LECTIO DIVINA Il Libro dei Proverbi > Capitolo III (Parte I) 1 - TopicsExpress



          

LECTIO DIVINA Il Libro dei Proverbi > Capitolo III (Parte I) 1 Figlio mio, non dimenticare il mio insegnamentoe il tuo cuore custodisca i miei precetti, 2 perché lunghi giorni e anni di vita e pace ti porteranno. 3 Bontà e fedeltà non ti abbandonino; lègale intorno al tuo collo, scrivile sulla tavola del tuo cuore, 4 e otterrai favore e buon successo agli occhi di Dio e degli uomini. 5 Confida nel Signore con tutto il cuore e non appoggiarti sulla tua intelligenza; 6 in tutti i tuoi passi pensa a lui ed egli appianerà i tuoi sentieri. 7 Non credere di essere saggio, temi il Signore e sta’ lontano dal male. 8 Salute sarà per il tuo corpo e un refrigerio per le tue ossa. 9 Onora il Signore con i tuoi averi e con le primizie di tutti i tuoi raccolti; 10 i tuoi granai si riempiranno di grano e i tuoi tini traboccheranno di mosto. 11 Figlio mio, non disprezzare l’istruzione del Signoree non aver a noia la sua esortazione, 12 perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto. Il capitolo terzo del libro dei Proverbi si apre con una esortazione: “Figlio mio, non dimenticare il mio insegnamento” (v. 1). Tale esortazione si colloca in una significativa sequenza: “Ascolta, figlio mio, l’istruzione di tuo padre” (1,8), “Figlio mio, se tu accoglierai le mie parole” (2,1), e infine “Figlio mio, non dimenticare il mio insegnamento” (3,1). L’esortazione iniziale è di semplice invito all’ascolto, la seconda fa appello alla libertà personale, il terzo appello allude alla memoria. Questa sequenza esprime il cammino di approfondimento della sapienza: non basta l’ascolto se non si passa ad una opzione libera da cui dipende l’effettivo schieramento dell’uomo, e infine la terza fase è la conservazione nella memoria ciò che si è liberamente scelto. Infatti, ciò che si è ascoltato non diventa nostro se non si sceglie; ma dopo averlo scelto, bisogna vigilare perché non subentri quel naturale decadimento che inevitabilmente attacca qualunque nostra ricchezza morale non sufficientemente custodita. Non possiamo non ricordare a questo proposito il testo di Apocalisse 2,3-5: “Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti che hai dimenticato il tuo amore di prima. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima”. Il richiamo alla memoria del v. 5 di Ap 2, si trova in una linea di continuità con il richiamo alla memoria contenuto nella terza esortazione dei Proverbi. L’idea di fondo è che esiste la possibilità di uno spontaneo decadimento così che, a poco a poco, con il tempo che trascorre, e con una certa leggerezza che può subentrare nel groviglio degli impegni e delle urgenze quotidiane, si sbiadisca quello che noi all’inizio abbiamo accolto con entusiasmo, e quello che a noi si è presentato all’inizio come un valore degno di essere scelto. Questo primo versetto, che contiene l’esortazione a non dimenticare, nella sua seconda parte utilizza nello stesso senso molto pregnante il verbo “custodire”. Al v. 2 va notata la conseguenza di questa custodia: “perché lunghi giorni e anni di vita e pace ti porteranno”. La custodia dei doni di grazia depositati dentro di noi, non garantisce all’uomo un beneficio qualunque; ubbidire a Dio, o trasgredire la sua volontà, è una questione di vita o di morte. Chi custodisce l’insegnamento del Signore, e non se lo lascia rubare da Satana che tenta continuamente di svalutare e di offuscare dentro di noi il valore della santità, vive una vita profondamente pacificata. I lunghi giorni e gli anni di vita promessi a chi custodisce l’insegnamento del Signore, in primo luogo si riferiscono alla vita definitiva, a quella vita incorruttibile della grazia che nessuno può rubarci, ma si riferiscono anche a una esperienza terrena veramente felice, perché totalmente armonizzata nel corpo e nello spirito. Infatti, anche i giorni che trascorriamo su questa terra acquistano una particolare pienezza, quando Dio regna nel nostro cuore. Il v. 2, da questo punto di vista, è inseparabilmente connesso al v. 8: “Salute sarà per il tuo corpo e un refrigerio per le tue ossa”. L’ubbidienza a Dio non ha come unica conseguenza la salvezza dell’anima, cosa certo più importante di