Intervista Marco Mamone Capria La vivisezione, nel senso della - TopicsExpress



          

Intervista Marco Mamone Capria La vivisezione, nel senso della sperimentazione medica su specie animali diverse da quella umana, è da sempre stata un azzardo che alcuni scienziati hanno imposto alla collettività, e che altri scienziati, non meno prestigiosi, hanno denunciato come indegno della scienza sotto il profilo metodologico, a parte ogni considerazione di crudeltà sugli animali -- considerazione che, ovviamente, è pure doveroso includere in una valutazione complessiva di tale pratica. Qui non c’è spazio per una discussione approfondita delle ragioni scientifiche contrarie, ma penso che una buona sintesi sia stata formulata due anni fa da un noto e autorevole tossicologo, Thomas Hartung: semplicemente, noi umani non siamo topi di 70 chili. L’onere della prova non è insomma su chi dubita della validità per l’uomo della sperimentazione animale, ma su chi l’afferma. L’opposizione alla vivisezione è un caso esemplare in cui il semplice buon senso converge con i risultati della più aggiornata analisi scientifica. L’argomento fondamentale dei fautori è sempre stato che non ci sarebbe altra maniera di fare ricerca biomedica, almeno se non si vuole provare una procedura o un medicinale direttamente su esseri umani. Ciò che più mi ha colpito di questo argomento, fin dagli inizi del mio interesse per la questione, è la sua evidente fallacia: il fatto che un certo metodo di ricerca sia eticamente inaccettabile (la sperimentazione sugli umani) non garantisce che un altro metodo (la sperimentazione sugli animali) sia valido, nemmeno se di questo secondo metodo si potesse dimostrare che, a parte il primo, non ce ne sono di migliori. Quest’ultima condizione, per giunta, sicuramente non vale per la vivisezione. Mi sono spesso chiesto come mai persone di normale intelligenza potessero cadere in questo errore fondamentale, e insistervi incessantemente con totale indifferenza alle ripetute e pubbliche confutazioni. La prima spiegazione è ovviamente data dall’interesse a tenere in piedi un’industria lucrativa come quella della vivisezione, il che induce a usare qualsiasi argomento, per quanto erroneo, se si può sperare di riuscire con esso a imbarazzare gli oppositori ingenui -- che poi sono tanti. Per esempio, si arriva a dire assurdità come quella secondo cui «Il giorno che non ci sarà più la sperimentazione sugli animali finirà la medicina» In effetti, tenere in piedi una ricerca che alimenta speranze di soluzione di gravi malattie in continua crescita ha l’effetto di invertire i termini della questione sanitaria: invece di andare alle cause di tale diffusione, come sarebbe naturale, e di cercare di rimuoverle con informazioni e interventi legislativi appropriati, si mette l’accento sul come curare queste malattie una volta che hanno colpito. E badi che l’effetto politico di tale inversione sussiste anche se la ricerca suddetta è impostata in maniera erronea e non ha speranze razionali di raggiungere il suo scopo ufficiale. A volte, ho l’impressione che il cosiddetto uomo della strada ha subito un tale lavaggio del cervello che, se gli capita di ammalarsi gravemente, quasi si sente in colpa -- non la colpa di avere forse adottato in passato uno stile di vita malsano, o di non aver protestato contro condizioni lavorative o ambientali dannose, ma quella di non essere nato cinque o dieci anni più tardi, in modo da poter usufruire della terapia efficace che “sicuramente” sarebbe tra cinque o dieci anni disponibile... Io, invece, credo che se di una malattia non si sa come curarla efficacemente, ci si dovrebbe concentrare sulla diffusione di informazioni e l’emanazione e applicazione di normative che ne riducano il più possibile l’incidenza -- piuttosto che alimentare aspettative che quasi sicuramente andranno deluse, o generare rimpianti mal posti. Domanda: - Però, la ricerca sulla terapia delle malattie non impedisce di per sé che si lotti anche contro le cause... Risposta: In linea di principio è così, e non è certo mia intenzione demoralizzare chi si impegna in tale ricerca, purché lo faccia con metodi scientificamente adeguati e si adoperi, in parallelo, a diffondere informazioni sulla prevenzione. Ma i casi in cui si saprebbe evitare ai cittadini un rischio inutile e non lo si fa, nel silenzio colpevole della stragrande maggioranza degli specialisti, sono innumerevoli. Per citare solo un esempio: entrando però un po’ nei particolari, i gestori degli acquedotti pubblici in 128 comuni italiani chiedono e ottengono da anni deroghe sulla concentrazione di arsenico nell’acqua di rubinetto, in modo da renderla “potabile”... cioè potabile “per legge”, anche se in realtà non lo è. Solo in provincia di Roma gli utenti interessati da questi provvedimenti sono più di 250.000. Ora, molti non sanno che l’arsenico non è soltanto il famoso veleno con una lunga tradizione di omicidi, reali e letterari, e avente una dose letale di 70-180 milligrammi (per il triossido di arsenico) (Articolo - Vedi qui: ilfattoquotidiano.it/2013/01/07/acqua-inquinata-in-lazio-nella-popolazione-concentrazione-di-arsenico-oltre-soglia/462443/ilfattoquotidiano.it/2013/01/07/acqua-inquinata-in-lazio-nella-popolazione-concentrazione-di-arsenico-oltre-soglia/462443/ ) Insomma, qualsiasi autorità sanitaria o istituto di ricerca medica che avesse anche remotamente un sincero interesse a migliorare le condizioni di salute della popolazione farebbe di tutto per evitare il più possibile l’esposizione dei cittadini all’arsenico. Invece, i citati comuni italiani si sono affannati a chiedere deroghe su deroghe, con il supporto del ministero della salute, dell’Istituto Superiore di Sanità e della quasi totalità degli specialisti, i quali, salvo eccezioni, non si sono sentiti in dovere di avvisare i cittadini sui rischi a cui le amministrazioni comunali e i gestori degli acquedotti li sottoponevano nascostamente. In generale, ai cittadini le informazioni sull’acqua che bevono, questo alimento così fondamentale, sono date in maniera reticente, superficiale e sporadica -- e parlo sia dell’acqua del rubinetto sia di quella in bottiglia. DOMANDA: - Almeno sarà grazie alla sperimentazione animale che avremo scoperto il potenziale cancerogeno dell’arsenico... RISPOSTA: No, è precisamente il contrario. Che l’arsenico sia un cancerogeno (per pelle, polmoni, reni, vescica) lo si sa da ben due secoli. A partire dall’osservazione di comunità che bevevano acqua con forte concentrazione di arsenico. Gli esperimenti su animali per “confermare” tale verità, sono iniziati nel 1911 e sono andati avanti per settant’anni prima che si trovasse una specie animale e una modalità di somministrazione che permettessero di ipotizzare ai vivisezionisti una qualche “conferma”. Badi che ancor oggi, dopo un secolo di tentativi e decine di migliaia di animali “sacrificati” allo scopo -- topi, ratti, criceti, cani, conigli, scimmie ecc. -- le prove di cancerogenicità dell’arsenico sugli animali sono considerate di valore “limitato” [17] dalla massima istituzione in materia, la International Agency for Research on Cancer (IARC). In altre parole, se non ci fossero state abbondanti prove della cancerogenicità sull’uomo, gli esperimenti su tante specie animali e per un periodo così esteso sarebbero bastati a scagionare l’arsenico dall’accusa di cancerogenicità. Queste sono informazioni oggettive e facili da verificare -- sarebbe molto utile fossero generalmente conosciute, ma nessun giornalista o consulente medico dei principali media sembra ansioso di divulgarle, ammesso che ne sia egli stesso a conoscenza. Continua qui: comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=9908
Posted on: Fri, 07 Jun 2013 01:09:07 +0000

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