HANNAH ARENDT A cura di Emanuela Catalano STUDIO SULLE ORIGINI - TopicsExpress



          

HANNAH ARENDT A cura di Emanuela Catalano STUDIO SULLE ORIGINI DEL TOTALITARISMO Chi lo ha scritto: L’autrice di questo saggio, considerato l’analisi più eccellente e pertinente sulla incarnazione dei regimi totalitari nel secolo XX, è Hannah Arendt[1]. Il contesto storico Il contesto è chiaramente quello della Seconda Guerra mondiale, con particolare riferimento alla sua condizione personale ed esistenziale di essere ebrea[2]. Il libro inizia con una disamina approfondita sulle cause dell’antisemitismo europeo nel primo e medio XIX secolo, continuando poi con un esame dell’imperialismo coloniale europeo dal 1884 alla Prima Guerra mondiale. L’ultima parte, quella che maggiormente prenderemo in considerazione ai fini del nostro discorso, tratta delle istituzioni e delle azioni dei movimenti totalitari, esaminando in maniera sviscerata le due più pure forme di governo totalitario del Novecento: quella realizzatasi nella Germania del nazismo e quella della Russia di Josif Stalin. Le cause: Il libro è volto a rintracciare le origini del fenomeno totalitario, intendendo per “origini” non la “causa” in senso deterministico; non si tratta di giustificare, bensì di “riflettere” la realtà, l’ineludibile necessità di fare i conti con essa, in nome del bisogno di comprendere i fatti, il perché ciò sia accaduto[3]. Come suggerisce una della maggiori interpreti della Arendt in Italia, Simona Forti, una delle motivazioni intrinseche che potrebbe averla spinta a scrivere, oltre al suo già dichiarato bisogno di comprendere, è il dovere – per così dire – di pagare il proprio debito per essere rimasta in vita, per essere sopravvissuta in qualche modo agli orrori di Auschwitz[4]. Si trattava di “individuare gli elementi principali del nazismo, risalire alle loro origini e scoprire i problemi politici reali alla loro base (…). Scopo del libro non è dare risposte, ma preparare il terreno”[5]. Anno di pubblicazione[6]: 1951 Il libro tardò a circolare in Europa: la prima traduzione italiana è infatti del 1967 (Edizioni di Comunità, Milano)[7]. L’edizione da me utilizzata e alla quale faremo riferimento è quella dell’Einaudi (Torino 2004). La Arendt fa leva sul carattere di assoluta novità del fenomeno totalitario, inteso come luogo di “cristallizzazione” di tutte le contraddizioni dell’epoca moderna, e lo analizza nel suo significato generale: esso è un fenomeno nuovo ed impensato, che travalica i confini della semplice oppressione e della comprensione, rendendo inutilizzabili le tradizionali categorie della politica, del diritto e dell’etica[8]. Destinatari: Se ne continua a parlare, oltre che per la suddetta esigenza di comprensione, affinché simili eventi non tornino a ripetersi. Nessuno, infatti, è alieno dalla tentazione “totalitaria”; non ci sono parole più adatte ad esprimerlo, se non quelle della stessa Arendt[9]. Ripensare a quanto è accaduto è dunque compito ineludibile di ciascuno di noi, poiché nessuno − come ha dimostrato efficacemente la Arendt − è al riparo del pericolo totalitario. Il suo vuol essere un contributo che, oltre ad aver analizzato in maniera basilare una delle più immani e aberranti sciagure che hanno funestato l’Europa nel secolo scorso, vuol fungere anche da monito e richiamo contro il possibile riemergere di tentazioni totalitarie, ogni qual volta la miseria, la fame, le guerre, le devastazioni rendono incombenti il pericolo ed astratte ideologie pretendono di rendere nuovamente schiavi gli uomini. L’opera, in definitiva, appare quanto mai attuale, sia per il costante e mai interrotto dibattito storiografico sul nazismo in Germania, sia per la possibilità, in seguito alla caduta del Muro e all’apertura di nuovi archivi, di effettuare un’analisi non più falsificata e mistificata di quei fatti, cosa che non era affatto possibile nel lontano 1951. Il problema: È a tutt’oggi complicato trovare un accordo su quali, tra le diverse esperienze storiche e politiche, possano essere annoverate sotto la comune categoria di “totalitarismo”[10]. Per la Arendt, soltanto il nazionalsocialismo ed il comunismo si avvarrebbero di questa ‘qualifica’, essendo le uniche due realtà che più si avvicinano all’ideal-tipo di regime totalitario, mentre il fascismo