LA PENITENZA NELLA TRADIZIONE Ricco e complesso fu lo sviluppo - TopicsExpress



          

LA PENITENZA NELLA TRADIZIONE Ricco e complesso fu lo sviluppo del Sacramento della Confessione nella Tradizione della Chiesa. Esso mette a fuoco l’apostolicità della prassi penitenziale della Chiesa Cattolica. Anzitutto va evidenziato che ai tempi degli Apostoli, come dicevamo, la Confessione era praticata con la stessa facilità con cui è amministrata oggi. Infatti si sapeva che ogni peccatore poteva essere perdonato per la Penitenza (Gc 1, 21; 5, 19 ss.; 2 Pt 3, 9; 1 Gv 2,1 ss.), nella mediazione sacramentale della Chiesa (1 Gv 5, 14; Gc 5, 14 ss.). La prassi era quella della Confessione pubblica (1 Gv 1, 9), ma l’assoluzione era riservata agli Apostoli e ai Vescovi. Questa universale destinazione del Sacramento penitenziale riposava sulla convinzione che non vi è alcun peccatore che Dio, all’occorrenza, non possa e non voglia convertire (Ap 2, 2; 2, 14 ss.; 2, 20-23). Va anche detto che l’alto livello morale della prima generazione cristiana fece sì che la Penitenza fosse sempre irrogata senza creare motivi di particolare scandalo. Questa impostazione teologica rimase intatta nei Padri Apostolici: la Didakè (90 ca.) e la Lettera di Barnaba (98 ca.) esortano alla Penitenza e alla conversione senza restrizioni, mentre il diritto del Vescovo di giudicare il penitente è ribadito da Sant’Ignazio di Antiochia nelle sue Lettere (107). Tuttavia la diffusione del Cristianesimo e l’ingresso nella Chiesa di gente non sufficientemente motivata nello sforzo ascetico fece sì che i peccati si moltiplicassero – come descrive, tra l’altro, lo stesso Ignazio – e pose la prima grande questione dottrinale legata al Sacramento: quante volte può essere ricevuto da chi pecca mortalmente? Sebbene nel NT nulla impedisse che il Sacramento fosse reiterato fino a settanta volte sette, cioè sempre, il timore che s’introducesse il lassismo nella prassi penitenziale della Chiesa spinse ad una reazione, visibile in Erma e nella sua opera Il Pastore (150 ca), legata agli ambienti romani. Come accennato, nelle visioni descritte nel libro Erma riceve alcune indicazioni significative: anzitutto la Confessione e la penitenza concomitante sono un dono della Misericordia Divina; inoltre essa deve essere ricevuta una volta e non di più, in quanto appare difficile credere nel pentimento di chi, confessate colpe gravi, poi vi ricada con facilità. E’una svolta significativa, volta a porre un argine agli abusi ma con una ricaduta disciplinare che rende più rara l’amministrazione del Sacramento, avviandola ad una ciclicità liturgica annuale. E’ la prima modifica canonica, non dogmatica, subita dal Sacramento nella sua storia. In concomitanza di questa svolta a Roma, nel 150 sant’Ireneo di Lione (140†195) attesta che la Penitenza salva i peccatori e nel 170 ca. Dionigi di Corinto ricorda che tutti possono adire al Sacramento della Confessione per qualunque peccato, in polemica con i Montanisti, che sostenevano invece che la Chiesa, pur potendo assolvere ogni peccato, non dovesse farlo per non dare esempio di cedevolezza. Questa dottrina era accompagnata dalla pretesa che l’assoluzione dovesse essere data non dal Vescovo, ma dai profeti del loro movimento. In questa che è la prima grande controversia penitenziale della Storia della Chiesa e che mostrò come essa sia ordinata alla salvezza dei peccatori, entrò in campo Tertulliano (160†220 ca.) il quale, nel suo fondamentale trattato De Poenitentia, enunciò principi ancora oggi professati dalla Chiesa: che la Confessione può e deve assolvere tutti i peccati gravi; che essa restituisce la Grazia Santificante; che l’assoluzione spetta al Vescovo. L’Africano descrive bene anche la struttura del rito, invalsa dopo la svolta di Erma: il penitente, che è tenuto alla confessione privata col Vescovo e poi innanzi alla comunità, per adempiere al precetto