LETTERE CON ANNA SECONDA PUNTATA Garbatella 09 aprile - TopicsExpress



          

LETTERE CON ANNA SECONDA PUNTATA Garbatella 09 aprile 1974 Cara Anna non mi è mai piaciuto iniziare una lettera con la parola Caro o Cara; spesso quello che due persone si devono scrivere non ha nulla di caro ed è raro che sono cari l’uno all’altro. È solo una convenzione, come tante altre, per di più una brutta convenzione. Quindi ricomincio iniziando da come ti ho sempre chiamato e ancora ti chiamo quando ti penso: Nannetta mia, tesoro mio. Ti chiamavo così ed esattamente per questo, a volte, ti lasciavo disegni attaccati con le puntine sulla porta della cucina; li avresti visti la mattina quando ti svegliavi. Erano sempre diversi, a volte una montagna a volte un banco di frutta, altre volte delle dune di sabbia, ma sempre, magari in un angoletto, c’erano disegnati pirati che ridevano, portandosi via un baule rubato da una nave elegante; te ed io sapevamo che dentro quel baule c’eri tu, il tesoro, felice di scappare con i pirati da quel veliero composto, in cui bisognava mangiare ad orari e andare a dormire alle nove di sera esatte, con quel comandante cui piaceva dare ordini. Come possa piacere comandare me lo sono sempre chiesto. Nella tua lettera scorsa, non mi hai chiesto come sto. Non te ne sei dimenticata, non avevi abbastanza fiato in gola per far uscire le più difficili delle parole: “come stai zio?” Te lo dico comunque; ti dico cosa sono oggi, qui a Garbatella. Ti dico della schiena un po’ curva a forza di calare zappa nel terreno e stare chiuso all’umidità nello stanzone la sera, della gamba malandata per quel pezzo di canna che entrò nel piede, mentre, ragazzi, risalivamo dicorsa dal fiume dopo il bagno. La penicillina per l’infezione costava troppo e la cicatrice deve aver sciupato per sempre qualche nervo. Ero l’ultimo a risalire la sponda, staccato dalla rapidità delle bracciate degli altri e la fretta di sentirmi con loro, non mi fece mettere nei piedi la necessaria premura nel cercare il terreno buono. Non sapevo nuotare bene, che sempre ho saputo fare più le cose di fatica che quelle di agilità. Troppo alto e disordinato il mio corpo. La cicatrice mi regalò la lentezza che obbliga a cercare ordine nei movimenti, che costringe a scegliere quello che si può da quello che non si può. Adolescente alto come uno stecco con una radice guasta. Come avrei mai potuto allungare la mano per prendere una donna e condurla al ballo? Di me si rideva perché non parlavo tanto, mi muovevo lento dentro a vestiti che cadevano a sacco sulle ossa lunghe. Però mi cercavano quando c’era da sostenere corpi, per issarli a raggiungere i rami più alti dove qualche fico ancora non era appassito, o se bisognava resistere alle sassate della banda avversaria, giù per la scarpata del Tevere. Non trovarono un’uniforme nera da farmi indossare, la cicatrice nel piede era il mio lasciapassare contro le sfilate. Avrei voluto abbatterli a sassate quelli che marciavano con manganelli legati al fianco, per rabbia e felicità di non poter essere uno di loro, di non poter essere parte della loro idiozia. Tua madre rideva e me lo impediva, subito dopo avermi indicato quello che avrebbe voluto abbattere. In piedi sulla massicciata eravamo il contrario di Priamo ed Elena sulla mura di Troia, il campo dei greci sotto, nella spianata tra la roccae il mare, dove le navi erano ferme all’ancora. Il re, per ammirazione, chiedeva il nome degli eroi avversari, indicandone le caratteristiche fisiche; lei, greca in Troia, ne raccontava nomi e imprese, per ammirazione e nostalgia. Tua mamma mi chiedeva di abbattere quelli che marciavano sicuri, che non sbandavano nei piedi e nello sguardo, che tendevano al cielo il braccio troppo teso, tanto da sfidare gli dei. Io, ad un suo cenno, avrei potuto punirlo. Ma lei mi fermava in tempo e rideva felice, non della mia stupidità ma della mia forza. Vedi Anna che succede ai vecchi? Non riescono a stare fermi nel presente. Usare i verbi al passato o al futuro vuol dire essere vecchi. Per dirti di me di oggi ho dovuto metterci del passato, tanto per prendere la rincorsa e avere più spinta quando le ruote si sarebbero impantanate nel fango del presente. Sono nella nostra casa a Garbatella e dietro la porta di entrata trovo la spesa nella busta attaccata alla maniglia. È la signora de lpiano di sopra che mi compra le cose. Io le lascio un po’ di soldi ogni settimana e lei mi lascia bigliettini per dirmi se i conti tornano o se miserve qualcosa in particolare. Non sa perché non esco di giorno e non me lo chiede. In