Il fondamento di ogni vero Stato è la trascendenza del suo - TopicsExpress



          

Il fondamento di ogni vero Stato è la trascendenza del suo principio, cioè del principio della sovranità, dell’autorità e della legittimità. Espressioni varie ha avuto nella storia dei popoli tale verità essenziale, disconoscendo la quale anche il significato proprio a tutto ciò che è realtà politica risulta disconosciuto o, per lo meno, distorto. Ma attraverso la molteplice varietà di tali forme si ritrova sempre, come “costante”, il concetto dello Stato come l’irruzione e la manifestazione di un ordine superiore, che si concreta in un potere. Pertanto ogni vera unità politica si presenta come l’incarnazione di una idea o di un potere distinguendosi così da qualsiasi unità di fatto, da qualsiasi forma di associazione naturalistica o di “diritto naturale”, da ogni aggregazione determinata soltanto da fattori sociali o economici, biologici, utilitaristici o eudemonistici. In epoche precedenti si poté dunque parlare di una carattere sacro del principio della sovranità e della potenza, cioè dello Stato. Così è la sfera del sacro che appartenne essenzialmente l’antica nazione romana dell’imperium, la quale nel suo significato specifico, prima di esprimere un sistema di egemonia territoriale supernazionale, designò la potenza pura del comando, la forza quasi mistica e l’auctoritas inerente a chi ha funzione e qualità di Capo: nell’ordine religioso e guerriero non meno che in quello della famiglia patrizia, della gens e, eminentemente dello Stato, della respublica. Nel mondo romano, pur così intensamente realistico, anzi proprio perché intensamente realistico, la nozione di questo potere, che è ad un tempo auctoritas, mantenne sempre il suo carattere intrinseco di forza luminosa dall’alto e di sacra potenza, di là dalle tecniche, varie e spesso spurie, che condizionarono l’accesso ad esso nei diversi periodi (1). Si può non ammettere il principio della sovranità, ma se lo si ammette è d’uopo riconoscergli nell’atto stesso l’attributo dell’assolutezza. Un potere che è insieme auctoritas – aeterna auctoritas, si direbbe romanamente – deve aver in proprio il carattere decretativo di qualcosa che costituisca l’estrema istanza. Un potere e una autorità che non siano assoluti non sono né autorità, né potere – idea questa, che De Maistre ha messo bene in rilievo. Come nell’ordine delle cause naturali, del pari in iquello politico non si può retrocedere all’infinito da condizione a condizione; la serie deve aver il suo limite in un punto, caratterizzato dall’incondizionato e dall’assolutezza nel decidere. E tale sarà anche il punto della stabilità e della consistenza, il centro naturale di tutto l’organismo. Se senza di ciò una associazione politica sarebbe un semplice aggregato, una labile formazione, l’anzidetto potere rimanda a sua volta ad un ordine trascendente che, solo, può fondarlo e legittimarlo nei termini di un principio sovrano, autonomo, non derivato, base di ogni diritto senza esser esso stesso soggetto ad intercondizionano e appunto con ciò lumeggiano la natura del puro principio politico dell’imperium epperò anche la figura di chi, come vero Capo, deve rappresentarlo ed incarnarlo. La teoria giuridicistica della sovranità, qualunque forma essa rivesta, concerne unicamente un caput mortuum, ossia la condizione propria ad un organismo politico spento, ad un organismo che sussiste meccanicamente presso ad una latenza o carenza del suo centro e della sua originaria forza generatrice. Poiché se l’ordine, la forma vittoriosa sul caos e sul disordine dunque la legge e il diritto, sono la sostanza stessa dello Stato, tutto ciò ha solo nell’accennata trascendenza la sua ragion sufficiente e la sua ultima giustificazione. Così valse giustamente il principio: princeps a legibus solutus – cioè la legge non vale per chi è Capo, allo stesso modo che è di Aristotele il detto circa coloro che, per esser essi stessi la legge, non hanno legge. In particolare, l’essenza positiva del principio della sovranità è stata a ragione riconosciuta nel potere di decidere assolutamente, al di là d’ogni