della penitenza pubblica, deve trascorrere un congruo periodo liturgico fuori della chiesa mentre si tengono in essa le funzioni; nel contempo deve compiere atti privati di penitenza; indi deve farne di pubbliche, in corrispondenza ad un periodo in cui può trattenersi sulla soglia della chiesa mentre in essa si celebra, nonché ad una terza fase in cui è ammesso nello stesso tempio durante il culto; trascorso quindi il periodo penitenziale, il Vescovo concede l’assoluzione e il cristiano è riammesso ai Sacramenti. L’anteposizione della penitenza canonica all’assoluzione serviva a rendere più impegnativo il percorso penitenziale. In questa linea, Sant’Ippolito di Roma (170†235) ribadiva nelle sue Tradizioni Apostoliche che il Vescovo può assolvere da ogni peccato – polemizzando con i Montanisti e con lo stesso Tertulliano passato nelle loro fila e poi divenuto ancor più rigorista di loro – ma che le penitenze inflitte debbono essere serie e all’occorrenza severe. Il papa San Callisto I (217-222), invece, fece invalere il principio per cui la penitenza dovesse essere al servizio della riconciliazione e non causa di allontanamento, nonostante le critiche di Tertulliano e Ippolito, la cui opposizione generò una seconda controversia penitenziale in seno alla Chiesa Romana con uno scisma. Ippolito infatti, divenuto antipapa, sostenne che il ministero sacerdotale dipendeva dalla santità degli ordinati, con una ricaduta anche sulla possibilità pratica di impartire l’assoluzione, anche se non tematizzata. Lo scisma cessò con la persecuzione di Massimino il Trace. Toccò a San Cipriano di Cartagine (200 ca.†258) gestire la crisi penitenziale connessa alla persecuzione di Decio e alla conseguente pretesa dei cristiani che avevano apostatato per paura (i lapsi), terminata la violenza, di ritornare nella Chiesa. Il Cartaginese fece invalere i principi tradizionali, contro i lassisti e i rigoristi: anche i lapsi potevano essere assolti, ma dopo una lunga e congrua penitenza, destinata in alcune forme a prolungarsi tutta la vita data la gravità del peccato di apostasia; la raccomandazione dei confessori ottenuta dai lapsi pentiti costituiva una potente intercessione innanzi alla Chiesa, ma non surrogava l’assoluzione sacramentale, che poteva essere concessa senza penitenza solo in punto di morte a chi aveva queste speciali credenziali; tale assoluzione spettava al Vescovo; la struttura del Sacramento descritta dal Santo prevede la confessione, le opere di penitenza, l’exomologesi (o fase in cui si è fuori dalla chiesa come edificio), l’assoluzione. Sono peraltro le medesime fasi descritte qualche anno prima in Oriente da Origene (†254). L’insegnamento di Cipriano fu ribadito da papa San Cornelio (251†253), contro il rigorismo di Novaziano (200 ca.†258), antipapa autore di uno scisma da cui nacque una Chiesa la cui caratteristica fu proprio quella di negare l’assoluzione per i peccati più gravi, che durò fino al V sec. e che venne condannata nel Concilio romano del 251 e altre volte fino al I Concilio di Nicea (325). Una nuova crisi penitenziale fu attraversata dalla Chiesa Romana dopo la persecuzione di Diocleziano: ancora ci fu chi negò che la Penitenza potesse assolvere i lapsi, ma papa Sant’Eusebio (310) ribadì la dottrina tradizionale. In Oriente, Clemente Alessandrino (145 ca.