ogni altra, ma non l’unica: l’ubbidienza alla volontà di Dio si presenta anche come un cammino di guarigione, dove la persona umana recupera gli equilibri più profondi del proprio io, superando i disordini del peccato. Anche la vita fisica acquista un gusto, una pienezza, una energia che non dipende solo dall’alimentazione o dal salutare riposo. Sappiamo bene, infatti, che quando è malato lo spirito e quando dentro di noi non regna Dio, anche il corpo perde i suoi equilibri fisici e psichici, e si ammala; oppure rimane sano ma debilitato nelle sue energie migliori. Quando, al contrario, il nostro spirito si riempie di luce, la vita quotidiana si illumina altrettanto, e si guarisce da quella malattia che si ha anche quando si scoppia di salute: l’incapacità di vivere bene. Nella sottomissione alla volontà di Dio non si recuperano solo le energie vitali, insieme al gusto di vivere, ma anche la pace interiore. La parola “pace”, termine pregnante del linguaggio biblico, esprime non tanto l’assenza di conflitti, ma il recupero di tutti gli equilibri profondi dell’io, che si ha nella riconciliazione piena e nell’ubbidienza alla volontà di Dio. Al v. 3, l’autore indica uno stile che si caratterizza nella scelta della bontà e della fedeltà. Si tratta di due virtù che vanno poste intorno al collo: “Bontà e fedeltà non ti abbandonino, legale intorno al tuo collo”. Questa immagine esprime contemporaneamente due cose. Il collo è il luogo dove si pongono gli ornamenti; infatti, la bontà e la fedeltà rappresentano un tocco che abbellisce la persona e le dà un tratto di signorilità. Ma, al tempo stesso, il collo è anche il luogo dove si pone il giogo, e dove ci si assume il peso del lavoro e della responsabilità. Servire Dio, da questo punto di vista, equivale a sperimentare entrambe le realtà. Accogliere l’insegnamento del Signore equivale quindi a porre su di sé un giogo, e a diventare nemici di se stessi in quelle parti del proprio cuore che ci spingono verso direzioni diverse, ma, al tempo stesso, questo giogo che noi accogliamo, è la nostra vera bellezza, la signorilità che ci configura come figli del gran Re. Non saranno gli ornamenti esteriori quelli che conferiscono al cristiano un fascino o una particolare grazia; il cristiano è lui stesso che emana da sé una bellezza, la quale dall’interno traluce verso l’esterno. Si replica nel battezzato lo stesso mistero del Cristo trasfigurato; quella luce interiore che abita dentro di noi, attraverso il velo della carne si lascia intuire e inonda di bellezza le nostre persone anche esteriormente (cfr. 1 Pt 3,3-4). La parte finale del v. 3: “scrivile sulla tavola del tuo cuore”, richiama da vicino il v. 1: “non dimenticare il mio insegnamento”. In particolare, la fine del v. 3 specifica di quale memoria il v. 1 voglia parlare. C’è infatti una memoria cerebrale, dove noi custodiamo i dati dell’erudizione e della cultura, i dati derivanti dall’esperienza, ma c’è anche una memoria del cuore, dove si conserva qualcosa che prima è stato vagliato e giudicato fondamentale per la vita. Nella memoria del cuore si conservano soltanto le cose che valgono per vivere bene, mentre nella memoria cerebrale si conserva tutto ciò che arriva a noi come semplice dato conoscitivo. “E otterrai favore e buon successo agli occhi di Dio e degli uomini” (v. 4). La prima parte di questo versetto esprime una verità genuinamente cristiana, anche se qui proviene dalle profondità dell’AT. I cristiani sconoscono il sentimento del fallimento e il senso dell’inutilità. Nel momento in cui si consegna la vita al Signore, e si decide di camminare con Lui, tutti i giorni sono giorni di vittoria, anche quelli che al giudizio umano non sembrano tali: “E otterrai favore e buon successo”. Non sono dette invano queste parole. Chi si cala dentro l’esperienza del discepolato, e si sottomette alla Parola di Dio, si accorge che questo versetto è profondamente vero. Il fallimento e le strade chiuse non esistono più. Non perché siamo andati incontro al vicolo cieco, dinanzi a noi alcune strade si sono chiuse; se ciò avviene è perché quelle strade non sono previste da Dio. La chiusura di alcune strade diventa perfino luce di discernimento, è il segnale che non è da lì che dobbiamo passare; il