nostrano corrisponderebbe soltanto ad una forma di autoritarismo[11]. “Finora conosciamo soltanto due autentiche forme di dominio totalitario”[12] – afferma ad un certo punto − differenziandosi e prendendo le distanze dalla storiografia contemporanea. In particolare, la Arendt è citata nel dibattito storiografico quando si tratta di escludere il fascismo italiano dalla categoria di totalitarismo[13]. Peculiarità dei regimi totalitari è il consenso di massa, reso possibile della dissoluzione delle classi sociali e dall’avvento della società di massa, dall’uso sistematico del terrore e dal controllo capillare della società, dal rapporto tra il capo carismatico e le masse, dall’assenza totale di libertà e distruzione della sfera privata, oltre che di quella pubblica[14]. Molti dubbi invece esistono sull’Italia fascista, dal momento che il regime non eliminò i centri tradizionali del potere (coesistette di fatto con la Chiesa, la monarchia, l’esercito, la grande industria); la Chiesa, ad esempio, “capì che il fascismo non era in linea di principio né totalitario né anticristiano e semplicemente attuava la separazione di stato e chiesa già esistente in altri paesi”[15], e la Arendt prosegue, affermando che: «La differenza tra il fascismo e i movimenti totalitari è bene illustrata dall’atteggiamento verso l’esercito, cioè verso l’istituzione nazionale per eccellenza. Al contrario dei nazisti e dei bolscevichi, che distrussero lo spirito delle forze armate subordinandole a formazioni totalitarie di élite o a commissari politici, i fascisti poterono usare uno strumento intensamente nazionalistico come l’esercito, con cui cercarono di identificarsi come con lo stato»[16]. Mancò inoltre un’ideologia coerente e rimase sempre viva una certa cultura liberale dello stato (si pensi ad esempio alla libertà di pensiero accordata a Benedetto Croce). L’accostamento tra nazismo e comunismo, opposti sotto il versante ideologico, sociologico, economico, ha indotto a rigettare la nozione di totalitarismo come fuorviante; resta il fatto che le affinità nella gestione del potere permangono, così com’è stata comune la credenza in uno stadio finale della storia di cui Hitler o Stalin sarebbero stati incaricati di accelerarne il corso [17]. Ma leggiamo quanto scrive a proposito del caso italiano: “Eppure Mussolini, che tanto amava il termine “stato totalitario”, non tentò di instaurare un regime totalitario in piena regola, accontentandosi della dittatura del partito unico»[18]. Dal momento che: «Il vero obiettivo del fascismo era solo quello di impadronirsi del potere e insediare la sua “élite” come incontrastata dominatrice del paese. Il totalitarismo non si accontenta mai di dominare con mezzi esterni, cioè tramite lo stato e un apparato di violenza […]»[19]. Il fascismo italiano si iscriverebbe nella categoria dei “sistemi a partito unico”[20], nei quali tutte le cariche di governo sono occupate dai membri del partito, ma dove quest’ultimo, a sua volta, è ridotto alla condizione di “una sorta di organismo di propaganda a favore del governo”. Un simile sistema è “totale”: «solo in senso negativo, in quanto il partito dominante non tollera altri partiti, né l’opposizione o la libertà di opinione politica. Una volta instaurata la loro dittatura, lasciano intatto l’originario rapporto di potere fra stato e partito; il governo e l’esercito possiedono la stessa autorità di prima, e la “rivoluzione” consiste semplicemente nel fatto che tutte le cariche pubbliche sono ora occupate da membri del partito. In tutti questi casi il partito basa la sua autorità su un monopolio garantito dallo stato, e non possiede più un proprio centro di potere»[21]. La Arendt non considererebbe il fascismo italiano un movimento totalitario, non solo per l’uso assai minore della violenza terroristica, quanto piuttosto per la sua natura di movimento di massa organizzato nell’ambito dello stato esistente. Leggiamo quanto scrive: «Quando il partito fascista […] si impadronì dello stato e si identificò con la massima autorità nazionale, si apprestò a fare del “popolo una parte dello stato”. Ma non si pose “al di sopra dello stato”, né i suoi capi si ritennero al di sopra della nazione. Il movimento aveva avuto fine con la conquista del potere, almeno per quanto concerneva la politica interna; esso