†217 ca.) aveva insegnato che la Confessione era la seconda occasione concessa all’uomo per salvarsi dopo il Battesimo, attestando che l’esigenza di rigore introdotta da Erma era ai suoi tempi diffusa ormai in tutto il mondo cristiano, greco e latino. Del resto, la tendenza diffusa a farsi battezzare in punto di morte, che toccò l’apice nel IV sec., faceva sì che i catecumeni ricevessero, con il Battesimo, l’unica remissione delle colpe della loro vita mettendo in ombra, per un periodo, il Sacramento della Penitenza. Origene tuttavia ha ben chiara la funzione di questa: serve per i peccati mortali e non per i veniali; la confessione dev’essere piena e sincera, resa al Vescovo e poi alla comunità; è inoltre dovere del Pastore cercare i peccatori e spingerli a confessarsi. E’ tuttavia assai significativo che nella Chiesa Siriaca del III sec., dove si erano conservate intatte le tradizioni apostoliche della prima generazione, grazie al comune ambiente aramaico, la Penitenza non è affatto comminata una volta sola, ma tutte le volte che è necessario (Didascalia; Costituzioni Apostoliche). La riforma disciplinare di Erma non ha potuto scalfire il prestigio delle abitudini della prima generazione cristiana, arrivate intatte sino a quei tempi. Nel IV-V sec. la disciplina penitenziale diventa ancora più rigida, in relazione alla diffusione di massa del Cristianesimo, e si aggancia alla Quaresima. Essa terminava il Giovedì Santo con l’assoluzione del Vescovo, la cui importanza è ricordata con forza da Sant’Innocenzo I (401†417), da San Leone Magno (440†461) e da San Girolamo (347†420 ca.). La penitenza si può prolungare per anni, se non a vita, come ammonisce lo stesso Sant’Ambrogio (374†397). Non si può più bypassarla con il Battesimo in punto di morte perché ormai è caduto in disuso, sotto il peso della deprecazione della Chiesa. Solo Sant’Agostino (354†430), alla luce delle sue dotte riflessioni sulla Grazia e delle polemiche con Pelagio e i Donatisti, evidenzia che ogni situazione è diversa dalle altre e imposta la questione penitenziale con maggiore mitezza, intravvedendo i rischi concretizzatisi nell’età seguente. In essa, il sec. VI-VII, sia in Spagna che in Gallia le penitenze sono ormai al limite del sostenibile, come dovrà ammettere lo stesso XIV Concilio di Toledo (684), e spesso conducono i penitenti, col loro protrarsi a vita, sulla soglia della disperazione. Tuttavia nessuno osa modificare l’impianto della penitenza pubblica. Molti rinviano in punto di morte la Penitenza, per non doversi sobbarcare l’onere delle azioni espiative e con grave rischio per la loro salute eterna. La Chiesa gallo-visigota stessa incoraggia questa prassi. Ciò peraltro mette in ombra il Sacramento degli Infermi. Timidi tentativi di accorciamento delle penitenze vengono da San Cesario di Arles (470†543). Solo San Fulgenzio di Ruspe (468†533), fedele discepolo di Agostino, riesce a mitigarne i rigori e a rimettere il Sacramento al servizio della salvezza. Una significativa innovazione liturgica si ha a Roma, dove il Sacramentario Gelasiano attesta la facoltà delegata di assoluzione per i Presbiteri. La strada per la liberazione del Sacramento dalle forme pietrificate della penitenza pubblica fu la rinascita della penitenza privata, promossa proprio per evitare di cadere nei rigori della prima, che veniva ormai da molti abbandonata. Così attestano San Cesario, Desiderio di Vienne, San Gregorio Magno (590†604), secondo una linea di tendenza embrionalmente presente già in Leone Magno. Ma gli artefici del rinnovamento furono i Penitenziali irlandesi e le loro Redenzioni. Nell’Irlanda evangelizzata nel V sec. si era sviluppato un Cristianesimo di matrice celtica incentrato sul monachesimo. L’adattamento alla mentalità della popolazione dell’isola aveva fatto sì che spontaneamente si sviluppasse un sistema penitenziale basato su schemi fissi, in cui ad ogni peccato corrispondeva una penitenza, seria ma snella rispetto a quelle del Continente, perché praticabile in privato (VI sec). Le varie forme di penitenza o Redenzioni erano poi all’occorrenza legate da sistemi di commutazione ed equivalenze. Per esempio più giorni di digiuno erano commutabili nella recita del Salterio completo; tale recita, impossibile per gli analfabeti, poteva essere surrogato da quella di centocinquanta Pater accompagnati da altrettante genuflessioni; successivamente poterono essere rimpiazzati da altrettante Ave Maria con le medesime genuflessioni. Analogamente, erano