Signore aprirà altri sentieri al tempo opportuno, quelli previsti per il nostro itinerario pensato da Lui. Per chi cammina con il Signore non esiste più né il fallimento né la sconfitta; il Signore, nella sua onnipotenza, può fare tutto ma non può mai perdere, né mai essere sconfitto, e i suoi servi con Lui. Chi si coinvolge nel suo meraviglioso disegno, partecipa della sua infinita vittoria, anche se non indipendentemente dal mistero della croce. La vittoria di Cristo passa necessariamente attraverso l’esperienza della croce e del mistero pasquale. Ma occorre saper guardare aldilà delle apparenti sconfitte: o Dio non voleva quei tentativi falliti, e in questo caso è meglio che non siano andati in porto; oppure il fallimento è stato causato dall’intreccio delle libere volontà umane, che non si sono piegate nell’ubbidienza a Dio. In entrambi i casi, il cristiano che ha ubbidito allo Spirito, ha vinto comunque. Sono quelli che hanno tentato di ostacolarlo, e magari ci sono riusciti in parte, sono loro che hanno perso, se lui stava ubbidendo autenticamente alla volontà di Dio. In cielo, davanti a Dio, sono infatti tutte vittorie, e le ritroveremo in eterno, quando ci presenteremo davanti a Lui. Anche l’Apostolo Paolo, nel libro degli Atti, viene descritto nella medesima attitudine: insieme ai suoi collaboratori pensa di recarsi in Bitinia, per annunciare il vangelo, ma “lo Spirito di Gesù non lo permise loro” (At 16,7). Le strade che si aprono davanti a noi è il Signore che le apre, e quelle che si chiudono è il Signore che le chiude. Da questo noi conosciamo la sua volontà e ci orientiamo bene, perché le strade che si aprono sono quelle che dovremo percorrere. Occorre spostare l’asse di interesse e il criterio del giudizio dalla propria sensibilità al puro volere di Dio. La nostra sensibilità ci inganna e ci fa credere che alcune cose siano buone, mentre in realtà Dio non le giudica tali; ci fa credere che talune cose dovremmo ottenerle, in quanto ci appaiono migliori di altre, oppure ci fa credere che alcune cose ci spettano, perché proporzionate al nostro merito, e dunque dovrebbero esserci date. Tutto questo ventaglio di inganni porta talvolta al senso del fallimento, quando il Signore, nel suo misterioso amore, ci impedisce di conseguire quei beni che noi giudichiamo tali, sbagliandoci, e di cui ci pentiremmo amaramente, se davvero ci accadesse di conseguirli. Ma intanto che non li conseguiamo, ci sentiamo dimenticati da Dio. Colui che cammina nel puro volere di Dio non giudica più le cose con la propria sensibilità, e perciò non fallisce più, non conosce l’esperienza della tristezza e dell’inutilità, perchè le strade che si aprono e quelle che si chiudono sono ritmate sul tempo di grazia e sul puro volere di Dio. E noi, che ci poniamo al suo servizio, siamo contenti di percorrere le strade che Dio ci apre, e siamo contenti di rinunciare a quelle che Lui ci chiude. Il v. 6 sembra inequivocabile da questo punto di vista: “in tutti i tuoi passi pensa a lui ed egli appianerà i tuoi sentieri”. Non è un problema di saperci fare, è il Signore che appiana i sentieri su cui noi camminiamo, e così come ne appiana alcuni, altri li ostruisce. Chi cammina nel puro volere di Dio, non conosce più l’esperienza pagana del fallimento e della tristezza, ma gioisce sempre in ciò che piace a Dio. Per questa ragione, il suo spirito si innalza al di sopra delle meschinità che la nostra sensibilità ci fa apparire come cose importanti e gravi. La nostra sensibilità, però, non è un maestro, non è una bandiera sotto cui combattere, non è un principio di verità; è invece quell’io umano che, nell’insegnamento del Maestro, siamo invitati a rinnegare per essere felici. Il testo tributa una particolare osservazione ai contenuti abituali dei nostri pensieri: “non appoggiarti sulla tua intelligenza; in tutti i tuoi passi pensa a lui” (vv. 5-6). Questi due versetti richiamano il lettore a interrogarsi sui contenuti abituali dei nostri pensieri, che formano, per così dire, l’atmosfera interiore della nostra personalità. Il lettore è invitato a chiedersi quali siano gli accenti ricorrenti del nostro pensiero quotidiano, quanto spazio rimane a Dio per abitarvi, e quanto spazio diamo invece alle cose che vengono