo il non desiderato appellativo di «bigotto» agli uomini che avevano formato la «National conference of citizens for religioss freedom». E, visto lo scarto minimo che caratterizzò la vittoria di Kennedy nel 1960 (scarto a cui contribuirono i pregiudizi anti-cattolici, come unindagine successiva ha chiaramente dimostrato), il margine di sicurezza che Kennedy si procurò a Houston può ben essere considerato decisivo per la vittoria finale. Né il significato di quella vittoria dovrebbe essere negato. Dopo il 1960, è impossibile, nella vita pubblica americana, mettere in dubbio apertamente i requisiti dei cattolici per la presidenza. [...] Tornando indietro con la mente, comunque, ci si può chiedere se la tattica di Kennedy fosse accompagnata da una strategia di uguale successo. Come Miller nota, lironia volle che John F. Kennedy «risultasse, in effetti, il nostro primo Presidente battista del sud - uno, cioè, che difendeva una completa separazione (tra Chiesa e Stato), più caratteristica di quel gruppo che della sua stessa Chiesa». Tale fu certamente la sostanza del discorso di Kennedy a Houston, che pose così tanta distanza tra Kennedy e la Chiesa quanta era possibile in quelle circostanze. Il discorso iniziava con un richiamo di Kennedy al suo uditorio, sul fatto che esistevano «molti più problemi critici nellelezione del 1960», che il cosiddetto «problema religioso». La dittatura castrista a Cuba, i bambini malnutriti della Virginia occidentale, la crisi del mondo agricolo, «unAmerica con troppe baracche, con troppe poche scuole, e troppo in ritardo nella corsa per la conquista dello spazio». Questi erano i punti verso cui lattenzione degli elettori si sarebbe dovuta rivolgere. Chi potrebbe disapprovare? Subito dopo, proseguendo il discorso, Kennedy dimostrava come questi problemi, molti dei quali avevano forti contenuti morali, non fossero problemi religiosi, perché guerra e fame e ignoranza e disperazione non conoscono nessuna barriera religiosa. In effetti è così. Ma ciò che sembrava nascondersi subito sotto la superficie era il concetto che il mondo della politica, e il mondo dellimpegno religioso (da cui la schiacciante maggioranza degli americani deriva le sue convinzioni morali), fossero due mondi separati. La «separazione tra Chiesa e Stato», Kennedy sembrava dire, significava la separazione dei valori religiosi dalla disputa sugli affari di pubblico interesse. Kennedy trattò la questione in maniera ancora più vigorosa nel suo passaggio centrale, riportato prima. Non solo le istituzioni religiose in quanto tali, dovevano tirarsi indietro da un ruolo «diretto» nel processo politico (un punto che Murray avrebbe condiviso), ma anche da qualsiasi ruolo «indiretto». Ciò sembrerebbe escludere qualsiasi sostegno allinsegnamento pubblico della dottrina sociale cattolica. Così il discorso di Kennedy a Houston può essere letto come portatore di una divisione netta, costituzionalmente e filosoficamente inaccettabile tra questioni di valore morale e questioni politiche. Lapproccio di Kennedy a questi problemi è ulteriormente dimostrato dal discorso di apertura, nel 1962, alla Università di «Yale». Il suo tema centrale era che i problemi reali del mondo moderno fossero non tanto filosofici e ideologi, ma piuttosto di carattere tecnologico e manageriale. Il discorso di Kennedy a Houston, in breve, fu un excursus tatticamente riuscito, tuttavia debole sostanzialmente e strategicamente, della perenne discussione americana su Chiesa e Stato, che in realtà si traduce in una disputa tra valori religiosi e vita pubblica americana. Esso pose i «bigotti» sulla difensiva; aiutò sicuramente il diritto costituzionale dei cattolici a cercare di raggiungere il più alto ufficio esecutivo sulla terra; diede vita a una generazione di giovani attivisti cattolici; ma non risolse in alcun modo il problema della relazione tra letica cattolica e il dibattito politico in America. Questo in realtà non avrebbe dovuto sorprendere, data linclinazione intellettuale di Kennedy. Perché come William Lee Miller scrive, «Un fedele dellantica Chiesa di Roma, il bastione intellettuale della filosofia perenne della Legge Naturale e la più importante antagonista istituzionale delle moderne filosofie scettiche, riduzioniste, relativiste e pragmatiche... risultò il primo uomo con un carattere «pragmatico» pienamente moderno a occupare la Casa Bianca. La visione stessa di Kennedy non era quella della filosofia perenne radicata in Aristotele e S. Tommaso, la tradizione della Ragione con la «r» maiuscola, della Verità