Il malinconico grigiore domenicale fu spazzato via assieme ai miei - TopicsExpress



          

Il malinconico grigiore domenicale fu spazzato via assieme ai miei pensieri da un vento energico e crepuscolare, che fece rabbrividire la foglie. Solo allora mi accorsi, prestando un po’ d’attenzione, che al sibilo prolungato dell’aere (quasi a rinforzare i toni più acuti) e lacerando il mesto silenzio della campagna prossima alla notte, si era aggiunto il flebile ululato di Mirko. Il possente dobermann, che aveva seguito fedelmente i miei passi per dieci anni e allietato la mia vita con la sua attenta e gradevole compagnia, si era accasciato a terra , colpito da un infarto. Talmente indebolito da non potersi alzare, per attirare la nostra attenzione e ricevere aiuto, guaiva sommessamente. Lo trasportammo in casa e il veterinario, accorso prontamente, accertò la grave condizione di quel cuore troppo generoso, prossimo alla fine. Dopo aver versato fiumi di lacrime sul muso del nostro nero “ bambinone”, pregandolo di “restare con noi”, io e Barbara, impossibilitati a rassegnarci, iniziammo a curarlo nel tentativo di tenerlo in vita il più a lungo possibile senza farlo soffrire. La veglia si protrasse per tutta una notte, durante la quale spiammo a turno il sonno agitato e la respirazione affannosa del nostro amico che sognava di poter correre e saltare come una volta le siepi del suo giardino. In quei tragici momenti rimpiansi, come non avevo fatto nemmeno per mio padre, il tempo che non gli avevo potuto dedicare e forse pregai, con la speranza che i cosiddetti “miracoli” potessero esistere anche per i cani, dichiarandomi propenso a “credere”, in cambio di una modica “prova”, all’esistenza di “Qualcosa” per cui valesse la pena di sacrificare il mio miscredente scetticismo. Verso le dieci del mattino seguente, lo sguardo di colore intenso e indefinibile, saturo di molteplici significati difficilmente riscontrabili tra gli esseri umani, si posò su di noi, riaccendendo una impossibile speranza. 23 gennaio 1989. Poco dopo, alle dieci e cinquantasei, mentre tra le mie braccia Mirko riprendeva conoscenza, apparentemente disposto a sopravvivere, l’esistenza di mio padre si concludeva senza alcun clamore. Controverso, come parte della sua vita e del suo modo di fare, fu quel che seguì. In brevissimo tempo, forse meno di quanto consentito dalla legge, gli esperti si misero al lavoro per imbalsamarlo e dopo una solenne e spettacolare cerimonia, alla quale la sorella Ana Maria si rifiutò di presenziare, il corpo mummificato di Dalì, al sicuro da ogni eventuale autopsia, fu sepolto sotto la cupola trasparente a lui tanto cara (progettata dall’Architetto Emilio Pérez Pinero per il suo museo), protetto da una lastra di marmo da sostituire in seguito, al più presto, non appena placate le polemiche, con uno spesso cristallo che avrebbe protratto all’infinito l’estremo sfruttamento di un’immagine ormai impossibilitata a ribellarsi. Gli ex amici accennarono qualche debole polemica. Qualcuno di loro masticò amaro, ma nulla di più. Quando fu aperto il testamento, con cui mio padre designava eredi universali delle sue opere lo Stato spagnolo e la Catalogna in parti uguali, riconoscendo anche alla sorella una piccola parte della cospicua eredità, i giornali sembrarono propensi a “chiudere” il caso al più presto; infatti la notizia di un secondo testamento, che invalidava il primo, e la conferenza stampa con l’annuncio di una donazione allo Stato, tenuta dall’avvocato Doménech il 24 gennaio, giorno successivo alla dipartita di Dalì, passò quasi inosservata e malgrado la mancata ufficializzazione del nuovo misterioso testamento, che avrebbe dovuto concretizzarsi entro un periodo di trenta giorni dalla scomparsa del Maestro, nessuno reclamò e tanto meno volle approfondire. Ai miei legali non rimase altro che rivolgersi alla Corte dei Diritti dell’uomo di Strasburgo e denunciare la violazione di alcuni articoli della convenzione da parte dell’Italia e della Spagna: un miliardo di lire quale simbolica richiesta, quella presentata dall’avvocato Paolo Iorio presso la Corte dei Diritti dell’Uomo, che malgrado le note informative, inviate per raccomandata a diversi direttori di quotidiani e agenzie giornalistiche, venne tacitamente ignorata da questi ultimi. E interessante rilevare che nonostante le molte polemiche sollevate “prima” (forse per vendere pi copie) da alcuni giornali, in Italia specialmente, tutto fu messo a tacere e inspiegabilmente la quasi totalità dei cronisti e inviati speciali che avevano “inveito” e “accusato”, rifiutò di tornare sull’argomento. Anche il solerte Renato Pera de “ Il Giornale”, interpellato da Gabriel, innescò una diplomatica “retromarcia”, dissociandosi completamente da ogni circostanza “daliniana”. Fatta eccezione per Maurizio Gallo de “Il Tempo”, che seguì attentamente ogni sviluppo successivo, e di Ahmad Rafat che sul settimanale spagnolo “Tiempo” titolava il suo intervento: “El tribunal supremo de Italia puede reconocer un hijo a Salvador Dalì”, gli altri giornalisti si “allinearono”, osservando con rigorosa acquiescenza un silenzio stampa pressoché “collegiale”. Per chiudere, giornalisticamente parlando, la mia storia con un atto di pirateria professionale, di un importante gruppo editoriale destinato al fallimento, ma in ottimi rapporti con una famiglia italiana che in virtù delle diverse iniziative editoriali rese possibili per l’efficace mediazione di questi ultimi presso Dalì, inviò immediatamente dopo l’ineluttabile evento un proprio collaboratore (con l’intervista già compilata in tasca) che, dopo avermi interpellato di fronte a diversi testimoni e aver visionato gran parte dei documenti (inerenti la notoria circostanza) depositati agli atti presso i tribunali preposti, pubblicò una “sua intervista immaginaria” al limite della diffamazione, nella quale evidenziava personali punti di vista tutt’altro che imparziali, basando le sue discutibili “deduzioni” copiate con la carta carbone da un articolo diffamatorio di cinque anni addietro, ampiamente smentito pubblicamente a suo tempo dal giornalista di un altro quotidiano “istigato” all’aggressione gratuita da ignoti suggeritori occulti. Inutili furono le raccomandate di smentita, inviate con le dovute rimostranze da Annalisa, Beatrice ed Enzo (testimoni assieme a Barbara della cosiddetta intervista farsa, probabilmente atta a “riesumare” la carriera, in caduta libera di una cara amica della redazione), all’ambiguo direttore del settimanale che, violando spudoratamente l’articolo 8 della legge sulla stampa, si guardò bene dal concedere una giusta replica. Come mai tanto accanimento nei miei confronti da parte dell’imponente gruppo editoriale? E di quale “potere superiore” disponevano i miei virtuali e invisibili nemici per tacitare buona parte della stampa europea? Questi, come molti altri, gli interrogativi senza risposta che accresceranno l’enigma Dalì: un mistero “terreno” che nessuno ha voluto risolvere.
Posted on: Wed, 14 Aug 2013 09:30:32 +0000

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