dal basso, al nutrimento mentale dei cibi che germogliano dalla terra. Il Signore potrebbe non trovare spazio in una mente intasata da pensieri quotidiani, in parte importanti, in parte banali, in parte negativi, ma sempre umani. Il Signore ha bisogno di farsi spazio nell’animo della persona, non sfondando la porta come un aggressore, ma come l’ospite, l’amico, che viene accolto liberamente dentro i processi del nostro pensiero e della nostra affettività. E’ molto importante guarire, depurare, compiere insomma un atto di bonifica nei nostri pensieri. Abbiamo infatti bisogno di una continua guarigione interiore. Così come dobbiamo lavorare sul nostro cuore per non avere attaccamenti a Dio non graditi, o affetti strani e disordinati, dobbiamo anche lavorare altrettanto sui nostri pensieri per disciplinarli. Il v. 6 collega la presenza di Dio nel pensiero dell’uomo con l’apertura di sentieri appianati. La Bibbia considera una sventura per l’uomo affrontare la vita senza il sostegno di Dio. Il Signore appiana davanti a noi i nostri sentieri, ma è necessario che la mente rimanga libera, pura, nella quiete della sua presenza. Quando la mente è libera e pura, acquista anche la virtù dell’umiltà: “non appoggiarti sulla tua intelligenza”. L’eccessiva fiducia nei propri pensieri, nelle proprie deduzioni, nei propri convincimenti, è orgoglio, ed è anche il segnale di una mente che non ha la verginità del discepolato, o che l’ha perduta. “Confida nel Signore con tutto il cuore e non appoggiarti sulla tua intelligenza” (v. 5), è un invito a incamminarsi verso la verginità della mente, compiendo un’opera di bonifica dei pensieri, lasciando a Dio lo spazio che gli è dovuto per dimorare in noi. L’espressione: “In tutti i tuoi passi” (v. 6), allude anche a un’altra verità: non c’è nessun ambito della nostra vita nel quale possiamo ritenere di esser autonomi e non bisognosi della vigilanza e della protezione di Dio. In tutti gli ambiti, piccoli e grandi della vita del cristiano, la preghiera, l’invocazione, la coscienza di avere bisogno della mano di Dio che ci sostenga, permea la vita cristiana in tutte le sue manifestazioni, dalle più piccole alle più importanti. E’ un errore ritenere che nelle piccole cose possiamo cavarcela da soli. I suggerimenti dello Spirito sono necessari in tutti i nostri movimenti quotidiani. La prima parte del v. 6 si collega con quello precedente: “Confida nel Signore con tutto il cuore e non appoggiarti sulla tua intelligenza” (v. 5). L’idea di confidare nel Signore con tutto il cuore, si collega infatti alla medesima parola riportata al v. 6 al plurale: “In tutti i tuoi passi”. Occorre perciò aprire uno spazio alla presenza di Dio, non soltanto in tutte le opere ma anche in tutti gli aspetti della interiorità.Dai versetti 5 e 7 possiamo dedurre anche un certo criterio di discernimento. Secondo la Bibbia noi dobbiamo temere tutte le volte che nelle cose umane siamo eccessivamente convinti di avere ragione, convinti di un giudizio, di un pensiero, e di una valutazione, a cui siamo portati a dare un valore assoluto di verità. Questo criterio lo possiamo ricavare dalle seguenti parole chiave: “non appoggiarti sulla tua intelligenza… Non credere di essere saggio” (vv. 5.7). Si tratta di due proibizioni. Ciò significa che la nostra tendenza a valutare le cose, il mondo, le circostanze, esprimendo dei giudizi e ponendo delle etichette sulle cose, sulle situazioni, e talvolta anche sulle persone, deve essere un’attività considerata da noi con un largo margine di errore. La persona si trova già in bilico verso la menzogna, tutte le volte che attribuisce ai suoi pensieri un valore sicuro di verità. Se non c’è un margine di incertezza, e di possibilità di errore, lasciato nel proprio pensiero ad ogni valutazione, con la disponibilità al confronto umile, si rischia di scivolare verso la menzogna. Succede così a Pietro nel racconto della Passione. Durante l’ultima cena c’è un grande segnale, che è il preludio della caduta di Pietro nel suo rinnegamento: la sua eccessiva sicurezza di poter rimanere fedele al suo Maestro fino alla morte. Pietro resiste alla profezia di Cristo che gli dice: “Questa notte stessa, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte” (Mt 