Gli eroi dell’Italia unita- EUGENIO TARTAGLINO- - TopicsExpress



          

Gli eroi dell’Italia unita- EUGENIO TARTAGLINO- campagna di Russia Combattenti di terra, di mare e dellaria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne dItalia, dellImpero e del regno dAlbania! Ascoltate! Unora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. (Acclamazioni vivissime)…Lora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata… (acclamazioni, grida altissime di Guerra! Guerra! )…La parola dordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti: VINCERE! (il popolo prorompe in altissime acclamazioni) e VINCEREMO… Roma, 10 giugno 1940 - dal balcone di palazzo Venezia di fronte ad una folla oceanica ed osannante. +++ La giovane donna, appena scesa dall’automobile nel luogo- un grande pianoro ai piedi di montagne ancora innevate- fissato per il raduno dei reduci della divisione alpina “Cuneense”, si sentì avvolta in un abbraccio soffocante. “ Signore Iddio…- continua a ripeterle lo sconosciuto fra le lacrime- … Gli stessi occhi, lo stesso viso, ...signor capitano..., lo stesso viso... gli stessi occhi, …, signor capitano…”. +++ Era stata tremenda. Il 16 gennaio 1943 la divisione alpina cuneense, attaccata a Rossosch da reparti della 3a Armata Russa del generale K.S. Moskalenko, resta ingabbiata in una sacca dalla quale cerca di sfuggire ritirandosi. I russi la braccano spietati; dispongono di 754 carri armati del tipo T34. Questi carri pesano oltre 30 tonnellate e sono armati di mitragliere pesanti e cannone da 76 mm, la loro corazza è spessa 50 mm. Il supporto dellartiglieria consiste in 810 bocche da fuoco, di cui 300 cannoni di grosso calibro. Gli italiani hanno 47 carri armati da 10 tonnellate (sic! più che altro trattori con carrozzeria di latta) 132 bocche da fuoco ( obici del 75/13 della Skoda; preda bellica all’esercito austro-ungarico della prima guerra mondiale). I soldati russi sono equipaggiati con i micidiali parabellum automatici (settantun colpi per raffica) mentre gli alpini della Cuneense hanno moschetti a 6 colpi, uno per volta…; qualcuno ha ancora il “glorioso” moschetto 91 (dove il numero sta per l’anno in cui fu adottato: il 1891…). Dopo dodici giorni e 240 chilometri di marcia con temperature che oscillano attorno ai 50 gradi sotto zero all’alba del 28 gennaio 1943 a Valuiki i resti della divisione alpina Cuneense - ormai più che decimata- schiacciati, circondati, bersagliati dall’artiglieria, serrati dai carri armati, spremuti e flagellati dalle mitragliatrici piazzate a terra e sui mezzi semoventi e dalle bombe degli aeroplani si arrendono ai russi ( generale Battisti in testa ; il generale ha sdegnosamente rifiutato il passaggio che l’avrebbe salvato su un aereo militare offertogli dai tedeschi) ed i superstiti vengono fatti prigionieri. Solo pochissimi, fra cui una pattuglia di otto genieri alpini guidata dal capitano Eugenio Tartaglino da Casale Monferrato, sfugge alla resa; nel cuore della battaglia, inviati dal comandante del battaglione genio, maggiore Mazzone, lungo il terrapieno per difendere il varco ferroviario che avrebbe potuto consentire il ricongiungimento con la Tridentina (che non ci fu), con una ardita manovra erano riusciti a perforare la sacca aprendosi la strada verso la salvezza Faceva un freddo boia, le mani ed i piedi erano infrolliti ed insensibili, l’orizzonte cupo per la neve che continuava a scendere e ad annullare gli spazi... Però, stringendo gli occhi come si faceva da ragazzi nelle sere di luna per attirarne i raggi ed immergersi nei sogni, sembrava che il sipario cupo, poco per poco si allargasse , si aprisse e, come in una