poteva procedere nella sua marcia soltanto nel campo della politica estera […]»[22]. Nel caso del fascismo inoltre ‘colpiva’ l’assoluta mancanza di “materiale umano” da impiegare in esperimenti totalitari[23]. È stato segnalato – a torto, ad avviso della Arendt – che, in Italia, numerosi furono gli ebrei che aderirono al regime nelle sue prime fasi di manifestazione: “poco appropriato è anche l’accenno all’adesione degli ebrei italiani al fascismo, perché questo movimento non si proponeva di soggiogare e distruggere l’Europa”[24]. Il fascismo potrebbe accostarsi al totalitarismo, come tutti i collaborazionismi, soltanto a partire dal 1938-40, al momento di diventare alleato subordinato del regime nazista ed in seguito all’attuazione di una sua politica razzista e antisemita. Il fascismo infatti, fino al 1938, “non vu un vero regime totalitario, bensì una comune dittatura nazionalistica, nata dalle difficoltà di una democrazia multipartitica”[25]. L’unica “rivoluzione” compiuta dal fascismo si limiterebbe dunque all’accesso alle cariche di governo dei membri del “partito”, mentre lo “Stato” manterrebbe la sua posizione preminente e permarrebbe il centro del potere effettivo. L’esistenza di un partito unico non sarebbe pertanto all’origine di nessuna trasformazione strutturale maggiore in seno all’apparato politico, a differenza dei regimi totalitari in cui lo Stato non è che una facciata e nel quale è all’interno del movimento totalitario che tutte le decisioni importanti sono prese. È stato obiettato che all’epoca della pubblicazione de Le Origini del Totalitarismo, la Arendt non disponesse che di fonti di informazioni troppo ristrette sull’Italia di Mussolini per fornirne un’analisi pertinente[26]. Si tratta di una critica giustificata ma in realtà secondaria, poiché la qualifica del fascismo non saprebbe ridursi ad un problema di disponibilità di fonti. Essa è in realtà sempre dipendente di una teoria dei sistemi politici, dunque all’occorrenza di una teoria dei regimi dittatoriali. È questa la ragione per la quale, in seno ad una teoria come quella della Arendt, il fascismo italiano non sarà mai un totalitarismo. E ciò a dispetto della qualità delle fonti e dei lavori disponibili sulla questione. Per un motivo molto semplice: il fenomeno totalitario corrisponderebbe, a suo avviso, ad “una forma di governo di cui l’essenza è il terrore”. Ed il fascismo non soltanto non governò mai facendo esplicito ricorso al terrore di massa, ma sarà nettamente meno terrorista di numerosi regimi autoritari, come ad esempio le dittature burocratiche-militari dell’America Latina (Uruguay, Cile). Il dibattito storiografico sul fascismo è, più che un problema di fonti, una questione di definizioni e di modelli concettuali. Ed Hannah Arendt, in perfetta coerenza con la tesi da lei sostenuta nel suo saggio, definisce come totalitari soltanto due sequenze storiche, brevi e ben localizzate: i dodici anni del regime nazionalsocialista in Germania e due parentesi nella storia del regime sovietico (1929-1941 e 1945-1953), con il rischio che tutti gli altri sistemi dittatoriali vengano relegati nella vasta categoria di regimi autoritari, ed occultando di conseguenza quanto il peso dell’ideologia, il tipo di legittimità, la struttura, l’organizzazione e la pratica del potere così come il livello di mobilitazione e di inquadramento della vita civile possano essere diversi da una società all’altra. Questo tipo di lettura non deve tuttavia impedire di pensare a tutto ciò che un insieme di dittature hanno avuto in comune nel corso del XX secolo: un sistema di controllo capillare sulla società e sulla vita privata degli uomini, delle loro opinioni ed attività di una intensità senza precedenti, a vocazione totale, ottenuti grazie alla coinvolgimento attivo delle stesse popolazioni. Nessun sistema politico contemporaneo è del tutto immune da questo rischio degenerativo e la vigilanza in difesa della democrazia e della libertà dev’essere sempre costante. La Arendt conclude riponendo le sue speranze nel futuro, nella capacità dell’uomo di agire: “ogni nascita è l’inizio” è l’epitaffio con cui suggella la sua opera; in queste parole sono concentrate e coltivati l’auspicio e la fiducia nel genere umano, a discapito di tutto e nonostante tutto. [1] Hannah Arendt (Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975) è una delle figure intellettuali e culturali più significative del secolo scorso. Allieva di Martin Heidegger, si laureò con Jaspers con una tesi “Sul concetto d’amore in Sant’Agostino”. Ebrea, tedesca, profuga, per la sua particolare condizione di “apolide” come lei stessa più volte si definì, si trovò ad esperire sulla propria pelle gli orrori del regime nazionalsocialista e, per fuggire alle persecuzioni razziali perpetrate a partire dal 1933 dal governo hitleriano, fu costretta ad abbandonare la Germania e a rifugiarsi in Francia, da dove emigrò successivamente, assieme al marito Heinrich Blücher, negli Usa, da cui ottenne anche la cittadinanza. In America, fu docente a Chicago, Princeton, Berkeley e New York. Tra le sue opere, ricordiamo: Sulla rivoluzione (Edizioni di Comunità, Milano 1999); Che cos’è la politica? (Ivi 2001); Antisemitismo e identità ebraica. Scritti 1941-45 (Ivi 2002); La banalità del male (Feltrinelli, Milano 1992); Vita activa (Bompiani, Milano 1989). [2] A più riprese, la Arendt confessa di “essersi educata con fatica e tormento all’esperienza ebraica” in un processo di riappropriazione delle proprie origini, mentre la religione ebraica, in sé e al pari delle altre confessioni religiose, non le diceva assolutamente nulla (vedi l’Introduzione di A. Martinelli, in H. Arendt, Le Origini del Totalitarismo, tr. it. di A. Guadagnin, Einaudi, Torino 2004, p. IX), ma quel che più la ferì fu il tradimento degli amici, in primo luogo dell’amato maestro Heidegger nel suo pubblico atto di adesione al nazismo nel corso del 1933, in una solenne cerimonia di ossequio per la carica conferitagli, che lo vedeva innalzato al rango di rettore dell’università di Heidelberg. In secondo luogo, le leggi razziali di persecuzione perpetrate dal regime hitleriano, che videro la estromissione degli ebrei dai pubblici incarichi. [3] La Arendt lo spiega nella prefazione al suo libro (vedi H. Arendt, Le Origini del Totalitarismo, cit. p. LVI), là dove pone l’accento sul cercar di “narrare e comprendere quanto era avvenuto, non ancora sine ira et studio, ancora con angoscia e dolore e, quindi, con una tendenza alla deplorazione, ma non più con un senso di muta indignazione e orrore impotente”. Vedi inoltre Ivi, p. LXXX e H. Arendt, La lingua materna, a cura di A. Dal Lago, Mimesis, Milano 1993, p. 43: «Da principio non ci credevamo […]. Era davvero come se si fosse spalancato un abisso, perché si è sempre avuta l’idea che in qualche modo tutto possa tornare a posto, per esempio in politica tutto si può aggiustare. Ma questo no. Questo non sarebbe mai dovuto accadere. E non mi importa il numero delle vittime. M’importa la produzione in massa dei cadaveri e il resto (…) e non c’è bisogno che mi dilunghi oltre. Questo non doveva succedere. È successa una cosa per la quale nessuno di noi era preparato». [4] Vedi S. Forti, Le figure del male, in H. Arendt, Le Origini del Totalitarismo, cit., p. XXVII: «Il totalitarismo ne ha fatto un’esule, in qualche modo una sopravvissuta, che ha cercato di pagare il suo debito per essere rimasta in vita attraverso l’instancabile tentativo di far parlare l’orrore muto di Auschwitz ». [5] E. Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975: per amore del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 239. [6] Ivi, p. LV: «Con la disfatta della Germania si era conclusa una parte di tale vicenda. Quello sembrava il primo momento adatto per meditare sugli avvenimenti contemporanei con lo sguardo retrospettivo dello storico e lo zelo analitico del politologo». La prima edizione di The origins of totalitarism venne pubblicata a New York dalla casa editrice Harcourt, Brace & World. È curioso sapere che il titolo provvisorio dell’abbozzo era Gli elementi della vergogna: antisemitismo, imperialismo e razzismo, che la Arendt, più enfaticamente, chiamava I tre pilastri dell’Inferno. L’editore avrebbe voluto pubblicarlo tuttavia con un altro titolo, altrettanto fuorviante, di quello definitivo: The burden of our time. [7] “Le Origini del Totalitarismo” comparve dunque in un momento politico-culturale (1951), data centrale della guerra fredda che ne rese praticamente unilaterali la lettura e l’interpretazione. L’assimilazione di nazismo e stalinismo impedì allora una lettura