LE ORIGINI DELLA MAFIA - Parte II L’apoteosi della mafia Il - TopicsExpress



          

LE ORIGINI DELLA MAFIA - Parte II L’apoteosi della mafia Il sistema dell’egemonia mafiosa aveva subito un deciso attacco nel punto nevralgico degli interessi finanziari della borghesia mafiosa che era il Banco di Sicilia. L’offensiva, che aveva trovato sostegno nell’opinione pubblica, era condotta dal commendatore Emanuele Notarbartolo. Già sindaco di Palermo era stato nominato, nel 1876, Direttore generale del Banco e aveva contribuito in modo decisivo a risanarlo. Tuttavia non era riuscito ad impedire che il Consiglio generale dell’istituto diventasse preda di interessi clientelari sostenuti dalla politica. Il clamoroso conflitto era stato risolto dal governo (in prima persona dallo statista siciliano Crispi) dando torto al Direttore generale sostituendolo. Si potenziò così un affarismo che alle esigenze di una corretta amministrazione sostituì un favoritismo alle richieste finanziarie dei soggetti economici protetti dalla politica. Si tenga conto che le Commissioni di sconto erano costituite dai consiglieri delegati delle stesse aziende che li richiedevano. L’esplosione dello scandalo della Banca romana vide Notarbartolo al centro della bufera, non perché responsabile degli intrighi ma perché a conoscenza di fatti che avrebbero potuto colpire Crispi. La voce, poi, che nel gennaio del 1893 dava per certo il suo ritorno alla Direzione generale del Banco fu forse determinante al compimento del suo assassinio. La sera del 2 febbraio, in una vettura del treno proveniente da Messina, alcuni sicari lo uccisero, gettandolo cadavere dal finestrino. Due ferrovieri, Crollo e Garufi, furono gli esecutori materiali. Nonostante l’impegno della famiglia della vittima per la scoperta dei mandanti il delitto rimase un mistero. Per il vero vi erano seri indizi, quasi delle prove, che indicavano l’onorevole Raffaele Palizzolo, la cui appartenenza all’alta mafia era accertata dai suoi precedenti delitti, si dovette attendere sei anni prima di vederlo sul banco degli imputati. Era ancora deputato in carica, quando, nel dicembre 1899, fu aperto a Milano “per legittima suspicione” il procedimento penale a suo carico. La corte d’Assise di Milano rinviò il caso a Palermo per un supplemento d’indagine. Il processo fu trasferito a Bologna dove si concluse il 30 giugno 1902 con una condanna a trent’anni di reclusione. Nel corso del processo si scatenarono gli intrighi politico-affaristici della borghesia mafiosa. La risposta del fronte baroni-borghesi fu eclatante, soprattutto a Palermo, tra i commercianti e la plebe. L’arma utilizzata fu il sicilianismo. Si attribuì alla sentenza di Bologna la volontà di un attentato alla Sicilia e il Palizzolo divenne simbolo dei ‘diritti’ siciliani offesi dai settentrionali. Baroni e personaggi di rispetto costituirono un Comitato pro Sicilia. Il Comitato, guidato da sei deputati, oltre a numerosi cavalieri, avvocati e notai, annoverava latifondisti di antica condizione aristocratica. Tutta quella gente era disposta a compiere una rottura del ‘patto’ con lo Stato nazionale. Il caso Palizzolo era certo una questione da tribunali ma la politica ha le mani lunghe. Sarà stato per quelle mani o per altro, la Cassazione annullò la sentenza di Bologna e l’onorevole nuovamente sottoposto a processo, questa volta a Firenze, fu frettolosamente assolto per “insufficienze di prove”, come si conveniva a un perfetto mafioso. La vicenda si concluse con un’apoteosi della mafia e della mafiosità. Il latifondo e le zolfare Entrando più nel merito del sistema mafioso è utile sottolineare che il potere di controllo delle elezioni politiche e amministrative esercitato dalla mafia agraria, rafforzò quel sistema nel rapporto con lo Stato e con le sue amministrazioni locali. Il ceto politico siciliano, di fatto espresso dall’organizzazione criminale, divenne parte organica del potere nazionale che si fondava sul dualismo Nord-Sud. A tale frattura nazionale fra due Italie si accompagnavano quella dell’area occidentale dell’isola dove prevaleva il latifondo e l’area orientale, intorno a Catania, aperta ad esperienze più dinamiche, nonché quella tradizionale tra la città e la campagna. Nelle campagne del latifondo regnava lo sfruttamento dei contadini