realtà non lo so neanche io. Però qualche volta la incontro di sera quando vado all’orto e allo stanzone e poi la sento, sopra il soffitto, ridere e litigare con un uomo, penso sia il marito. Mi tengono compagnia. Così ora sai anche che mi posso cucinare un po’ di pasta a sera e per radio, quando non stanno zitti, ho la voce dei vicini al piano di sopra. A Garbatella questo è ancora possibile. Dello zappare mi piace il calore che il sole mi sbatte sulla schiena, ma mai tolgo la giacca che non sta bene stare in maniche di camicia all’aperto. Quando sono stanco mi riposo e mangio un pomodoro o una cipolla spaccandoli in quattro con ilcoltello. Con la stessa lama controllo che la matita sia ben temperata e mi piace vedere i riccioli di legno che cadono sul suolo smosso, credo che sia un concime necessario. L’orto da tanti frutti, troppi per un uomo solo, che la natura non ha mezze misure, dà tutto e tutto insieme o nulla, ma non dipende tanto dall’amore, lei è fatta così e decide quando è giusto, in pochi giorni, portare a maturazione i pomodori o le melanzane. Ho delle cassette di legno e ci tengo; quando si rompono le aggiusto rimettendo grappette o sostituendo le assi spezzate. Allora posso raccoglierele verdure e, una volta preso quel poco che mi serve, le lascio ordinate, sul bordo del marciapiede che serve per entrare nel portone senza sporcarsi le scarpe di fango quando piove. Se è tempo di fiori di zucchina, copro ogni cassetta di fiori perché credo che quel giallo a righe longitudinali verdi,fatto a forma di trombetta, protegga dal calore e dagli insetti; e poi sono belli. La natura fa le cose belle come un tempo facevamo anche noi. Non per voglia estetica, il bello è funzionale come può essere una grondaia o un termosifone. So che un rubinetto brutto non può funzionare così come una casa senza un fregio sotto la falda del tetto, che le dia eleganza, deve essere all’interno invivibile. Dove le bombe hanno spianato, ora si ricostruiscono quartieri che non funzionano, privi di slancio di bellezza; i vecchi, ne soffrono fino a morirne di cancro o preferiscono diventare scimuniti. A Garbatella invece lasciare le cassette di verdura, coperte di fiori di zucchina per chi ne vuole, è utile come un rubinetto color di ottone, che fa uscire l’acqua alta sopra il lavabo di pietra, in cui sciacquare mani e attrezzi, quando si tengono attaccata un po’ di terra. I fiori di zucchina da friggere con la pastella. Li sai fare? Mi piacerebbe che me li facessi per il mio compleanno, con pasta funghi, piselli e salsiccia, alla norcina, diceva mia madre. Se non hai voglia di vedermi, me li potresti lasciare fuori la porta, attaccati al pomello insieme alla spesa che mi porta la vicina. Però, per favore, non in un contenitore diplastica. Usa due piatti fondi uno messo sopra l’altro, legati stretti da un canovaccio. Poi te li restituisco insieme ad un disegno di pirati per sdebitarmi e perché non ho mai capito il senso di ricevere regali per il compleanno. Io quando avevo te e prima ancora tua mamma, li facevo a voi, e voi facevate finta che fosse normale. Per me è normale dare il giorno del proprio compleanno, che sono io che festeggio vedendo le facce curiose di quelli che ricevono. Mi prendevi in giro che sapevi bene che con le date ci so giocare poco: Zio domani è il tuo compleanno, che mi porti? Io volevo cascarci e rubavo se era il tempo giusto, qualche fiore da una siepe o cucivo tra loro i fogli per farne un album da disegno. Il primo disegno, però, era il mio, con pirati e bauli del tesoro. Il giorno del mio compleanno, seduto solo a capotavola, potrei mettere una pagnotta sul tavolo, apparecchiare e guardare fuori dalla finestra, la primavera che inizia adessere vinta dai primi venti di sud, che voltano pagina proprio un libro con un solo foglio. Il vino dentro la brocca, sette fiori dorati nel piatto e il tovagliolo per pulirmi la bocca, ben stirato. Durante il giorno sto a casa. Quando mi sveglio rifaccio il letto, che mi dà allegria vedere le lenzuola ben stirate, come se ci fosse qualcuno a mettere ordine nella mia casa e dare un po’ di calore alla cucina. La sera devo andare nello stanzone e prima all’orto, la matita ben appuntita nella tasca di dietro e il coltello in quella davanti. Ora ti lascio Nannetta mia, è quasi tempo di piantare le zucchine e forse la luna è anche piena. Ti bacio Nannetta mia Valmelaina, 27 aprile 1974 Hai ragione zio, non ti ho chiesto come stai, sono parole che mi restano dentro quando qualcuno mi è vicino, nel cuore. E’ come uno strano pudore, e forse è la stessa ragione per