previste anche pene pecuniarie, conformemente alla tradizione del Libro del Levitico. Queste Redenzioni erano anche dette Tariffari e si diffusero sul Continente quando proprio dall’Irlanda partirono missionari per evangelizzare i rozzi barbari che avevano distrutto buona parte dell’antica Cristianità paleoromana (VI-VIII sec.). Esse divennero il mezzo più diffuso per la prassi della penitenza privata. Grazie ad esse la sclerotizzata penitenza pubblica fu accantonata. Già dall’Età carolingia la penitenza pubblica fu riservata ai soli peccati pubblici, notori, da compiersi entro la Quaresima. L’assoluzione avveniva il Giovedì Santo. Le penitenze divennero meno onerose grazie alla prassi dei pellegrinaggi penitenziali e delle offerte (Sinodo di Tribur, 895). Gli uni facevano confidare nell’intercessione dei Santi e sono la preistoria delle Indulgenze; le altre avevano fondamento nei Tariffari a loro volta fondati sul Levitico. Per i peccati veniali, l’assoluzione avveniva già prima della Quaresima (come attesta San Teodulfo d’Orléans, 750†821), nel quadro della Confessione annuale, in cui ognuno, in privato, accusava le colpe commesse per i Sette Vizi Capitali. Se tra essi ve ne erano di più gravi, rientranti tra le colpe gravi ma non notorie, l’assoluzione era impartita dopo la Quaresima. In conseguenza di questa separazione tra penitenza per i peccati gravi pubblici e quella per i peccati gravi privati, la prassi dell’imposizione delle Ceneri nel Mercoledì apposito fu estesa a tutti i battezzati e non più riservata ai soli penitenti. Nel cuore del Medioevo feudale, dal IX alla fine del X sec., si cercano e si trovano motivi per assolvere prima della penitenza canonica. La prassi invale e soppianta quella precedente, favorita dal nuovo sistema penitenziale di matrice tariffaria e dalla distinzione tra peccati pubblici e privati. Anzi ben presto acquista valore una distinzione tra peccati gravi assolvibili da chiunque e peccati gravi riservati direttamente al Vescovo se non addirittura al Papa, specie all’indomani della Riforma gregoriana (XI-XII secc.). Questi ultimi, che ottengono l’assoluzione dopo un intero viaggio, sono ormai al posto dei vecchi peccati notori espiati nella penitenza pubblica. Analogamente sono legati alla penitenza pubblica, ma in forme di volta in volta diverse, coloro che incorrono nella scomunica o nell’interdetto fulminato dai canoni o ferendae sententiae. Nel sec. XI tuttavia rimane l’uso di confessare i peccati pubblicamente, ma solo in assenza di sacerdoti e in caso di necessità, come su di un campo di battaglia. La tendenza consolidata è quella ormai di rendere più frequente la Confessione, a dispetto della Comunione che è invece più rara. Nel XIII sec. ormai la Penitenza è annuale ma privata, condotta peraltro sulla base di precisi manuali per l’esame di coscienza. Il punto culminante è il IV Concilio Lateranense (1215). In esso papa Innocenzo III (1198-1216) fa definitivamente riconoscere che la Confessione è individuale ed auricolare, in quanto il giudice del penitente è il sacerdote; obbliga i confessori al segreto sacramentale; mantiene l’obbligo della Confessione annuale ma non tanto in senso minimale, quanto piuttosto massimale, per far capire ai fedeli che il Sacramento non va ricevuto irresponsabilmente commettendo facilmente peccati gravi. Ma putroppo la prassi che invasle fece sì che si ritardasse fino ad oggi la Confessione anche in casi di peccati gravi. E nella pietà comune del Basso Medioevo e del Rinascimento Confessione e Comunione dei laici erano rare. In ogni caso la Confessione faceva parte integrante del Deposito della Fede su cui la Chiesa Greca e Latina conversero nei Concili Lionese II (1274) e Fiorentino (1438-1445). Il Concilio di Costanza (1415-1417) condannò John Wycliff (1324†1384) e Jan Hus (1371 ca.