da parte dei vecchi e nuovi signori. La figura centrale dell’oppressione era quella del gabelloto. Per capire questa figura è necessario dare uno sguardo ala sistema del latifondo. Esso si articolava in maniera apparentemente complesso: i gabelloti prendevano in affitto i grandi feudi, dividendolo poi in piccole quote che subaffittavano in varie forme di colonia (con il contratto detto “terratico”) ad un esercito di contadini. Ciò li permetteva di realizzare una rendita parassitaria che consisteva nella differenza tra l’importo del canone che dovevano versare al proprietario e le entrate monetarie o in natura che realizzava dai subaffitti e dalle prestazioni dei coloni. Naturalmente il presupposto a questa operazione era quello di spremere il lavoro contadino con canoni elevati di subaffitto con varie forme di estorsioni e con l’opera indefessa di controllo dei “sovrastanti” o “campieri” per impedire sottrazioni dei prodotti e per vigilare sui ‘patti’ stipulati. Per dare una visione più concreta di questo tipo di organizzazione, riferiamo la piramide disegnata dal più volte citato Marino: al vertice si collocavano i proprietari (tutti ‘baroni’ o ‘cavalieri’, anche se si trattava soltanto di recenti beneficiari di usurpazioni e di rapine), proprietari solo in diritto, in quanto del tutto fuori dall’organizzazione aziendale del lavoro. Appena al di sotto del vertice, si collocavano i gabelloti. Impegnati, come abbiamo appena visto, in operazioni di intermediazione parassitaria, con pretese imprenditoriali. In concreto avevano il monopolio delle risorse agricole del territorio; la loro arrogante gestione dei subaffitti e di concessioni produceva una stentata sopravvivenza alle famiglie contadine. Non di rado erano ricattatori, usurai. Per dirla tutta: sfruttatori dei poveri e dei bisognosi. Il cardine dell’egemonia di classe della grande proprietà. Conseguentemente la loro appartenenza alla mafia era inevitabile: partecipando direttamente alle attività criminali delle cosche o contigui e protetti ( in questi ultimi casi ‘amico degli amici’). I gabelloti, con l’aiuto dei sovrastanti e campieri facevano fronte comune con i proprietari per sfruttare i contadini. In caso di trasgressori intervenivano prontamente con ‘consigli amichevoli’, intimidazioni o, nei casi più gravi, con l’esecuzione di sentenze di morte, con la lupara (non a caso arma simbolo del potere mafioso). Alla base dell’indicata piramide una vasta area del lavoro contadino che comprendeva piccoli e medi subaffittuari (indicati come gabelloti ma più spesso definiti ‘burgisi’), coloni o impropri mezzadri con altre figure di contadini poveri. Il peso di questa piramide, già gravoso per le figure poste alla sua base, diventava schiacciante per gli addetti al lavoro salariato, semplici braccianti, impiegati discontinuamente nei lavori stagionali detti jurnatari (giornalieri). In alcune zone delle province di Agrigento, Caltanissetta e Palermo al sistema del latifondo si sostituiva quello delle miniere di zolfo che generosamente definivano industriale. Si trattava di un’altra parte del sistema simile alla prima. Anche quello della zolfara aveva un assetto gerarchico: un’altra piramide. Al suo vertice, generalmente la proprietà non coincideva con il sistema d’impresa che provvedeva allo sfruttamento economico della miniera: s’imponeva il “gabelloto di zolfara”, una figura di affittuario che deteneva in ‘gabella’ il giacimento insieme all’intero latifondo in cui era situato. Alle condizioni e taglie di questo gabelloto si sottoponevano i singoli industriali o le società concessionarie. Al di sotto del vertice, il lavoro di zolfara: il compito di estrarre lo zolfo era affidato a specialisti i “picconieri”, pagati a cottimo; ognuno dei quali si dotava sia degli strumenti di lavoro, sia del personale per il lavoro di scavo e per trasportare il minerale, che usciva dalle viscere della terra. Era, in fondo, un operaio specializzato e un datore di lavoro per i suoi garzoni e aiutanti. Questi imponeva uno sfruttamento brutale: gli aiutanti erano adolescenti; quei “carusi” che reclutava ottenendoli in affidamento dai rispettivi genitori in cambio di denaro, il cosiddetto “soccorso morto”. Era molto simile all’acquisto di uno schiavo. Al caruso era difficile conquistare la