oggettiva e del Dogma ricevuto; era invece marcatamente empirica, scettica, senza ideologia, interamente in sintonia con quella «ragione pratica» che la maggiore parte dei pensatori cattolici considera una limitazione dei nostri tempi». I cattolici mostrano oggi una discreta fiducia nella loro posizione nella vita pubblica americana tanto da sfidare la «dicotomia» di Kennedy tra valori religiosi e politica. Un esempio: durante la campagna presidenziale del 1984, i cattolici si sono trovati su fronti opposti riguardo alla possibilità che la loro personale opposizione allaborto su richiesta, fondata su motivi etico-religiosi, potesse influenzare il loro ruolo pubblico. Geraldine Ferraro, candidata democratica alla vice presidenza, e il Governatore di New York Mario Cuomo dissero «No» e si avvicinarono al discorso di Kennedy a Houston per difendere la loro posizione. Allora gli arcivescovi John O Connor e Bernard Law, e il membro del Congresso Henry Hyde, sottolinearono che un uomo di stato cattolico di fronte ad una legge reputata, in coscienza, ingiusta debba sentire la responsabilità morale di cambiare quella legge, ciò che Mrs Ferraro e il Governatore Cuomo non avevano fatto. Ancora più importante forse aveva la difesa sofisticata degli arcivescovi e del membro del Congresso del ruolo costituzionalmente legittimo dei valori religiosi nella vita pubblica americana. La reazione di Hyde al Governatore Cuomo fu di particolare interesse, poiché essa può essere considerata un punto cruciale grazie al quale il dibattito sui rapporti Chiesa-Stato nellAmerica cattolica si è decisamente allontanata dalla dicotomia kennedyana. Hyde, un repubblicano dellIllinois e forse il maggiore difensore del diritto alla vita dei «non nati» nel Congresso, ha dichiarato: «Laffermazione che la religiosità americana è sempre stata intensamente privata... tra lindividuo e Dio (formulazione del candidato democratico Walter Mondale sarebbe sicuramente sembrata nuova a John Winthrop e ai Padri Fondatori dellAmerica, a Jonathan Edwards, agli Abolizionisti, a Lincoln, alle quindici generazioni della chiesa nera, e non meno ai cattolici americani istruiti dallautorevole John Courtney Murray, artefice della Dichiarazione sulla libertà religiosa del Concilio Vaticano II. Durante tutta la nostra storia i valori religiosi hanno sempre rappresentato una parte del dibattito politico. I valori religiosi, e particolarmente linsistenza della tradizione giudaico-cristiana sulla dignità intrinseca e il valore inviolabile di ciascuna vita umana, si trova alla radice di ciò che Murray chiamò «la proposta americana.... Le chiese come istituzioni, non dovrebbero giocare un ruolo formale nel nostro processo politico, sia per il bene della loro stessa integrità, sia per lintegrità dei nostri politici. I responsabili della Chiesa daltra parte hanno il pieno diritto di rendere pubblicamente chiare le loro opinioni sia su problemi specifici, sia in modo più importante, sulle norme morali che dovrebbero dirigere il nostro approccio verso quei problemi. Se i leader religiosi sono costituzionalmente esclusi da questi dibattiti perché fanno esplicito riferimento alla basi religiose dei valori che loro vedono come normativi, significa che ha preso piede un atto di fanatismo incostituzionale, illiberale...». Il successo tattico di Kennedy, nel 1960 fu conseguito a spese di una compenetrazione strategica tra valori religiosi e politica. Tale compenetrazione deve essere ancora ottenuta, ma i primi importanti passi verso ciò sono stati già compiuti. *********** Matteo SACCHI È arrivata lora di scoprire tutta unaltra America tratto da: Il Giornale, 11.5.2012. I coloni e gli indiani andavano damore e daccordo. Abraham Lincoln era un sincero razzista. E Roosevelt non capiva nulla di economia Gli Stati Uniti sono unicona prima che una nazione, un luogo simbolo. E come tutti i luoghi simbolici, che conquistano limmaginario, difficili da descrivere. Soprattutto per gli storici. Cè una specie di «effetto Morgana» (quello che fa tremolare lasfalto sotto il sole) che distorce la percezione di alcuni momenti epocali. E hanno un bel da fare gli specialisti nel cercare di cambiare le cose... Giusto per fare un esempio, la strategia missilistica nucleare degli Usa è stata fortemente sviluppata e resa flessibile da Kennedy (era anche un fan delle azioni delle forze speciali), il quale per tutti resterà sempre un presidente «colomba». Per fortuna però ci sono ricercatori e divulgatori che si ostinano ad andare contro corrente. Di uno di questi, Thomas