26,34). Questa eccessiva sicurezza è già il segnale che Pietro è caduto nella trappola del maligno, una trappola che si manifesterà in tutta la sua potenza, quando Pietro rinnegherà il suo Maestro davanti alla portinaia che lo riconosce come uno dei Dodici. Siamo dunque esortati dalla Parola di Dio ad analizzare con attenzione i nostri pensieri, perché tutte le volte che nella nostra mente si affaccerà un’idea eccessivamente persuasiva, quasi da essere più vera della verità, un’idea che conquista e possiede la nostra mente, allora quasi certamente siamo caduti, o stiamo per cadere, in qualche inganno del maligno. Il nostro pensiero deve mantenere un margine ragionevole di errore, e di non conoscenza, perché la nostra conoscenza del mondo e delle cose è necessariamente parziale. Solo Cristo vede tutto ciò che bisogna vedere, per pronunciare un giudizio senza errore. Nella seconda parte del v. 7 è contenuta una indicazione di grande importanza: ”temi il Signore e sta lontano dal male”. Occorre notare i due verbi. L’autore non dice che noi dobbiamo temere il male. Per noi, il male, il peccato, e la persona stessa di Satana, non è oggetto di paura. E’ Dio che va temuto, non con un timore servile, ma con un sentimento di fiduciosa venerazione. La prima lettera di Giovanni afferma che “chi teme non è perfetto nell’amore” (1Gv 4,18). In realtà c’è un timore che si coniuga con la perfezione dell’amore, ed è il timore tipico del figlio, il quale non teme se non di addolorare il cuore del Padre. In questo senso, l’espressione del libro dei Proverbi, viene arricchita dall’esperienza e dalla riflessione teologica del Nuovo Testamento. Il Signore è oggetto del timore filiale; Satana, le sue opere e le sue seduzioni, invece, non costituiscono né devono costituire per noi alcun motivo di timore. Chi vive in grazia ha potere sulle opere delle tenebre e non ne viene danneggiato. Infatti, in riferimento al male, l’autore dei Proverbi utilizza significativamente un’altra espressione verbale: “sta lontano”. Ciò significa che si ingannano coloro i quali ritengono di potere stare a contatto con delle sorgenti di negatività e di corruzione, senza esserne scalfiti. Vi sono delle realtà più grandi di noi, conoscere le quali, produce un’inevitabile perdita di equilibri. “Sta lontano dal male”, significa custodire la propria mente e il proprio cuore non soltanto dalle opere del male, ma anche dalla sua conoscenza. La conoscenza stessa del male è infatti sufficiente a corrompere il cuore. Così, mentre il Signore va temuto con il timore del figlio, il male non va temuto, ma va messo in quarantena, come un pericoloso virus che, se entrasse in circolo nel nostro organismo, certamente ci ucciderebbe. “Salute sarà per il tuo corpo e un refrigerio per le tue ossa” (v. 8). La sottomissione all’insegnamento del Signore, produce una salute piena, nel senso più globale della parola. Questo versetto ci conduce ad affermare una verità confermata dall’esperienza: non è possibile godere della propria salute e delle gioie della vita, anche quelle più esteriori e superficiali, quando il cuore è privo della pienezza e della pace, che solamente il Signore è in grado di darci. Qui non si vuole dire che la nostra salute fisica dipenda dalla nostra fede: sarebbe un collegamento estremista e riduttivo; possiamo però certamente dire che, quando manca la fede, persino la salute non è un bene di cui si possa fruire pienamente, perché la vita umana risulta impoverita dalla non conoscenza del Signore. Avviene allora che vi sono uomini che scoppiano di salute, ma che dentro si portano una tristezza, un vuoto, una mancanza di speranza, sentimenti a causa dei quali anche la salute, pur essendo un bene umano, non è sufficientemente apprezzata né gustata. Al contrario, è possibile a volte avere un corpo malato, o una situazione di vita gravata da diverse oppressioni, e tuttavia sentire dentro di sé una pienezza che riempie di vigore e di gioia. In realtà, la nostra vita fisica risponde, sì, a delle leggi biologiche, ma la qualità del vissuto corporeo è un’esperienza spirituale determinata dalla nostra interiorità, nel senso che la salute potrebbe cessare di essere un bene, quando il cuore non è in pace, e la malattia non sia più un