libertà, avrebbe dovuto restituire al picconiere l’intera somma, con gli interessi maturati, che questi aveva versato ai genitori all’atto del reclutamento. Il suo lavoro, tra l’altro, non veniva remunerato con regolari salari, ancorché miserabili, ma con singoli acconti, quasi sempre in natura, chiamati spesa, consistente in farina di grano, olio e spesso in solo pane. L’età dei carusi nella provincia di Agrigento variava da 10 ai 20 anni; a Palma Montechiaro, Aragona, Casteltermini, i bambini erano utilizzati a partire dai sette anni; a Cianciana, dai 6 anni. La difficoltà da superare per il riscatto era dimostrato dal fatto che frequentemente si dava il caso di carusi cinquantenni. L’istituzionalizzazione della mafia I signori e i parassiti della società del latifondo si erano abituati a considerare la polizia, l’esercito e le istituzioni dello Stato al servizio di quei signori, autorevoli per nascita o emergenti per affarismo, esponenti di interessi e privilegi che si definivano “onorata società”. Intanto si stava sviluppando, con reciproco interesse, una dinamica che offriva alla Sicilia politica un’autonomia di poteri e allo Stato una sovranità formale. Lo Stato si manteneva al disopra delle parti, osservatore e guida neutrale. Quando era il caso la forza pubblica entrava in azione senza attendere ordini dall’alto. In realtà quando si sprigionava una “casuale” violenza dello Stato era in realtà funzionale e organica alle istanze della società mafiosa. Due eccidi sono la riprova di quanto affermato. Quello di Castelluzzo, una borgata del Trapanese, del 13 settembre 1904, contro una manifestazione di una cooperativa che aspirava a conquistare un latifondo scavalcando l’intermediazione dei gabelloti: due morti e otto feriti; l’altra avvenne il 15 agosto 1905 a Grammichele, in provincia di Catania, quando un bracciante, a chiusura di una iniziativa della locale Camera del Lavoro, prese la parola accusando i civili e i cappeddi non solo di non far lavorare ma di impedire di condurre in campagna i loro asini per non danneggiare i loro vigneti e i loro giardini, costringendo a portare sulle spalle gli arnesi di lavoro e le bisacce: diciotto morti e duecento feriti. Il sistema del latifondo, mediante le elezioni, provvedeva a collocare il personale politico oltre che nel Parlamento nelle amministrazioni comunali affidate ai “galantuomini” locali (che erano appunto i cappeddi e i baroni, i gabelloti, gli usurai, i notai e gli esercenti delle diverse professioni liberali). Un quadro sociale che accomunava tutta l’isola, anche se aveva le sue espressioni più organiche nelle tre province mafiose della parte centro-occidentale. La istituzionalizzazione della mafia era la conseguenza che, in età giolittiana (è di quel periodo che stiamo riferendo), il rapporto tra mafia e Stato aveva superato la “trattativa” tra le due parti, che pure aveva imperato in precedenza. Ora lo Stato era quasi inesistente, aveva rinunciato al controllo del territorio, abbandonando la Sicilia al dominio delle sue forze privilegiate. La mafia, per suo conto, stava occupando l’intero sistema sociale, con un ferreo controllo sulla politica: sul livello nazionale agiva direttamente attraverso i deputati che faceva eleggere; sul livello locale attraverso i notabili che detenevano le principali cariche amministrative nei Comuni. Si tenga presente che la vita amministrativa comunale era il cuore di numerosi e rilevanti interessi: dalla gestione del regime fiscale, alla nomina dei gabelloti delle terre di proprietà comunale, dalla creazione e assegnazione di posti di lavoro negli uffici, alle decisioni da assumere per i lavori pubblici e i relativi appalti, dall’organizzazione delle scuole e dei presidi sanitari, all’assistenza agli indigenti e alla pratiche di vario genere per l’elargizione di una miriade di concessioni, favori, piccoli e grandi privilegi. In un contesto del genere, l’illegalità era la norma e la legalità l’eccezione. L’Archivio Centrale di Stato (ACS) offre un ricco campionario di nefandezze. Il professore Marino ne ha raccolte alcune che riprendiamo, a costo di appesantire il lavoro, perché sono particolarmente illuminanti del livello di perversione raggiunto dal potere criminale. . Scegliendo a caso un qualsiasi Comune della profonda