E. Woods jr., è appena stata pubblicata in Italia Guida politicamente scorretta alla storia degli Stati Uniti dAmerica (DEttoris Editori, pagg. 346, euro 24,90, prefazione di Marco Respinti). Woods è docente di Storia presso il Ludwig von Mises Institute ed è uno dei più noti tra gli storici conservatori Usa. Il suo libro, che ha un preciso taglio politico e negli States ha sollevato un putiferio, è interessante proprio perché con piglio semplice e manualistico fa il tiro al piccione contro una serie di luoghi comuni, allineando tanti fatti e poca ideologia. Eccone alcuni tra i tantissimi e gustosissimi del libro. Nonostante la vulgata, i puritani nel fondare le prime colonie non rubarono la terra agli indiani. La ottennero con trattati e relazioni commerciali che per moltissimo tempo resero felici e soddisfatte entrambe le parti. E molto spesso i tribunali del New England nelle dispute, peraltro piuttosto rare, presero posizione a favore dei nativi. Gli scontri con gli indiani iniziarono molto dopo e non sono quindi un «peccato originale» nella nascita degli States... La rivolta fiscale delle tredici colonie e la conseguente Guerra di indipendenza (1775-1783) è stata molto spesso presentata come il modello della Rivoluzione francese (1788-1799). E contingenze politiche dellepoca hanno in effetti fatto in modo che i due movimenti fossero interrelati e che fra i rivoluzionari (Thomas Jefferson stazionò a lungo a Parigi) ci fossero buoni rapporti, soprattutto in chiave anti inglese. Però le radici ideologiche delle due rivoluzioni erano completamente diverse. Gli americani avevano portato avanti una rivoluzione di stampo conservatore, non volevano trasformare la società delle colonie, ma soltanto tutelarla. I giacobini francesi invece volevano una renovatio totale del mondo. SECESSIONE È uno dei periodi su cui la costruzione mitologica è più forte. Peccato però che gli Stati del Sud avessero il diritto costituzionale di separarsi: già dalla nascita degli Stati Uniti molti Stati avevano elaborato clausole che consentivano il distacco dallUnione se questa fosse diventata oppressiva. E gli stessi antischiavisti avevano chiesto a gran voce di separarsi dagli Stati del Sud. Quanto alle reali opinioni di Lincoln durante la sua carriera politica, molti storici fanno piazza pulita dei suoi discorsi da cui escono frasi come questa: «Cè una differenza biologica tra la razza bianca e quella nera che, credo, impedirà sempre alle due razze di vivere insieme sulla base di unuguaglianza politica e sociale». Per i primi diciotto mesi di conflitto i Nordisti ebbero un solo obbiettivo: impedire il distacco del Sud, gli schiavi centravano poco. PRIMA GUERRA MONDIALE Lattacco al «Lusitania», cavalcato dalla stampa interventista americana, non fu portato dai tedeschi in modo proditorio. Avevano pubblicato annunci su tutti i quotidiani spiegando agli americani perché non imbarcarsi su navi inglesi. Woodrow Wilson usò due pesi e due misure favorendo gli inglesi e creando al tavolo della pace i presupposti della Seconda guerra mondiale. NEW DEAL Roosevelt è presentato solitamente come colui che ha tirato gli americani fuori dalla Grande Depressione. Woods però evidenzia anche valide opinioni contrarie. Lo statalismo di Roosevelt contribuì a tenere alti i prezzi agricoli a costo di macellare migliaia di capi di bestiame. Il risultato fu la fame. Quanto poi ai salari bloccati e al dirigismo industriale, potrebbero aver rallentato la ripresa di anni. Irene GUETTA Il libro che spiega l’America distruggendo i luoghi comuni. La «Guida» di Woods tratto da: Libero, 1.5.2012, p. 27. Politicamente scorretto. Dal razzismo di Lincoln ai meriti di McCarthy, la «Guida» di Thomas E. Woods racconta la storia degli Stati Uniti senza ipocrisie buoniste John Brown fu davvero l’eroe americano della causa antischiavista che ora giace indimenticato nella tomba là nel pian, come ci insegna la canzoncina? In realtà John Brown fu un macellaio a capo di una banda di fanatici, capace di trascinare cinque padri di famiglia fuori dalle loro case e di farli a pezzi davanti a mogli e figli. Le cinque famiglie non possedevano schiavi, ma erano colpevoli di essere politicamente schierate con la parte avversa e pertanto dovettero fare da esempio cruento. L’eroe Brown fu catturato da gente comune durante un raid in un’armeria, una tappa di rifornimento che lui considerava il primo capitolo di un’insurrezione, e le picche di ferro con cui era armato - dopo l’impiccagione e la sepoltura là nel pian - furono esibite in un giro degli