male, quando lo spirito dell’uomo è investito dalla vita vera, che sgorga dal mistero pasquale. Infatti, nel vangelo, Cristo ci invita a prendere il suo giogo, che è leggero e salutare. Questo aggettivo possessivo esprime come il Signore non intenda porre sulle spalle dell’uomo dei pesi o delle sofferenze brute, senza identità; piuttosto, siamo invitati a partecipare ai suoi pesi e alle sue sofferenze. Non è insomma una sofferenza qualunque, quella che noi sopportiamo come cristiani: è la stessa, identica sofferenza di Cristo. Per questo, anche la malattia non è più una minaccia, se lo spirito si è radicato nella sorgente della vita: la malattia non può minacciare colui che ha la sorgente della vita zampillante dentro di sé. Il cristiano è consapevole che la promessa di Gesù alla samaritana è ormai una realtà. La samaritana accoglie da Cristo una promessa, e la crede vera pur senza sperimentarla; noi, invece, riceviamo la sua realizzazione. Il Signore non ci comunica la vita dall’esterno, ma la sorgente della vita scaturisce dentro di noi. Lo Spirito Santo, che abita in noi come in un tempio, in noi vince la morte, perché è la sua forza vitale che ha fatto risorgere Cristo dai morti, e che farà risorgere anche noi nell’ultimo giorno. Per questo, nessuna minaccia esteriore può più mettere il cristiano in uno stato di timore o di sottomissione: egli partecipa ormai alla signoria di Gesù Cristo. Gli ultimi due insegnamenti di questa pericope 3,1-12, riguardano l’onore dato a Dio e l’ascolto del suo insegnamento. L’onore dato a Dio, nelle parole dall’autore del libro dei Proverbi, ha un carattere molto pratico e concreto. Non c’è infatti alcun autentico amore che non abbia delle manifestazioni concrete: “Onora il Signore con i tuoi averi e con le primizie di tutti i tuoi raccolti” (v. 9). L’autore cita due particolari aspetti: i propri averi e le primizie. Queste due definizioni parlano anche alla nostra vita cristiana. Al Signore non si può dare ciò che rimane, ovvero lo scarto della propria dedizione e delle proprie energie; non si può donare a Dio ciò che noi riteniamo inutile o da buttare. L’onore dato a Dio, e l’amore che si manifesta in scelte concrete, consiste invece nel sacrificare a Dio ciò che noi apprezziamo e riteniamo un valore. Il temine “primizie”, intende sottolineare che a Dio occorre offrire delle cose che hanno il carattere della primizia, ovvero del primo frutto, e a cui noi attribuiamo quindi autentico valore. Infatti, il primato di Dio nella nostra vita, può avere una sua verità, solo se siamo capaci di sacrificargli, qualora Egli lo chiedesse, le nostre primizie, ossia ciò a cui noi siamo umanamente legati e che riteniamo importanti. Chi non è capace di compiere questo sacrificio, non può dire di avere posto Dio al vertice dei propri affetti e dei propri pensieri. Proprio questa è la manifestazione concreta, la conferma umana e visibile del primato di Dio. Così Abramo, prima ancora che la legge mosaica comandasse un amore assoluto e superiore ad ogni altro amore nei confronti di Dio, ha saputo sacrificare il proprio figlio (cfr. Gn 22), figura delle cose che quaggiù rivestono la massima importanza; eppure anche queste valgono meno di Dio. Nel vangelo, Cristo chiederà ai suoi discepoli un amore altrettanto totalizzante e assoluto, esigendo di essere amato al di sopra di tutti gli affetti più cari, e perfino al di sopra della propria stessa vita. I cristiani dei primi secoli lo hanno infatti amato così, andando coraggiosamente verso il martirio. Il discepolato, insomma, raggiunge la sua maturità, quando cessano tutte le preoccupazioni relative alla propria persona. Il primato di Cristo è dunque una disposizione liberante. La persona è veramente libera quando non ha più aspettative, quando ha sacrificato a Dio il suo Isacco, camminando nella fiducia che Dio non farà mancare mai ciò che veramente ci serve, ciò che è veramente necessario per il nostro pellegrinaggio terreno. A maggior ragione, avendolo amato sacrificando ciò che per noi è prezioso, la sua generosità non avrà limiti. Il v. 10 presenta la risposta di Dio alla generosità dell’uomo: “i tuoi granai si riempiranno di grano e i tuoi tini si riempiranno di mosto”. Anche nelle cose umane, Dio applica la