†1415) che negavano l’origine apostolica di questo Sacramento. Quando poi Lutero (1483†1546), per la giustificazione per fede, Zuingli (1484†1531) e Calvino (1509†1564), per la doppia predestinazione, rigettarono la necessità della Confessione, il Concilio di Trento (1545-1563) potè nuovamente e definitivamente insegnare che il Sacramento della Confessione consta di tre parti: pentimento, confessione, soddisfazione. Nell’Età della Controriforma furono i Gesuiti a promuovere una teologia sacramentale che, nella distinzione tra contrizione e attrizione, permettesse a tutti di poter confidare nel perdono divino ricorrendo più spesso alla Confessione. Ciò fece da contravveleno alla teologia giansenista che, nel XVII sec., sostenendo l’infallibilità della Grazia, riteneva impossibile che si potesse essere cristiani e avere un livello di vita morale mediocre, tagliando così alle radici la ragion efficiente della Confessione stessa, il ricorso frequente alla quale avrebbe attestato al penitente che egli non era tra gli eletti. La condanna del Giansenismo fulminata da Urbano VIII (1622†1644), Innocenzo X (1644†1655), Alessandro VII (16551†667) e Clemente XI (1700†1721) servì anche a mantenere intatta la dottrina penitenziale della Chiesa, anche se bisognò intervenire più volte da parte dei Papi contro le degenerazioni lassiste della morale gesuitica. Sempre nel XVII sec. le Rivelazioni del Sacro Cuore di Gesù a Santa Margherita Maria Alacocque (1647†1690) diedero una spinta alla prassi della Confessione e della Comunione mensili con spirito di riparazione, destinata a decollare in modo deciso nella seconda metà del XIX sec., con il beato Pio IX (1846†1878). Tuttavia ancora dopo il Vaticano I (1868-1870) i Vecchi Cattolici misero in discussione l’apostolicità della Penitenza. Su questa scia li seguirono i Razionalisti e i Modernisti condannati da Pio X (1903†1914). Questi, promuovendo la Comunione frequente, sviluppò ulteriormente la Confessione ripetuta. Il movimento eucaristico e la devozione al Sacro Cuore, inculcata da tutti i Papi del XX sec. fino a Giovanni XXIII (1958†1963), nonché quella al Cuore Immacolato di Maria con la pia pratica dei Primi Cinque Sabati del Mese – anch’essa con Confessione, Comunione e Rosario a scopo riparativo, rivelata a Suor Lucia Dos Santos (1907†2005) – fece sì che la Penitenza divenisse finalmente un Sacramento frequentemente ricevuto. Il Concilio Vaticano II (1962-1965) parlò della Penitenza nella costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium, prescrivendone la riforma rituale; ma ne accennò anche nella Presbiterorum Ordinis e nella Christus Dominus, in relazione ai ministeri sacerdotale ed episcopale. Paolo VI (1963†1978) realizzò il mandato conciliare, pubblicando il nuovo Rito della Penitenza (19.9.1973), con una introduzione teologico-pastorale di grande rilevanza. Per bilanciare lo scivolamento della Confessione verso la sola pietà privata si ripristinarono forme collettive di celebrazione, nel quadro di una mitigazione delle penitenze pubbliche. Purtroppo la secolarizzazione e una teologia neomodernista minò le basi della prassi penitenziale diffusa che subì una flessione. Sui complessi temi teologici penitenziali il ven. papa Giovanni Paolo II (1978†2005) convocò la VI sessione ordinaria del Sinodo dei Vescovi, i cui lavori furono pubblicati nella monumentale esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et Poenitentia (1983). Ancora nel Catechismo della Chiesa Cattolica (1993) il Papa fece una sussunta della dottrina cattolica sull’argomento. L’odierno pontefice Benedetto XVI esorta continuamente i fedeli ad una penitenza sacramentale frequente e sincera, nelle forme custodite dalla Chiesa Cattolica, le uniche che, a fronte delle oscillazioni delle Chiese ortodosse e dell’apostasia di quelle Protestanti, hanno mantenuto intatta la dottrina apostolica sull’argomento.
Posted on: Wed, 13 Nov 2013 15:42:06 +0000

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