stati del sud, tanto per dimostrare che cosa avevano in serbo per i loro nemici i paladini dei diritti civili. E Abramo Lincoln, il presidente la cui statua colossale di marmo siede al centro di Washington a eterno ricordo della lotta dei nordisti contro il sud che teneva i neri in catene? Ecco una citazione presa dalla sua campagna elettorale, lunga ma ne vale la pena: «Non sono - né sono mai stato - in alcun modo a favore dell’uguaglianza sociale e politica tra la razza bianca e quella nera; e non sono - né sono mai stato - favorevole a dare ai neri la possibilità di votare o di fare i giurati, né a permettere loro di ricoprire cariche pubbliche, né d’imparentarsi con persone bianche». Non male vero per una delle menti politiche più illustri d’America? E sentite questa, in cui Abe s’inerpica sulla questione pericolosa della differenza biologica, sembra di ascoltare Adolf Hitler seduto in birreria a Monaco: «E dirò in aggiunta che c’è una differenza biologica tra la razza bianca e quella nera che, credo, impedirà sempre alle due razze di vivere insieme sulla base di un’uguaglianza politica e sociale. E se non possono vivere così, fintanto che rimangono insieme, dovranno sussistere una posizione di superiorità e una d’inferiorità, ed io sono, come chiunque altro, favorevole ad assegnare la posizione di superiorità alla razza bianca». E che dire di Franklin Delano Roosevelt, il presidente ottimista che fece ripartire il motore economico dell’America dopo il disastro del ’29? In realtà il New Deal fu la formula astratta di un apprendista stregone che ostacolò la ripresa, invece che favorirla. La diminuzione dell’offerta, credeva per esempio Roosevelt, avrebbe alzato i prezzi dei prodotti agricoli: e per raggiungere questo scopo la sua amministrazione nel 1933 ordinò di abbattere sei milioni di maiali e di distruggere dieci milioni di acri di cotone. In realtà, secondo i dati del Dipartimento per l’agricoltura (che aveva suddiviso il fabbisogno alimentare degli americani in quattro categorie: generoso, moderato, minimo e di emergenza, cioè al di sotto della sussistenza) l’America non stava producendo abbastanza cibo nemmeno per sostenere la sua popolazione al livello minimo, cioè quello di sussistenza. Eppure Roosevelt, preso dalle tabelle e dai suoi esperimenti economici, si chiedeva scandalizzato: «Vogliamo sul serio che il governo federale rinunci a regolamentare la crescita delle coltivazioni, tornando giusto al vecchio principio in base al quale ogni contadino è nella sua fattoria il padrone e può fare quello che desidera, far crescere qualunque cosa, quando vuole, nella quantità che vuole, per poi venderla quando vuole?». Sono tre capitoli presi dalla Guida politicamente scorretta alla storia degli Stati Uniti d’America (D’Ettoris editore, pp. 348, euro, con un «Invito alla lettura» di Marco Respinti), scritta da Thomas E. Woods Jr. (politicamente scorretta, ed è così che cercavamo una guida, come pure altre nella stessa collana editoriale, altrimenti sarebbe ben misera cosa e non ci alzeremmo nemmeno dal letto per andarla a comprare). Il saggio di Woods è un fallo a gamba tesa contro la «sindrome americana» degli italiani, ovvero contro la convinzione inspiegabile che noi al di qua dell’Atlantico si conosca davvero gli Stati Uniti, perché sono così trasparenti, così ingenui, così facili da riassumere. La sindrome potrebbe essere spiegata così: gli Stati Uniti sono un paese facile da raccontare, male (la sindrome è anche responsabile di alcune tragedie giornalistiche fra i corrispondenti italiani, ma qui non si vuole deviare troppo dal tema: diciamo semplicemente con sicurezza che su Raitre non sentirete mai citare Lincoln nella sua appassionata difesa della superiorità biologica dei bianchi o la teoria di mercato del democratico Roosevelt, per cui per sfamare i contadini lo stato ha facoltà di distruggerne i campi). Così si passa per McCarthy, che non era quell’imbecille a caccia di streghe che vi hanno raccontato: i comunisti c’erano davvero, e per gli anni Ottanta cosiddetti «materialisti», che furono in realtà il decennio in cui le donazioni di carità e la beneficenza aumentarono come non era mai successo prima. Dove la Guida rende un servizio più utile è, naturalmente, nei capitoli che si avvicinano ai nostri giorni: Bill Clinton, l’assistenza sanitaria, la guerra nei Balcani, Monica Lewinsky e il Sudan. Ma non si può raccontare tutto in una recensione. (storialibera.it)
Posted on: Fri, 22 Nov 2013 11:30:23 +0000

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