vincolo e di ogni discussione, in casi eccezionali o di emergenza – ossia là dove il diritto vigente e le leggi sono sospese o una loro sospensione s’imponga (1). In tali casi e frangenti si riaccende, si manifesta, la potenza assoluta dall’alto che, pel fatto di restare invisibile e silenziosa in ogni altro periodo, non per questo deve cessare di esser presente ovunque lo Stato resti saldo nel suo principio generatore, sia organismo vivo e non meccanismo, routine (2). I “poteri eccezionali” e la “dittatura” sono gli espedienti di necessità, diremmo i “mezzi di fortuna”, che s’impongono in tali congiunture, quando l’atteso risveglio del principio centrale dello Stato non si verifica. A tale stregua la dittatura non è un fenomeno “rivoluzionario”. Rientra nella legittimità, non costituisce un principio politico nuovo e un nuovo diritto. Nel miglior periodo della romanità la dittatura fu pertanto concepita ed ammessa come temporanea e, lungi dal soppiantare l’ordine esistente, ne fu l’integrazione. Sotto ogni altro aspetto dittatura significa usurpazione. Lo Stato non è espressione della “società”. Base del positivismo sociologico, la concezione “sociale” o “societaria” dello Stato è indice di una regressione, di una rivoluzione naturalistica. Essa contradice l’essenza del vero Stato, inverte ogni giusto rapporto, destituisce la sfera politica del suo carattere proprio, della sua originaria qualità e dignità. Il fine “anagogico” – cioè di potere che trae in alto – dello Stato ne risulta completamente negato. La sfera politica si definisce con valori gerarchici, eroici e ideali, antiedonistici e, in una certa misura, anche antieudemonistici che la staccano dall’ordine della esistenza naturalistica e vegetativa; i veri fini politici sono fini in gran parte autonomi (non derivati), essi si legano a ideali e interessi diversi da quelli dell’esistenza pacifica, della pura economia, del benessere fisico; essi rimandano ad una dimensione superiore della vita, ad un ordine distinto di dignità. Questa opposizione fra sfera politica e sfera sociale è fondamentale. Essa ha il valore di una “categoria”, e per quanto più è accentuata, di tanto più lo Stato è sostenuto da una tensione metafisica, presenta salde strutture, costituisce l’imagine fedele di un organismo di tipo superiore. Infatti in tale organismo le funzioni superiori non sono espressione della parte biologica e vegetativa di esso e, a prescindere da casi di evidente degradazione e di imbestialimento, nemmeno stanno al servigio di tale parte, esse svolgono un’attività che, pur poggiando sulla vita fisica, ha leggi proprie ed è tale che, eventualmente, a questa vita fisica può imporsi per piegarla a fini, azioni o discipline che con essa sola non si spiegano né giustificano. Tutto ciò ha dunque una applicazione analogica per quel che riguarda i rapporti che, in una condizione di normalità, debbono intercorrere fra ordine politico e “società”. La differenziazione della sfera politica da quella “fisica” si ritrova ben chiara nelle origini. Si ritrova anche in quel che sussistette in varie società primitive, qui alcuni significati fondamentali apparendo anzi in una purezza, che invano si cercherebbe nelle sociologie piatte e sfaldate dei nostri tempi. Un cenno in proposito potrà fornire il migliore orientamento. Si sa della dottrina che vuol far discendere lo Stato dalla famiglia: lo stesso principio formatore della famiglia e della gens, integrato ed esteso, avrebbe dato luogo allo Stato. Comunque stiano le cose, si può pensare a riportare, per tal via, lo Stato ad un piano naturalistico solo a causa di un equivoco iniziale: come se, nelle aree antiche civilizzate, e specie in quelle di civiltà indo-europea, la stessa famiglia fosse stata una unità di tipo puramente fisico e già in essa il sacro, insieme ad una netta articolazione gerarchica, non avesse avuta una parte decisiva. Anche a tenersi alle indagini moderne, dopo un Fustel de Coulanges su ciò non dovrebbero esistere dubbi. Ma se la famiglia la si intende nel senso naturalistico, o come oggi essa più o meno si presenta, il principio generatore delle comunità