Sicilia, immancabilmente, si rileverebbe una nomenclatura di mafiosi ai vertici dell’amministrazione. Laddove, per eccezionali circostanze qualche forza popolare fosse riuscita a conquistare il Municipio, si sarebbe prontamente scontrata con la dura reazione dell’ambiente notabiliare mafioso. Esemplare il caso di Castelbuono, sulle Madonie, descritto con oggettività di giudizio dal regio Commissario Oreste Eller Vainicher: aveva però evidenziato un solo difetto: . E fu distrutta. (ACS, Comuni, b.727). Così si svolgeva la cosiddetta ‘lotta politica’ nella profonda Sicilia, ai tempi di Giolitti. Non c’è quindi da stupirsi se nei cittadini onesti albergava una generalizzata sfiducia nei confronti dello Stato. . In quei borghi e paesi era un’abitudine chiedersi ogni mattina chi era morto ammazzato nella notte. Poteva anche darsi il caso, come accadde a Cianciana, che uno tra i tanti, quell’oscuro ‘picciotto’ Leonardo Marino colpito a un braccio da una pallottola di lupara, dovesse perdere la vita perché il medico condotto, affiliato ad una cosca mafiosa concorrente, ce l’aveva messa tutta per fare degenerare una modesta ferita in una cancrena mortale. La scoperta dell’America Dice Marino che non vi è dubbio che la mafia trasmigrò dalla Sicilia all’America sugli stessi piroscafi che trasportavano gli emigranti siciliani. Sparsisi negli States, si sarebbero, poi, aggregati nei ghetti (il più famoso fu l’insediamento a New York, precisamente a Brooklyn, Bruccolino per i siciliani). Il processo di trasferimento cominciato nella seconda metà del secolo XIX, avrebbe raggiunto la sua tra gli anni venti e trenta del secolo XX. Fu quella fase in cui si verificò una forte accelerazione del movimento emigratorio. La stragrande maggioranza dei viaggiatori siciliani si diresse negli Stati Uniti. Lì trovarono colonie di corregionali insediatisi a partire dagli anni Settanta. E’ bene sapere che quelle comunità erano le stesse che avevano accolto con tutti gli onori il deputato mafioso Raffele Palizzolo, dopo il processo Notarbartolo. Erano comunità che avevano affrontato il peso di un ambiente particolarmente ostile e anche momenti di vera tragedia come il massacro del 1890 a New Orléans, a cui accenneremo perché fu il momento critico in cui si svelarono le feroci avversioni xenofobe degli americani e in cui la mafia siciliana si presentò in tutta la sua sfacciata nudità. Il conflitto d’interessi tra due gruppi siciliani (i Matranga e i Provenzano) che si contendevano il controllo del porto con la misteriosa complicità della polizia, era sfociato nell’uccisione di Mr. Hennessey, il capo della polizia cittadina. Una folla di oltre mille persone aveva letteralmente tratto dal carcere, nel quale erano reclusi, undici italiani, scelti a caso, e li aveva selvaggiamente massacrati. Era un incredibile atto di giustizia sommaria in risposta alla sentenza del tribunale che aveva mandato assolti (alcuni per insufficienza di prove, altri per non aver commesso il fatto) sei componenti del clan Matranga, accusati di essere gli assassini. La mafia, era di fatto il suo esordio, si era presentata in tutto il suo spessore criminale: erano venuti fuori i traffici illegali nelle attività portuali e la capacità di coinvolgere, in una fitta rete di corruzione, anche gli americani. Inoltre l’opinione pubblica era stata informata che un’organizzazione mafiosa si era efficacemente impegnata a raccogliere ben 75.000 dollari utili ad assicurare una prestigiosa difesa agli accusati e a corrompere una parte dei giudici. Si scoprivano i tratti salienti del suo illecito impegno: l’organizzazione in clan guidati da ‘padrini’, la caparbia iniziativa a reclutare un po’ tutti gli emigranti italiani, lo sforzo a intridere con la corruzione la società del potere e del benessere. L’interesse mafioso, poi, per i porti si spiegava con il contrabbando ma anche con il traffico dell’emigrazione, quest’ultimo uno dei canali dell’espansione in America del potere mafioso. Funzionava l’organizzazione criminale da ‘agenzia’ per l’ingresso e il dislocamento negli Usa di poveri derelitti che tentavano la fortuna. Quello che però preme sottolineare: per la prima volta la mafia usciva dai suoi naturali confini pronta, comunque, all’avventura ‘internazionale’, con tutte le novità che questo comportava. In