scena teatrale, dopo il buio si accendesse la luce e quella luce illuminava le cose più care. Apparentemente piccole cose; si rendeva conto, il capitano, che i paroloni, le grandi visioni, gli orizzonti sterminati infarciti di luoghi comuni, gli stessi gradi di cui pure era tanto orgoglioso e che avevano intenerito –per gioia riflessa- la sua donna, erano aria fritta e le cose che contavano erano ben altre: la bicicletta posata contro il muro di casa, l’eco dei suoi passi sulla scala, la porta che cigola nell’aprirsi ed un giorno o l’altro dovrò pure oliarla, il profumo delle cipolle che sfrigolano sul fornello, la voce dolce che gli intima “i pattini!...” (Quante volte, ed il pensiero lo faceva sorridere, si era ricordato dei pattini in extremis e, quando già aveva percorso quasi tutto il corridoio, era tornato indietro per rimediare -”e cosi imbratti due volte” “Scusi signora, maestra…” Già…, Maestra- e, al ricordo, gli occhi gli brillavano; era bello la sera dopo cena, vederla impugnare la matita rosso e blù e correggere i compiti…) ...il sapore di un bacio posato frai capelli ed il calore di una breve carezza che gli sfiora la guancia...”...Come è andata?, ...sei stanco?...Riposati un attimo che intanto io preparo...” Parole banalissime ma, pensava, “nessun poeta ne aveva mai scritte di così belle…”. Era stata dura... Quanti amici si erano persi nelle battaglie sul Don, per il calvario della ritirata e in quell’ultimo disperato assalto! ... . Ora la strada verso casa era aperta; non c’erano più ostacoli i russi parevano dissolti, ancora pochi chilometri fra le neve e poi ... e poi si torna... Già gli pareva di sentire gli stantuffi della locomotiva ed il sibilo del vapore...si torna... ”Sento le ruote che girano/ che girano.../ che gioia o che piacere / lasciare questa naja/ e ritornare al mio paese.../ Amore mio non piangere/ non piangere / che sono ritornato/ non sono più in licenza/ ma per sempre congedato....”. “A terra...capitano…, a terra...un’imboscata!...” L’urlo si era alzato pressoché contemporaneamente al crepitio di un parabellum. Si era buttato a terra, il capitano, e lì per lì non aveva dato nessuna importanza ad una fitta improvvisa al braccio. “Sarà il repentino movimento...” aveva pensato mentre sfoderava la pistola. La sparatoria fu breve. “Erano due sbandati, signor capitano..., li abbiamo ‘neutralizzati...’…possiamo ripartire tranquilli”. Ma il capitano non riusciva ad alzarsi; la neve dove si era tuffato era impregnata del sangue che gli usciva copioso dal braccio. Anche un altro soldato, il suo attendente, era ferito, ad un piede. Ripararono, il capitano e l’attendente, dopo aver dato via libera ai sette soldati del drappello rimasti incolumi, in un’ isba accolti a braccia aperte da poveri mugik . ”Domani mattina ripartiremo... ”. I contadini gli offrirono un decotto, una specie di the bollente, e gli prepararono un giaciglio di paglia vicino alla grande stufa in terracotta a fianco della quale il samovar, in ebollizione, spandeva un dolce profumo di resina. Il contadino e la moglie guardavano, con occhi dolci e commossi, i due soldati italiani; in loro- la donna vi fece scivolare sul viso una timida carezza- rivedevano i due figli che un giorno erano stati prelevati da uomini in divisa: “Per salvare la Patria”; e chissà adesso dov’erano e se c’erano ancora. La donna, versata dal samovar in una scodella acqua tiepida, vi immerse una piccola pezza di stoffa e pulì la ferita dell’attendente che poi fasciò . Per il capitano, invece, usò acqua gelida, che parve fermare l’emorragia. Quindi preparò una zuppa di grano cotto, una vera manna che i due italiani, pressoché