propriamente politiche deve esser cercato sul piano delle cosi dette società di uomini – e proprio questo è il punto a cui volevamo accennare. In molti popoli primitivi il singolo fine ad una certa età, per essere considerato come un essere soltanto naturale, veniva lasciato alla famiglia e soprattutto alla cura materna, sotto segno materno-feminile stando tutto ciò che ha attinenza col lato materiale, fisico, dell’esistenza. Ma ad un determinato momento avveniva o, per dir meglio, poteva avvenire, un mutamento di natura e di status. Riti speciali, detti appunto “riti di passaggio”, che spesso erano preceduti da un periodo di distacco e di isolamento e che si accompagnavano sovente a dure prove, suscitavano, secondo uno schema di “morte e rinascita”, un essere nuovo, che esso solo veniva considerato “uomo”. Infatti prima di ciò il membro del gruppo, qualunque fosse la sua età, si riteneva facesse corpo con le donne, i bambini e gli stessi animali. Pertanto, una volta subìta la trasformazione, il singolo veniva aggregato alla “società degli uomini”. Ed era questa “società degli uomini”, nella quale la qualifica di un uomo aveva dunque un senso iniziatico e guerriero ad un tempo, a tenere il potere nel gruppo o clan; differenziato come i còmpiti e la responsabilità che aveva in proprio, era il suo diritto; diverso da quello di ogni altro membro (1). In tale schema delle origini sono contenute le “categorie” fondamentali che definiscono l’ordine politico di contro a quello “sociale”. Prima fra esse è uno speciale crisma, quello appunto di “uomo” in senso eminente – di vir, si direbbe romanamente, e non semplicemente di homo; la sua condizione è una “rottura di livello”, il distacco dal piano naturalistico e vegetativo; la sua integrazione è il potere, il principio del comando in mano alla “società degli uomini”. A buon diritto possiamo considerare in ciò una delle “costanti”, ossia delle idee-base che, in applicazioni, formulazioni e derivazioni assai varie si ritrovano uniformemente nella teoria o, per meglio dire, nella metafisica dello Stato professata anche dalle maggiori civiltà del passato. In seguito ai processi di secolarizzazione, di razionalizzazione e di materializzazione sempre più accentuatisi nel corso dei tempi ultimi, quei significati originari dovevano velarsi e attenuarsi; ma ove, sia pure in forma trasporta, sia pure senza più uno sfondo a carattere iniziatico o sacrale, essi siano del tutto obliterati, non esiste più nemmeno uno Stato o classe politica in senso proprio, tradizionale. Non senza riferimento a ciò qualcuno ancor oggi ha potuto dire che “la formazione di una classe dirigente è un mistero divino”: in alcuni casi, può essere un “mistero demònico”. Mai però qualcosa che possa definirsi con semplici fattori sociali e, ancor meno, economici. Lo Stato sta sotto segno maschile, la “società” e, per estensione, il popolo, il demos, sta sotto segno feminile. È, di nuovo, una verità delle origini. Il dominio materno, dal quale si stacca quello politico-virile, fu anche inteso come il dominio della Madre Terra e delle Madri della Vita e della fecondità, sotto il potere e la cura delle quali si riteneva svilupparsi l’esistenza nei suoi aspetti fisici, biologici, collettivo-materiali. Lo sfondo mitologico ricorrente è quello della dualità delle divinità luminose e celesti quali divinità del mondo propriamente politico ed eroico, contrapposte alle divinità feminili e materne dell’esistenza naturalistica, care soprattutto agli strati plebei. Così anche nella romanità antica l’idea di Stato e di imperium – della sacra potestà – si collegò strettamente al culto simbolico di divinità virili del cielo, della luce e del sopramondo nella sua opposizione alla regione oscura delle Madri e delle divinità ctonie. Una stessa linea ideale corre dai temi che abbiamo ritrovato nelle comunità primitive con le loro “società di uomini” fino al filone centrale, luminoso, della tradizione olimpico-statale del mondo classico e di una serie di civiltà superiori indoeuropee. Più oltre nella storia tale linea conduce là dove, se non di imperium, si parlò del diritto divino