particolare, erano ormai lontani i baroni, i gabelloti del latifondo e quindi il tradizionale affarismo mafioso. Intanto vi erano diverse condizioni ambientali dove le strutture storiche del potere e della società civile erano assolutamente distanti da quelle proprie della Sicilia. Inoltre la mafia negli Stati Uniti non era un prodotto delle classi sociali dominanti ma l’effetto della violenta reazione espressa da una comunità etnica di emarginati contro il sistema di una società anch’essa violenta, come abbiamo visto, qual’era quella americana. La mafia americana, quindi, realizzava i suoi affari nelle città. La sua aspirazione avrebbe avuto spazio soltanto instaurando, nella sconfinata società urbana, un ‘regno’ dei siciliani egemone su tutti gli italiani, con un suo ‘ordine’ (i ‘padrini’, i capi delle ‘famiglie’) e con una sua economia da sviluppare tra attività legali (artigianato, commercio, ristorazione, trasporti e servizi vari) e le ricche attività illegali (contrabbando, prostituzione, gioco d’azzardo ecc.). Vi erano anche esigenze di relazioni, accordi, patti, alleanze con le autorità ufficiali dello Stato americano e delle sue amministrazioni. La mafia, negli States, era presa nella morsa delle nostalgiche tradizioni parassitarie e le nuove opportunità offerte da una società ricca ma con i suoi inconfondibili valori (i dollari, il conto in banca). In tali condizioni un precario equilibrio lo trovò mantenendo un rapporto con l’isola, sicché i mafiosi della ‘famiglia americana’ sarebbero diventati ‘cugini’ dei mafiosi delle cosche siciliane. Non a caso le cerimonie d’iniziazione degli adepti sarebbero state in America simili a quelle in uso in Sicilia. I criminali siciliani, man mano che si adattavano alla realtà americana, passavano dall’affarismo parassitario all’”industria della protezione”, perfezionata nel primo decennio del Novecento, accompagnando al business dell’emigrazione clandestina e del contrabbando, nella cosiddetta “Mano nera”, l’imposizione del ‘pizzo’, attività radicata soprattutto a New York. Nella lotta promossa dalla polizia con la Mano nera, vi fu l’iniziativa del responsabile della polizia di New York di dare vita a una task force segreta. Il comando fu affidato al tenente Joe Petrosino, emigrato con i suoi genitori da Padula, paesino della Campania. Per colpire seriamente e in profondità la criminalità mafiosa newyorkese l’oriundo italiano capì che aveva bisogno di informazioni. Si rese conto, però, che la polizia italiana era reticente e inaffidabile e forse anche legata al personale corrotto della stessa polizia americana. Decise, quindi, di recarsi personalmente a Palermo per risalire alla testa della piovra. In quella città, nel lussuoso albergo che lo ospitava si fece registrare con un falso nome (Simone Guglielmo). Si tenne lontano dalle autorità italiane trovò disponibili informatori: ‘coppole storte’, ‘picciotti’, ma anche boss di primo piano. Forse lo stesso capo della mafia don Vito Cascio Ferro, che aveva vissuto negli Usa, tra New York e New Orleans, dal 1901 al 1904. Si illuse di poter tornare in America con in mano decisive, importanti informazioni. Non fu così, la sera del 12 marzo sulla scalinata che conduceva all’albergo fu assassinato. I sospetti caddero su Cascio Ferro, ma questi fu protetto dal mafioso onorevole De Michele Ferrantelli che dichiarò che, al momento del delitto, il sospettato si trovava a casa sua, a settanta chilometri da Palermo. Dopo la sua morte, la mafia sempre più americanizzò la lezione della madrepatria siciliana. A quei tempi, intanto, stava crescendo un boy fin troppo sveglio quel Lucky Luciano, proveniente da Lercara Freddi, in provincia di Palermo. La sconfitta dell’antimafia Per quello che abbiamo finora riferito non può di certo sorgere il dubbio che la mafiosità era il carattere dominante dei ceti dirigenti, questo però non autorizza a pensare che l’intera società siciliana era mafiosa. L’area dei grandi poteri era continuamente affollata dagli strati popolari e plebei dai quali emergevano le nuove generazioni della borghesia mafiosa. La maggioranza del popolo conosceva la mafia in quanto ne subiva le costrizioni. La classe dirigente si era conquistata una ufficiosa autonomia istituzionale perché lo Stato, per l’intero periodo giolittiano, aveva