digiuni da giorni, divorarono con avidità. Era smesso di nevicare e, nel buio della sera, sul cielo rasserenato brillava la luna. I contadini dormivano su due ripiani della grande stufa di terracotta, ai piedi della quale, nel giaciglio di paglia, erano coricati il capitano e l’attendente. Dalle fessure delle porte entrava aria gelida, tagliente come una spada. Il capitano ricordò i “salamini” di segatura con cui la nonna d’inverno tentava di bloccare gli spifferi di aria fredda, e , schiudendo gli occhi, sorrise fra di sé. Il soldato, la cui ferita si era completamente rimarginata, dormiva; il sangue ,invece, era ripreso ad uscire copioso, nonostante il freddo intenso ed i legacci stretti sopra la ferita , dal braccio del capitano. Nell’isba baluginava il lume di una candela di sego ed il piccolo riflesso della lampada a pila in dotazione. Dalle fessure delle finestre filtravano raggi di luna e il ghiaccio dei campi scricchiolava come carta stropicciata nel pugno. Il cuore del capitano vagava lontano,... lontano…Sembra ieri –pensava mentre vedeva il sangue cadere nella paglia e subito rapprendersi per il gran freddo- quando un fonogramma degli alti comandi a firma colonnello Navone, aveva annunciato la partenza da Peveragno dove il 4° battaglione genio della Cuneense era acquartierato, per Cuneo e quindi per la Russia. Alle nove di sera del 27 luglio1942 la tradotta –ne sarebbero partite 52 per complessivi 20500 uomini (ne sarebbero tornati 1305-milletrecentocinque-) - si avviava lentamente sbuffando sui binari. Affacciato al finestrino, gli pareva di individuare, fra le migliaia di mani alzate nel saluto, quello della sua donna che, come dice la nenia degli alpini, col fazzoletto in mano gli dà…l’addio… “ No- si disse con determinazione mordendosi le labbra e ricacciando una lacrima mentre il treno si infilava, seminando nuvole di vapore, nella notte- è solo un arrivederci….”. Il sangue- (“La pallottola deve aver trapassato larteria brachiale”, pensava) continuava a vincere i legacci e l’azione coagulante del freddo; gli occhi del capitano,fissi nel vuoto, scrutavano lontano, ….ed era a casa sua coricato, nella stanza buia -erano giorni che doveva cambiare la lampada bruciata- vicino alla moglie che gli prendeva la mano e gliela posava sul ventre gonfio di vita. Sentiva i battiti di un cuore ancora misterioso, piedini che scalciano... sarà un bimbo o una bimba? ma che importa!.. Guardava la luce fioca della luna che penetrava dalle fessure della gelosia , e sentiva la voce della moglie: “Certo per uno che è perito elettronico cambiare una lampada è quasi un’offesa; però, se non la cambi, continuiamo a stare al buio...”. “Meglio…ci guardiamo alla luce delle stelle…e la più luminosa sei tu…”. La moglie sorrise e, tremando, avvampò di gioia. Il capitano scosse il capo e, al ricordo, non riuscì a trattenere una lacrima che gli scivolò lentamente sulla guancia. Volle sedersi, ma le forze gli mancarono. “ Ci siamo- si disse - ai summa…”, Svegliò il suo attendente. “ E’ giunta l’ora di ..di…di dirci add…, di salutarci; sento che per me sta arrivando il momento della buona notte al secchio …; non piangere , non parlare, ti capisco ma è inutile e non ho più molto tempo a disposizione…; stammi a sentire per bene: prendi queste mie cose… potranno esserti utili se cadrai prigioniero…sai l’uomo è debole. ..e qualche baiocco può aiutare a farla franca….” Gli porse l’orologio, il portafoglio con gli ultimi stipendi , i documenti... “...Vai…; la nostra è stata una guerra folle; nessuno riuscirà mai a capire perché siamo venuti fin qui a combattere contro un popolo che non ci aveva fatto nulla…, non