stessa misura e lo stesso criterio che applica nelle cose spirituali: moltiplica all’infinito quello che noi siamo stati capaci di donargli e di sacrificargli per amore del suo primato. Così accadde ad Abramo: “perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato il tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare” (Gn 22,16-17). Anche la Vergine Maria, rinunciando alla sua maternità su un solo figlio, acquista sotto la croce una maternità che si estende infinitamente nello spazio e nel tempo, su ogni essere umano che è vissuto e che vivrà sulla terra. L’ultima tematica di questa pericope, riguarda Dio come educatore dell’uomo. Questo tema, di grande importanza nella Bibbia, attraversa tutte le sue sezioni, si trova nel Pentateuco, nei libri dei Profeti, nei testi Sapienziali e anche nel Nuovo Testamento. Il testo dei Proverbi esorta a non disprezzare l’istruzione del Signore e a non avere a noia la sua esortazione. In realtà, noi non siamo capaci di regolare noi stessi, e di mantenere la nostra vita nei giusti equilibri, se non è Dio a regolare con i continui suggerimenti del suo Spirito i nostri gesti e i nostri sentimenti. Per comprendere meglio questa verità possiamo individuare tre grandi ambiti in cui il Signore opera verso di noi come educatore. Innanzitutto l’ambito della Parola: “non disprezzare l’istruzione del Signore e non aver a noia la sua esortazione” (v. 11). Dio agisce come educatore attraverso la sua Parola. Non è quindi possibile entrare nell’esperienza autenticamente filiale seguendo un’intuizione generica e soggettiva del bene. L’esperienza filiale si realizza nella sottomissione alla Parola: “il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto” (v. 12). Questo primo grande ambito è il più importante. L’istruzione sapienziale e la conoscenza della Parola descrivono davanti alla mente umana degli scenari di verità che nessuna intuizione della nostra intelligenza potrebbe mai raggiungere. Accogliere la Parola di Dio come regola della nostra vita equivale ad accedere a una sapienza superiore, come un bambino agisce con una sapienza superiore all’età, quando affronta le situazioni difficili secondo i suggerimenti dei genitori. Quindi, l’ambito della Parola rappresenta l’esperienza filiale più profonda, in quanto la stessa sapienza di Dio diventa accessibile alla nostra mente nel linguaggio umano. Ci sono poi altri due ambiti, secondari ma non per questo trascurabili. Il Signore agisce come educatore anche nella tensione di adattamento della persona rispetto alle difficoltà dell’ambiente. Nel capitolo 8 del Deuteronomio, Dio dice a Israele: “Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna… per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,3). Questo significa che le circostanze del cammino del deserto, tutti i banchi di prova che Israele attraversa, sono un’espressione della divina pedagogia, che viene sciupata quando il popolo si ribella, ma acquista il valore di una autentica educazione alla santità, quando le prove della vita quotidiana, e le fatiche del superamento di tutti gli ostacoli ambientali, vengono attraversate con la consapevolezza che non c’è nessun episodio, per quanto piccolo e banale, che non abbia nella mente di Dio una precisa progettazione con uno scopo educativo. Il terzo ambito della divina pedagogia è il vissuto corporeo. Il Signore dice a Geremia: “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo” (Ger 1,5). La parola “formare”, in lingua ebraica è rappresentata da un termine utilizzato ordinariamente per descrivere l’azione del vasaio. Il Signore non si limita a disporre le circostanze ambientali, ma anche il nostro vissuto corporeo. Cristo stesso ha sperimentato nella sua natura umana la pedagogia del Padre, necessaria anche per Lui in quanto uomo: “Imparò l’ubbidienza dalle cose che patì” (Eb 5,8). Questo significa che vi sono alcune virtù che crescono nella relazione con l’ambiente, come accade a Israele nel deserto, e altre che crescono mediante ciò che si patisce su se stessi, come accade personalmente al Cristo storico. Questi due ambiti, sono entrambi diretti dalla sapienza di Dio. Anche la Vergine Maria si dispone a lasciare lavorare Dio nella propria persona. Le parole da Lei pronunciate