serena dell’opera da parte dell’intellettualità di sinistra, per la quale la Arendt per molti anni sarebbe rimasta l’esponente di un pensiero politico liberale e neo-conservatore. In realtà, le sue preferenze politiche andavano ad un tipo di società socialista vicina alle idee della Luxemburg e alle tematiche consiliari, come sarebbe stato evidente qualche anno dopo. L’opera fu al centro di controversie e non le risparmiò critiche nemmeno nell’America democratica e repubblicana, poiché comparava due sistemi che alla maggior parte degli studiosi apparivano diametralmente opposti. Questo classico della filosofia politica e della politologia, destinato ad assumere valore paradigmatico, in definitiva, non fu inteso né dagli intellettuali d’oltreoceano, mentre trovò scarsa accoglienza in Europa, dove, sebbene il nazifascismo fosse ormai tramontato da tempo, lo stalinismo era ancora nel pieno del suo vigore. (Ivi, p. LVII: “Non la fine della guerra, ma la morte di Stalin, otto anni dopo, fu decisiva”). [8] L’autrice discute la trasformazione delle classi sociali in masse, il ruolo della propaganda nel mondo non ancora totalitario e l’uso sistematico del terrore. Nel capitolo conclusivo, la Arendt definisce l’alienazione e la riduzione dell’uomo a macchina quale requisito indispensabile al dominio totale. [9] H. Arendt, Le Origini del Totalitarismo, cit., p. 629: «Le soluzioni totalitarie potrebbero sopravvivere alla caduta dei loro regimi sotto forma di tentazioni destinate a ripresentarsi ogni qual volta appare impossibile alleviare la miseria politica, sociale od economica in maniera degna dell’uomo». [10] Abbiamo già ribadito il carattere di assoluta novità del tipo totalitario di regime politico, e l’applicabilità di tale definizione semantica e concettuale ai soli nazismo e stalinismo, con conseguente esclusione del caso italiano. È un primo tentativo di analisi delle radici e dei meccanismi di funzionamento dei regimi totalitari, considerati come parto mostruoso della società di massa. [11] Mussolini aveva creato uno stato corporativista, più che totalitario, in quanto aveva tentato di “statalizzare” la società e lo stesso partito non si pose mai al di sopra dello stato ma si identificò con la massima autorità nazionale. Mussolini fu un dittatore, fu “il vero usurpatore nel senso della dottrina politica classica” (Cfr. H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, cit., p. 360 e ss.). [12] Ivi, p. 574. Il partito unico, la polizia segreta, l’isolamento, l’estraniazione, il controllo totale dei mezzi di informazione, tutti deducibili dal binomio ideologia-terrore, sono ciò che differenzia i regimi totalitari propriamente detti e li limita alle sole due esperienze di cui dicevamo. Il fascismo italiano, ad avviso della Arendt, non presenterebbe la particolare combinazione di ideologia e terrore, in quanto non mira a distruggere lo spazio politico ed annientare la sfera di libertà, riducendo gli individui ad automi, a “fasci di reazione intercambiabili”, non impedisce la co-esistenza né possiede la violenza tipica del nazismo, ragion per cui non sarebbe un totalitarismo. [13] L’aggettivo “totalitario” è stato adottato per la prima volta dal fascismo negli anni Venti in relazione al comportamento tenuto da Mussolini in occasione delle elezioni amministrative. Vedi S. Forti, Il Totalitarismo, Laterza, Bari 2001, p. 4. Ma anche gli articoli di G. Amendola, Maggioranza e minoranza, «Il Mondo», 12 maggio 1923 e in Id., La democrazia italiana contro il fascismo 1922-1924, Ricciardi, Milano-Napoli 1960. Per quanto riguarda il sostantivo, invece, fu Lelio Basso ad utilizzarlo sulla rivista La rivoluzione liberale nel 1925 e, ripreso da Gramsci nei suoi Quaderni, fu poi esteso ai regimi comunista e nazista, per indicare quelle forme di governo nelle quali per l’appunto un unico partito pretendeva di interpretare l’ideologia della nazione e della massa, trasformando lo stato a propria immagine e somiglianza. [14] Sebbene siano diverse la basi sociali, i contenuti ideologici e gli interessi rappresentati, essi tendono a sviluppare prassi, forme politiche e tipi di controllo sociale analoghi. Sia il materialismo dialettico (che mirava alla realizzazione del socialismo in un solo paese), sia il razzismo volgare (che puntava invece alla conquista del