cui mi arrabbio di più con le persone che amo, ma quale sia questa ragione non lo so. So invece che procura un sacco di guai. Anche la mia decisione di non volerti vedere più, forse ha a che fare con questo. Da un giorno all’altro eri distante e il tuo sguardo mi passava attraverso come se fossi trasparente, niente più disegni,niente più Nannetta mia; ma non trovo nei miei ricordi nulla che possa spiegarmi il perché. Mi chiedevo cosa io avessi fatto di così terribile da giustificare tanta indifferenza, oggi non credo che dipendesse da me, ma ancora non so. Non era così prima quando ero piccola, avevamo trovato il nostro equilibrio, una volta partiti papà e mamma; non c’era molto da dire e da fare,e i giorni trascorrevano lineari, la mattina la scuola, le 5 lire per comprare la pizza, il pomeriggio i giochi nel cortile, mentre tu ti perdevi con le mani nella terra che ci dava da mangiare. La sera, l’odore della minestra e le storie raccontate attraverso i tuoi disegni che mi portavano in luoghi lontani. Mi ricordo una volta che tornasti a casa con 2 pulcini, morbidi e caldi da tenere in mano. Avvicinavo la bocca alla loro testina e soffiavo cercando di dargli calore, e il vortice delle piume mi solleticava il naso. Costruisti anche un piccolo pollaio fra i pomodori e il pesco, e il mio compito era portargli il pane secco bagnato. I pulcini dopo mesi erano moltiplicati, quattro, sei, otto…. Un giorno tornando da scuola non c’erano più, mi dicesti che erano scappati! Li ho cercati a lungo, li pensavo soli e sperduti chissà dove. Uscivo piano nel cortile anche di notte, che è l’ora che i gatti vanno a caccia… Aspettavo che tu fossi passato a controllare il mio sonno, avevo ormai imparato a imitare il respiro dell’abbandono ai sogni, profondo e regolare. Quando sentivo i tuoi passi allontanarsi, aspettavo ancora un po’ il silenzio e poi sgusciavo dal letto, uscivo e controllavo negli anfratti dove speravo di trovare i pulcini stretti tra loro. Mi avvicinavo piano piano allo stanzone,per farmi coraggio cantavo dentro di me ad ogni passo “stella stellina la notte si avvicina la fiamma traballa, la mucca e’ nella stalla. la mucca ha il vitello, la pecora hal’agnello. la chioccia ha il pulcino, ognuno ha il suo bambino. ognuno ha la sua mamma…” ma qualcosa mi fermava sempre, era così buio e la notte era una mano nera. Una volta presi coraggio, cominciai quasi a correre, ma un rumore proveniente dall’interno del rifugio mi impietrì. Il cuore mi saltò in gola… “la pecora e l’agnello…” e corsi via. Arrivata a casa bussai piano alla tua porta con il fiato che tremava nel petto, volevo che mi dicessi che non c’era nessuno là, ne’ fantasmi ne’ bestie cattive. Ma non rispondesti e tornai a letto rannicchiandomi sotto le coperte. Non ho più avuto ilcoraggio di andare a cercare i pulcini. Quello è stato il tuo primo, vero tradimento. Adesso so che c’eri tu in quella stanza; vedi ci andavamo entrambi, ma in ore diverse, io di giorno e tu di notte. E’ un destino che gli animali della luce e quelli dell’ombra non si incontrino, ci sono solo due momenti, il tramonto e l’alba, in cui si sfiorano, ma fatalmente quell’ incontro coincide con una separazione, un inafferrabile istante di congiungimento separa due mondi. Che ci facevi lì dentro? Ho iniziato ad un certo punto ad avvertire una tale distanza tale tra noi da dover scappare, quello che prima mi piaceva in te improvvisamente era diventato intollerabile, e le tante cose che non capivo e che rimanevano nascoste nella tua bocca serrata mi hanno fatto decidere. E’ stato per Pietro? O perché sono entrata nel movimento delle donne? Io non volevo andarmene, zio, te lo giuro, ma non potevo fare altrimenti. Adesso sentirmi chiamare di nuovo Nannetta mi fa talmente male che il dolore sitrasforma in rabbia, come può essere per te tutto così semplice? Mi parli di terra, di fiori, di colori, come se terra fiori e colori non fossero stati perme il germoglio su cui sono cresciuta. Anche io amo sporcarmi le mani, infilarle nella terra grassa che nasconde tesori, se uno sa trovarli, o nei colori con cui scriviamo gli striscioni per urlare in faccia al mondo che ci siamo. Sono successe tante cose in questi anni, ma io non sono più Nannetta e tu sei ancora zio Lucio? Ti prego zio, io i fiori li farò, con la pastella e la birra che vengono più croccanti, e anche la pasta alla norcina, ma non te li lascerò sulla porta, ti voglio vedere zio, voglio sapere il silenzio di quegli ultimi anni.
Posted on: Mon, 25 Nov 2013 02:16:15 +0000

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