del Re, e se non di gruppi creati dalla potenza di un rito, si ebbero Ordini, aristocrazie, classi politiche definite da discipline e da dignità irriducibili a valori sociali e a fattori economici. Poi la linea si spezza e la decadenza dell’idea di Stato, parallela al decadere e all’offuscarsi del puro principio della sovranità e dell’autorità, si conclude con la inversione, per via della quale il mondo del dèmos, delle masse materializzate, emerge, a scalare la sfera politica. Tale è il significato primo di ogni democrazia, nell’accezione originaria del termine, e, con essa, di ogni “socialismo”. L’uno e l’altra sono, nella loro essenza, anti-Stato, degradazione e contaminazione del principio politico. Con essi si compie anche la traslazione dal maschile al feminile, dallo spirituale al materiale e al promiscuo. È, questa, una involuzione, la cui base o controparte è una involuzione nello stesso individuo, esprimentesi nel sopravvento che in lui possono prendere facoltà e interessi legati alla parte naturalistica, ottusa, semplicemente vitale dell’essere umano. Secondo le corrispondenze già riconosciute da Platone e Aristotele, l’ingiustizia, cioè la distorsione, la sovversione esterna collettiva, va sempre a riflettere quella interna, cioè quella presente in un certo tipo umano venuto a prevalere in una data civiltà. Esistono oggi forme politiche ove una simile caduta di livello e una simile inversione sono ben chiare, inconfondibili; essi si esprimono nei programmi e nelle ideologie di partito in termini inequivocabili. In altri casi la cosa è però meno visibile, ed è nel riguardo di essi che una precisa presa di posizione è necessaria. Il divario dianzi indicato fra l’idea politica dello Stato e quella fisica della “società” si ritrova nell’opposizione esistente fra Stato e nazione. Le nozioni di nazione, patria e popolo malgrado l’alone romantico e idealistico che può circondarle appartengono in essenza al piano naturalistico e biologico, non a quello politico, e riportano alla dimensione “materna” e fisica di una data collettività. Dove a tali concetti è stato dato risalto ed è stata conferita la dignità di un elemento primario, ciò è quasi sempre avvenuto in funzione rivoluzionaria o per lo meno polemica rispetto al concetto di Stato e al puro principio della sovranità. Col passaggio dalla formula “per grazia di Dio” a quella “per volontà della nazione” si compie, in effetti, in forma tipica, l’inversione già detta, un trapasso che non è da una semplice struttura istituzionale ad un’altra, ma da un mondo ad un altro mondo, separato dal primo da uno iato incolmabile. Una rapida disanima storica può chiarire questo significato regressivo del mito della nazione. L’inizio è da vedersi nella deviazione propria a quegli Stati europei che, pur riconoscendo il principio politico della pura sopraelevata sovranità, presero forma di “Stati nazionali”. Ciò avvenne in funzione essenzialmente antiaristocratica, oltreché scismatica e antigerarchica rispetto all’ecumene europeo, per disconoscimento della superiore autorità del Sacro Romano Impero e per assolutizzazione anarchica delle unità politiche particolari a cui i singoli principi facevano capo. Questi principi cessando di avere un sostegno in alto, lo cercarono in basso e si dettero ad un’opera di accentramento che doveva scavar loro la fossa, appunto perché sempre maggior spazio doveva prendere un conglomerato umano più o meno uniforme e disarticolato. Essi però preparano le strutture che dovevan passare nelle mani della “nazione” come Terzo Stato e poi della nazione come “popolo”e massa. Questo trapasso, come si sa, si realizzò con la Rivoluzione Francese; in essa la “nazione” si presentò in funzione esclusivamente demagogica e da allora il nazionalismo doveva far lega appunto con la rivoluzione; il costituzionalismo, il liberalismo e la democrazia, esserne la bandiera nei moti che dall’89 al ’48 e via via fino al 1918 andarono a sovvertire quel che restava dell’ordine della precedente. Europa tradizionale. A queste ideologie “patriottiche” è peraltro proprio il rivolgimento, secondo cui un dato naturalistico – quale è l’appartenenza di fatto ad un dato ceppo e ad una data società storica – si trasforma in qualcosa di mistico ed assurge a supremo valore, il singolo non valendo più che come il citayen e l’enfant de la patrie, e la loro unità cumulativa desautorando, scalzando o subordinando a sé – alla “volontà della nazione” – ogni più alto principio, a partir da quello della sovranità. Si sa della parte che ha avuto nella storiografia comunista la valorizzazione del matriarcato sociale, da essa concepito come la costituzione delle origini, e lo stato di giustizia a cui posero fine il regime della proprietà privata e le forme politiche che ad esso si assocerebbero. La regressione dal maschile al feminile è tuttavia egualmente visibile nelle ideologie rivoluzionarie dinanzi accennate. Già l’imagine della Patria quale Madre, quale Terra di cui si è tutti figli e rispetto a cui si è tutti uguali e fratelli, rimanda chiaramente a quell’ordine fisico, femineomaterno, dal quale, come si disse, si staccano gli “uomini”, a creare l’ordine virile e luminoso dello Stato, mentre il primo, in sé, ha un carattere pre-politico. Per il che è anche significativo il fatto che patria e nazione siano state prevalentemente allegorizzate da figure feminili, anche in popoli in nome della cui terra è di genere neutro o maschile, e non feminile (1). La sacrità e l’intangibilità della “nazione” e del “popolo” non sono che la trasposizione di quelle ascritte alla grande Madre nelle antiche gineocrazie plebee, nelle società cui era ignoto il principio virile e politico dell’imperium. Così è stato detto con ragione (Bachofen, Steding), che sono gli “uomini” a schierarsi per l’idea di Stato, le nature feminili, spiritualmente matriarcali, a schierarsi invece per nazione, “patria” e “popolo”. Da tutto ciò viene una luce particolare e sinistra, quanto alla natura delle influenze che hanno predominato nella storia politica d’Occidente, appunto a partire dalla Rivoluzione Francese. Non sarà inutile considerare anche da un punto di vista un po’ diverso questo problema. Fu idea propria anche al fascismo che solo in funzione di Stato la nazione esiste, ha una consapevolezza, una volontà, una superiore realtà. Tale idea ha una esatta conferma storica, specie se ci si riferisce a ciò che con Vico si potrebbe chiamare “il diritto delle genti eroiche” e all’origine delle principali nazioni europee. Se “patria” vuol certamente dire “terra dei padri”, il termine può aver avuto questo significato soltanto in un punto di partenza assai remoto, perché le patrie e le nazioni storiche a noi note si sono quasi sempre costituite in terre che non erano quelle originarie e, in ogni caso, in aree più vaste di quelle delle origini, attraverso conquiste e processi aggregativi e formativi presupponenti la continuità di un potere, di un principio di sovranità e di autorità, come pure l’unità di un gruppo di uomini che una stessa idea e una stessa fedeltà stringevano insieme, che perseguivano uno stesso fine, che obbedivano ad una stessa legge interna, legge riflettentesi in un ideale politico e sociale preciso. Tale è il principio generatore e la base di ogni grande nazione. Il nucleo politico sta pertanto alla nazione naturalisticamente intesa come l’anima quale “entelechia” sta al corpo: le dà forma, la unifica, la fa partecipare ad una vita superiore. Con riferimento a ciò può anche dirsi che la nazione esiste e si estende dovunque si riproduca la stessa “forma interna”, cioè il crisma, l’impronta data alla superiore forza politica e da coloro che ne sono i portatori: senza limiti geografici, anzi nemmeno etnici in senso stretto. È così che per Roma antica sarebbe assurdo parlare di una “nazione” in senso moderno; se ne può parlare come di una “nazione spirituale”, come di un’unità definita dall’ “uomo romano”. Lo stesso vale per le creazioni dei Franchi, dei Germani, degli Arabi difensori dell’Islam – a non voler citare che questi esempi fra tanti altri. Il caso più significativo resta forse quello dello Stato prussiano, che trasse origine da un Ordine. L’Ordine dei Cavalieri teutonici, e che poi fece da ossatura e “forma” al Reich tedesco. Solamente quando la tensione si allenta, le differenze si attenuano e il gruppo degli uomini raccolti intorno al simbolo sopraelevato della sovranità e dell’autorità si indebolisce e si sfalda, solamente allora ciò che è solo risultato e cosa formata – la “nazione” – può autonomizzarsi e staccarsi fin quasi ad acquistare parvenza di vita propria. Così al primo piano viene la “nazione” come popolo, collettività e massa, ossia come ciò che tale concetto è andato sempre più a significare a partire dalla Rivoluzione Francese. È quasi la creatura che prende la mano sul suo creatore quando, procedendo su tale direzione, nessuna sovranità viene più ammessa che non sia espressione e riflesso della “volontà della nazione”. Dalla classe politica intesa come Ordine e “società di uomini” si possa allora ai demagoghi o ai “servitori della nazione”, ai dirigenti democratici che presumono di “rappresentare” il popolo e con l’adularlo e col destreggiarsi si assicurano l’una o l’altra posizione di potenza. Dell’indicata regressione è dunque naturale, fatale conseguenza l’inconsistenza ma soprattutto la viltà di coloro che ai nostri giorni compongono la cosidetta “classe politica”. A ragione è stato detto (1) che nei tempi precedenti non v’era sovrano tanto assoluto, che contro di lui non potesse sorgere l’opposizione della nobiltà o del clero; mentre oggi nessuno è da tanto da biasimare il “popolo” e da un credere nella “nazione”, meno che mai da opporvi un’aperta resistenza; il che non toglie che costoro il “popolo” lo rigirino, lo ingannino, lo sfruttino come già fecero i demagoghi ateniesi e come, in tempi meno lontani, i cortigiani usavano fare con sovrani degeneri e vani – ciò, perché mai il demos, femina per natura, avrà una propria, chiara volontà. Ma la differenza sta appunto nella viltà e nel servilismo di coloro che oggi non hanno più statura, di uomini, di esponenti di una superiore legittimità e di una autorità dall’alto. Al massimo, si giunge a quel che Carlyle ha indicato parlando del “mondo dei domestici che vuol essere governato da un psudo-eroe”, non da un signore; sul che avremo da tornare trattando del fenomeno bonapartistico. L’azione attraverso “miti”, cioè attraverso formule prive di verità oggettiva appellantesi alla parte sub-intellettuale e passionale dei singoli e delle masse, è la controparte inseparabile del clima politico ora indicato e del resto, nelle correnti moderne più caratteristiche già le nozioni di “patria” e di “nazione” presentano in grado eminente proprio codesta qualità di “miti”, mostrandosi suscettibili a ricevere i contenuti più diversi a seconda del vento che spira e dei partiti, salvo il comun denominatore consistente nella denegazione del principio politico della pura sovranità. Si può aggiungere l’osservazione, che il sistema stesso stabilizzatosi in Occidente con l’avvento delle democrazie – quello maggioritario a suffragio universale – impone in partenza la degradazione della classe dirigente. Infatti il maggior numero, libero da qualsiasi restrizione e clausola qualitativa, non può che stare dalla parte degli strati sociali più bassi; e per accattivarsi tali strati e venir portati al potere dai loro voti, occorrerà sempre parlare la lingua che, sola, essi ormai intendono mettere in primo piano i loro interessi predominanti, che sono naturalmente i più grossolani, materiali e illusori, promettendo sempre, mai esigendo (1). Così ogni democrazia è nel suo stesso principio una scuola di immoralità, una offesa alla dignità e alla tenuta interna che si addicono ad una vera classe politica. Riprendiamo ora quel che si è detto poc’anzi sulla genesi delle grandi nazioni europee in funzione del principio politico, per trarne alcuni orientamenti. Dunque, qualcosa come un Ordine, come una “società di uomini” aventi nelle loro mani il principio dell’imperium e concepenti – quasi come secondo il detto del Codice Sassone – nella fedeltà la base di ogni loro onore, è la sostanza di ogni vero e saldo organismo politico (1). Ora, quando ci si trova, come oggi, in un clima di crisi, di generale sfaldamento morale, politico e