mondo e al suo dominio incontrastato, attraverso l’eliminazione delle razze “inferiori”) approdano ad una legge dell’esclusione di chi è dannoso o superfluo, in nome della formazione di un astratto “uomo nuovo”, il che dà legittimazione al terrore poliziesco. [15] H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, cit., p. 359. [16] Ivi, p. 361. [17]Sebbene siano diversi i punti di partenza (crisi della democrazia parlamentare della Repubblica di Weimar – contraddizione di una rivoluzione comunista), il fine cui tendevano era sostanzialmente lo stesso. Ma Hitler cercò di attuarlo usando la sua guerra personale per sviluppare e perfezionare il regime (vedi prefazione in H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, cit., p. LVIII) là dove la Russia vide la temporanea sospensione del dominio totale. La crudeltà dei campi di concentramento e di sterminio sembra inoltre essere assente dai campi sovietici, anche se, ad un certo punto, la Arendt parla di “gigantesca criminalità” del regime staliniano ed opera di mascheramento da parte di Kruščёv. Il fatto che Stalin tentò di emulare, sul finir della propria vita, l’antico rivale – con l’adozione di quel che è l’aspetto più vistoso, aberrante e terrificante del nazismo – fece sì che quegli eventi giungessero ad una fine per lo meno provvisoria, in quanto il pericolo totalitario – come si è detto – incombe sempre. [18] H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, cit., pp. 427-428. Si consultino in particolare le note n. 10 e 11, nelle quali è sottolineata la riluttanza, da parte dei gerarchi nazisti, ad accostare il loro movimento a quello italiano. Si veda anche la voce Fascismo di G. Gentile e B. Mussolini nella Enciclopedia italiana, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1932, XIV, p. 847: «Antiindividualistica, la concezione fascista è per lo stato; ed è per l’individuo in quanto esso coincide con lo stato, coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua esistenza storica […]. E se la libertà deve essere l’attributo dell’uomo reale, e non di quell’astratto fantoccio a cui pensava il liberalismo individualistico, il fascismo è per la libertà. E per la sola libertà che possa essere una cosa seria, la libertà dello stato e dell’individuo nello stato. Giacché per il fascista, tutto è nello stato, e nulla di umano e spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo». [19] H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, cit., pp. 449-450. E a pag. 452: «Malgrado la propaganda fatta per lo “stato corporativo”, il fascismo ha puntellato in Italia il sistema classista che stava sgretolandosi impedendo la trasformazione della popolazione in una società di massa». [20] Il che risulta essere in palese contraddizione con quanto detto a proposito della natura del “movimento” dei regimi totalitari. [21] Ivi, pp. 574-575. [22] Ivi, p. 360. È altresì controverso il problema dei legami tra il capo del partito ed il resto del popolo italiano, giacché in Italia non si verificò mai pienamente l’attuazione del principio di fedeltà assoluta; vedi Ivi, p. 448: «Ci si può aspettare una simile “fedeltà” soltanto da un essere umano completamente isolato che, senza alcun vicolo sociale con i familiari, gli amici, i compagni e i conoscenti, senta di avere un posto nel mondo esclusivamente mercé l’appartenenza al movimento, al partito». L’affermazione ricorda il celebre Discorso del 28 ottobre 1925, in B. Mussolini, Opera Omnia, a cura di E. e D. Sumsel, La Fenice, Firenze 1967, XXI, p. 425. [23] Ivi, pp. 430-431: «Fu soltanto durante la guerra, dopo che le conquiste nell’est europeo avevano reso possibili i campi di sterminio e messo a disposizione enormi masse umane, che la Germania fu in grado di instaurare un regime veramente totalitario […] Il regime totalitario è infatti possibile soltanto dove c’è sovrabbondanza di masse umane sacrificabili senza disastrosi effetti demografici». [24] Ivi, p. 32. Il terrore ebbe, infatti, un ruolo ben più preponderante nel caso del nazismo tedesco ed una parte più rilevante che non in Italia. [25] Ivi, pp. 357-358. [26] Paolo Pombeni, Demagogia e tirannide. Uno studio sulla forma-partito del fascismo, Il Mulino, Bologna 1984.
Posted on: Mon, 26 Aug 2013 18:37:30 +0000

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