all’annuncio dell’angelo: “Si faccia di me secondo la tua parola” (Lc 1,38), intendono offrire a Dio il proprio vissuto corporeo, che per Maria si tradurrà in un’esperienza di maternità verginale e, al tempo stesso, di espropriazione dei diritti materni. Benché i tre ambiti in cui agisce la divina pedagogia siano strettamente collegati, l’ambito della Parola come direzione e istruzione sapienziale, ha il primato su ogni altro. Infatti, se la Parola di Dio non ci istruisse quotidianamente, non saremmo in grado di affrontare positivamente né le prove dell’ambiente né i dinamismi del vissuto corporeo. Esso possiede una ricchezza che non va sottovalutata, una ricchezza che però si espone a possibili alterazioni, in assenza dell’ascolto della Parola. Nella Bibbia viene sottolineato a più riprese il fatto che la condizione del nostro corpo influisce sulle nostre virtù e sulla disposizione del nostro spirito. Vi sono delle figure emblematiche che sottolineano questa verità. Una di queste figure è Golia, che sfida boriosamente Davide e tutto l’esercito d’Israele. Questa sfida viene sostenuta dalla percezione corporea della propria imponenza e al tempo stesso dalla figura esile di Davide. Golia è un uomo di alta statura, di grande forza fisica e di grande abilità di combattimento (cfr. 1 Sam 17,4). In questo caso, la percezione del proprio corpo spinge la persona verso la presunzione, verso le diverse manifestazioni della superbia e dello spirito di vendetta. Un altro personaggio biblico significativo è Naaman il Siro, che, pur partendo dall’orgoglio, realizza però un itinerario inverso rispetto a quello di Golia. Naaman è un uomo prode, un generale dell’esercito, un uomo abituato a vincere e a comandare, ma un certo giorno scopre di essere malato (cfr. 2 Re 5,1-14). Nel momento in cui Naaman si ammala di lebbra, comincia un itinerario verso l’umiltà che lo porterà a ubbidire perfino ai suoi servi, che di solito ubbidiscono a lui. In questo caso, il vissuto corporeo dalla salute alla malattia, dispone Naaman ad acquistare una virtù che prima non aveva. Quindi la condizione fisica influisce in diversi modi sulla disposizione dello spirito e sulla posizione che si assume soggettivamente davanti alla vita. Per questo, l’opera di Dio come educatore, talvolta si realizza nella sapiente alternanza della salute e della malattia, a condizione che però la persona sia inclinata già verso la virtù, altrimenti gli esiti potrebbero essere ben diversi. Il v. 8 del capitolo terzo dei Proverbi sembra suggerire questa verità: “Salute sarà per il tuo corpo e un refrigerio per le tue ossa”. In realtà, Naaman è un uomo già inclinato verso la verità, per questo la sua debolezza fisica, dovuta alla malattia, lo spinge verso l’umiltà; diversamente lo avrebbe spinto verso la ribellione o verso la disperazione. Il vissuto corporeo è dunque un banco di prova, come lo sono le difficoltà ambientali e relazionali. La maniera di affrontarlo può spingere la persona verso la virtù, e quindi verso tappe superiori di santità, oppure verso la direzione contraria. Tutto dipende dai presupposti personali e dall’opzione fondamentale del soggetto. Colui che è inclinato verso la verità troverà sempre nei banchi di prova, fisici o ambientali, delle tappe di crescita e di maturazione. Diversamente si dovrà ricominciare sempre da capo, tutte le volte che una prova affrontata male deruberà la persona di tutte le ricchezze accumulate fino a quel momento. Il vissuto corporeo è anche una dimensione di ricchezza sotto un altro aspetto: Cristo fa del proprio corpo il culto più perfetto, offrendo se stesso sul legno della croce. Per questo l’Apostolo Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, dice: “Glorificate Dio nel vostro corpo!” (1 Cor 6,20), e nella lettera ai Romani “Vi esorto ad offrite i vostri corpi come sacrificio vivente” (Rm 12,1). Accanto alla divina pedagogia che forma l’uomo interiore, c’è anche tutta una dimensione eucaristica, in cui il cristiano è invitato ad entrare facendo del proprio corpo la propria preghiera incessante, il proprio sacrificio di lode che si innalza a Dio nella Eucaristia della Chiesa.
Posted on: Fri, 19 Jul 2013 20:28:24 +0000

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