sociale, di un riferimento generico alla “nazione”non può bastare per un compito ricostruttivo nello stesso caso che tale idea non abbia una coloratura rivoluzionaria e ad essa siano commisti elementi più o meno indeboliti d’ordine propriamente politico. “Nazione” sarà sempre qualcosa di promiscuo, e nella situazione ora accennata si tratta invece di riacutizzare la dualità fondamentale delle origini, cioè quella di una massa ove, a parte mutevoli sentimenti, agiranno sempre più o meno gli stessi istinti elementari e gli stessi interessi legati al piano fisico e edonistico, e di uomini che se ne differenziano quali testimoni di una diversa legittimità e autorità data dall’idea e dalla loro rigorosa, impersonale aderenza all’idea. L’idea, soltanto l’idea, deve essere per costoro la vera patria. Non l’essere di una stessa terra, di una stessa lingua o di uno stesso sangue, ma l’essere della stessa idea deve essere per loro ciò che unisce e che divide. Sciogliere e separare quel che solo apparentemente o promiscuamente, collettivisticamente, è uno, rienucleare una sostanza virile sotto specie di una èlite politica a che intorno ad essa si produca una nuova cristallizzazione questo è il còmpito vero, ed altresì la premessa affinché anche la “nazione” rinasca, riprenda forma e coscienza. Chiamiamo ciò realismo dell’idea: realismo, perché forza e chiarezza, e non “idealismo” e sentimentalismo, è ciò che per tale opera conta. Esso è però opposto sia al realismo spicciolo, degradato e cinico dei politicanti, sia allo stile di coloro che aborrono le “pregiudiziali ideologiche” e pei quali ridestare come che sia un sentimento di “solidarietà nazionale”, sia pure da branco, e in quadri non diversi da quelli delle tecniche generiche per suscitare più o meno passeggeri “stati di folla”, è tutto quello che sanno concepire. Tutto ciò cade al disotto del livello di quanto è politica in senso proprio, virile, tradizionale, e in fondo è anche inadeguato ai tempi. È inadeguato, anche perché un realismo dell’idea è già presente sul fronte opposto. Infatti oggi noi assistiamo al graduale formarsi di blocchi avventi il carattere più che nazionale proprio ad unità basate essenzialmente su idee politiche, per barbariche che queste siano. Tale è il caso precipuo pel comunismo, la qualità di proletari comunisti aderenti alla Terza Internazionale essendo quella che aggrega ed unisce di là da quanto è “nazione” e “patria”. Subito dopo viene la stessa democrazia, in quanto getta la maschera e si fa “crociata”. La cosidetta “ideologia di Norimberga” forse si riduce ad un altro, se non a statuire certi principi, i quali non sono per nulla gli unici concepibili, ma che pure dovrebbero valere categoricamente, senza riguardo a patria o nazione, anzi – secondo la formula ufficiale – “con precedenza sul dovere di obbedienza dei singoli verso lo Stato cui essi appartengono”? Anche per tal via appare dunque l’insufficienza del semplice concetto di “nazione” quale principio, la necessità che esso venga integrato politicamente, cioè in funzione di una idea sopraelevata, la quale deve essere la vera pietra di paragone, ciò che unisce e ciò che divide. Compito essenziale è dunque formulare una adeguata dottrina, tener fermo a principi rigorosamente pensati e, partendo da ciò, dar forma a qualcosa di simile, appunto, ad un Ordine. Questa èlite, differenziandosi su un piano che si definisce in termini di virilità spirituale, di decisione e di impersonalità, su un piano dove cessa di aver forza e valore qualsiasi vincolo naturalistico, sarà la portatrice di un nuovo principio di imprescrivibile autorità e sovranità, sarà accusare la sovversione e la demagogia in qualunque forma esse si presentino, arresterà il mito discendente del vertice e ascendente della base. Da essa, come da un seme, potrà trarre vita un organismo politico e una integrata nazione, in una dignità non diversa da quelle già create da una grande tradizione politica europea. Tutto il resto non è che pantano, dilettantismo, irrealismo, obliquità.
Posted on: Sat, 16 Nov 2013 22:16:14 +0000

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