scelto di rimanere estranea agli intrighi dell’isola. Questa situazione creò spazi alla rinascita del movimento popolare contro la mafia, sollecitata dall’iniziativa dei socialisti di campagna e di quella dei cattolici guidati dal giovane don Luigi Sturzo. I socialisti avevano dato vita al movimento delle Leghe di resistenza e delle Società di mutuo soccorso. Sperimentavano il confronto pacifico con la borghesia produttiva, utilizzando lo strumento delle Camere del Lavoro. L’obiettivo dei socialisti era il ‘latifondo’: sostenere le rivendicazioni salariali dei braccianti, aiutare la grande massa dei contadini poveri – i cosiddetti burgisi – a liberarsi dalle intermediazioni parassitarie. Ma la sola arma dello sciopero non era sufficiente. C’era bisogno di una formula organizzativa per realizzare un diretto rapporto tra proprietari e contadini poveri. Fu inventata da Bernardino Verro e da Cammareri Scurti con le ‘cooperative di lavoro’ adattandole alle esigenze del latifondo siciliano. Nacque l’”Affittanza collettiva”, adottata anche dai cattolici. Si trattava, in sostanza, di organizzare una cooperativa di contadini che assumeva collettivamente una o più porzioni di terra, uno o più latifondi, impegnandosi a pagare il canone direttamente al proprietario senza l’intermediazione del gabelloto. I cattolici poi a questo assetto avrebbero affiancato forme di cooperative creditizie e di consumo. Si crearono così nella profonda Sicilia processi associativi in determinate aree: l’area interna della provincia di Palermo, l’area trapanese-ericina, l’agrigentina, quella della Sicilia orientale dove si era affermata la guida cattolica di don Luigi Sturzo. Si trattava, lo si capisce bene, di un’azione complessa, difficile, atta a disgregare l’alleanza latifondisti-gabelloti. Gli avversari non si fecero disarmare. Si dava il caso che laddove un latifondo fosse conteso tra una Lega contadina e un gabelloto mafioso, il capolega era prima avvicinato e ‘consigliato di desistere’, in caso di mancato ravvedimento, prima minacciato e, infine, se necessario soppresso. A parte quanto riuscirono a realizzare i socialisti Verro e Panepinto, le richieste di terra, da parte delle cooperative, venivano tollerate solo se compatibili con le esigenze dell’ ‘ordine’ mafioso. La conseguenza naturale fu l’oggettiva subalternità delle affittanze collettive al sistema del latifondo dominato dai gabelloti. Si aggiunga che se la mafia poteva tollerare la sperimentazione del riformismo agrario sul terreno economico, mai avrebbe accettato il tentativo che gli avversari occupassero posizioni politiche o amministrative di rilievo nei paesi dove dominava il latifondo. Infatti, Lorenzo Panepinto che s’impegnò con successo nelle lotte politiche municipali fu assassinato a Santo Stefano il 16 maggio 1911. Non miglior sorte ebbe il coraggio dimostrato da Bernardino Verro. Conquistato, seppure di stretta misura, il Comune di Corleone, in collaborazione con i cattolici, fu oggetto di una violenta campagna diffamatoria per isolarlo, a cui partecipò la parte più conservatrice del clero locale. La stessa Giunta, guidata da un cattolico, subì la delegittimazione delle cosche mafiose e la paralisi, provocata dalle manovre dei liberali, del Comune fino al suo scioglimento. Il 6 novembre, giorno delle nuove elezioni amministrative, il Verro subì un attentato che non andò a segno per un errore di mira dei sicari. La mafia, tuttavia, si dedicò alla demolizione della sua immagine pubblica approfittando delle irregolarità contabili delle cooperative socialiste nei confronti del Banco di Sicilia. Ne uscì indenne tanto che il 28 giugno 1914 fu eletto sindaco del suo paese. A pochi mesi dalla sua elezione, il 3 novembre, il sindaco di Corleone fu colto di sorpresa da due killer mentre stava rincasando. La polizia arrestò tredici persone sospettate di aver organizzato l’assassinio, Furono individuate, con prove, le responsabilità mafiose. Nel corso del processo, nell’autunno 1917, il lavoro degli inquirenti fu sorprendentemente smentito. Le cosche ottennero il loro successo. Da quel momento nessuno a Corleone avrebbe trovato il coraggio di denunciare l’esistenza di soggetti criminali.
Posted on: Wed, 02 Oct 2013 19:05:57 +0000

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