l’abbiamo condivisa questa guerra.!...però abbiamo sempre compiuto il nostro dovere, fino in fondo; ed è per questo che noi, come uomini, ne usciamo orgogliosamente vincitori. …. Caro amico continua! Continua a farlo, il tuo dovere, anche quando dovrai ingoiare pece e ti copriranno di fango perché a noi nessuno riconoscerà nulla. Quando questa bufera sarà passata, altri saranno onorati e riveriti e noi, che il dovere l’abbiamo testimoniato fino all’estremo, saremo dimenticati e forse disprezzati…. Ma tu devi tenere duro, a testa alta, per noi tutti; …senza odiare nessuno. Ciao, buona fortuna, non parlare, vai…in bocca al lupo e crepi il lupo…ricordati che la felicità non la trovi nel mondo ma fra le mura di casa tua… ; corri…zitto, non ti voltare; non ti do la mano perché voglio che tu conservi di me un ricordo vigoroso…ora proveresti compassione, sgiai…; ciao…non ti voltare , che fai? Non piangere; ci diciamo ciao e non altro, perché siamo consapevoli che la morte non è la scomparsa fisica, ma l’oblio: tanto che siamo ricordati, tanto che qualcuno ci ha nel cuore, siamo…”. Tirò un profondo sospiro, poi con un filo di voce, mentre gli occhi gli si stavano offuscando, aggiunse: “Dì a mia moglie, quando sarai tornato, che sono stato con lei fino alla fine …e che, … fra cento anni, ci ritroveremo…lassù …; sorridi? , ma l’amore rende tutto possibile…come dici tu che hai fatto il classico? : ‘Omnia vincit amor’..; dai un bacione al mio piccolo ( o alla mia piccola) e digli: è il bacio del papà…Ciao, buona fortuna! Vai, non ti voltare…”, Spirò, dissanguato, il capitano Eugenio Tartaglino da Casale Monferrato, all’alba con una mano aperta posata sullo zainetto come se fosse il ventre della sua donna gonfio della vita che era per essere… Era il 30 di gennaio del 1943, aveva ventisette anni; la località: appena fuori della sacca di Valuiki. Sua figlia, Marinella, è nata un mese dopo.. +++ Il soldato ferito al piede riuscì a fuggire dalla prigionia ed a ritornare a casa, grazie ai consigli ed agli aiuti tangibili del capitano ( e alla ‘disponibilità’ di un soldato russo che, intascati i quattrini, l’aiutò a tagliare l’angolo dalla colonna dei prigionieri). Dopo due giorni agganciò un reparto di fanteria tedesca in ritirata; sfinito , si salva perché trova provvidenziale posto su una moto slitta (previo offerta dell’orologio e del restante denaro al conducente) . Ora, abbracciava la figlia del suo salvatore- il suo capitano- continuando a ripeterle con voce arrochita dall’emozione, : “ Gli stessi occhi, lo stesso viso... ed è per lui, solo grazie a lui, se io sono qui...; abbiamo sempre fatto il nostro dovere anche quando ci hanno ignorato e disprezzato… Sempre! E senza odiare nessuno… nonostante tutto…”. “…Questo – disse stringendo il viso di Marinella fra le mani - è il bacio del tuo papà…” Dalle montagne calava una leggera brezza profumata di neve ma già intiepidita dal sole ormai alto sopra le cime; nel pianoro giungevano poco a poco i “reduci” che stringevano frettolosamente mani sconosciute mentre con gli occhi cercavano avidamente visi un tempo noti e oggi anche amati; gli ottoni della fanfara spargevano soffusi suoni in libertà e gli addetti ai servizi sistemavano gli ultimi festoni nel giardino ed i microfoni sul palco. Da un gruppo di “veci” , raccolti in cerchio attorno ad una antica bandiera, si alzava, lieve e dolce e gonfia di ricordi, la vecchia melodia che riempiva, allora, i cuori di speranza ed ora di nostalgia : “Amore mio non piangere, non piangere…che sono ritornato…”. GIANNI TURINO
Posted on: Thu, 24 Oct 2013 11:45:26 +0000

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