LUCA RICOLFI: Far cadere Letta o navigare a vista? Il problema - TopicsExpress



          

LUCA RICOLFI: Far cadere Letta o navigare a vista? Il problema dell’Italia non è la sorte di Berlusconi. Qual è la vera emergenza italiana: il rischio per la democrazia o il rischio per l’economia? Qualcosa di stonato, o forse soltanto di inabituale, nelle parole che sentiamo usare in questi giorni. Ci eravamo assuefatti, negli ultimi dieci-quindici anni, a sentir parlare di “rischi per la democrazia”, di “emergenza democratica”, di “tendenze antidemocratiche” quasi solo da parte di esponenti della sinistra. E naturalmente la fonte di tali rischi era sempre lui, il Cavaliere con il suo conflitto di interessi, il suo controllo delle televisioni, le sue leggi ad personam, la sua tendenza a legiferare con i decreti-legge. Ora però che il Cavaliere rischia di uscire di scena, a denunciare i pericoli che correrebbe la democrazia si sono messi anche gli esponenti della destra, preoccupati che milioni di italiani siano improvvisamente privati della libertà di essere rappresentati dal loro leader. MARCO ALFIERI Vent’anni di niente, passati a parlare di Silvio B. SALVATORE BRAGANTINI Berlusconi e quel furto ai danni dei soci di minoranza RICCARDO CHIABERGE Berlusconi ha negato al Paese la vera destra liberale ALBERTO MINGARDI Silvio non ci ha insegnato a fare a meno dello Stato Sempre lui. Come in un eterno, diabolico “Catch 22”, la democrazia è sempre a rischio, che ci sia Berlusconi o che Berlusconi non ci sia. E lo è precisamente perché lui c’è (secondo la sinistra) o perché lui non c’è (secondo la destra). I politici non sono i soli a temere per la democrazia. Negli ultimi tempi si sono moltiplicati gli appelli e le interviste per scongiurare modifiche della Costituzione, e giusto una settimana fa uno studioso come Gian Enrico Rusconi (editorialista de La Stampa) ha sentito il bisogno di scrivere al suo direttore Mario Calabresi per informarlo che in Europa non sono affatto preoccupati per la nostra “incapacità di fare le famose ‘riforme strutturali’ o di mettere in atto le caute promesse di rilancio della crescita”. No, basta leggere “la stampa internazionale” per scoprire che la vicenda italiana è guardata con preoccupazione perché il nostro paese “rischia di non essere più un sistema democratico costituzionale”: l’Europa “ci chiede innanzitutto di impedire la degenerazione della democrazia italiana”. Detto da un intellettuale di sinistra, che l’Europa sia preoccupata per la democrazia in Italia non è assolutamente una novità. È almeno dai tempi dell’appello di Umberto Eco a non votare Berlusconi (2001) che l’intellighenzia italiana cerca di convincere il resto dell’Europa che da noi ci sarebbe un regime e che non saremmo più una vera democrazia, tutt’al più una democrazia solo “elettorale”, per usare la terminologia dello storico Paul Ginsborg. La novità sta nello scopo della denuncia. Qui non si tratta più, semplicemente, di diffondere una certa idea dell’Italia, negativa e più o meno corrispondente alla realtà. Qui la posta in gioco è diventata molto più precisa, più concreta. L’obiettivo è far cadere il governo Letta per poter tornare alle urne. Infatti “le elezioni sono l’estrema risorsa della democrazia costituzionale contro la forzatura verso forme populiste, pseudo-plebiscitarie”. Curioso, dopo aver versato calde lacrime sull’immiserimento della democrazia italiana, dopo avere dipinto per anni il popolo italiano come rincitrullito dalla propaganda berlusconiana, dopo aver svalutato le libere elezioni come cardine della democrazia (siamo una democrazia “solo” elettorale…), ora le si invoca come estrema ratio per evitare la degenerazione della nostra democrazia in qualcosa di orribile. Secondo Rusconi “dobbiamo avere fiducia nel residuo di senso democratico costituzionale che c’è ancora nei milioni di cittadini che nelle ultime elezioni si sono astenuti - per rabbia, per disgusto, per tristezza”. Insomma, Berlusconi ha reso gli italiani meno democratici, ma in essi c’è un “residuo” di civismo che ci salverà. In questo tipo di argomentazione c’è il solito disprezzo di una parte del mondo “progressista” per chi non la pensa come le vestali della Costituzione. Su questo c’è ben poco da notare, se non la ripetitività. Ma c’è anche qualcosa di più, che invece a mio parere merita un’attenta riflessione, e forse un’inchiesta fra gli economisti (che ne dice il direttore de Linkiesta?). Nelle argomentazioni di chi ci vorrebbe spedire dritti verso nuove elezioni non c’è solo l’idea che così si toglie di mezzo Berlusconi, si seppellisce il berlusconismo, si salva la democrazia. Nelle argomentazioni che circolano in questi giorni c’è, spesso in forma del tutto esplicita, la tesi che nuove elezioni possiamo permettercele, sia sul piano dell’immagine internazionale sia sul piano economico. Secondo Rusconi le autorità europee ne sarebbero addirittura felici: «Le elezioni il più presto possibile non sono né un cedimento interno né un segno di inaffidabilità politica dell’Italia agli occhi dell’Europa. Al contrario l’Europa ci chiede innanzitutto di impedire la degenerazione della democrazia italiana». Resta un mistero, almeno ai miei occhi, come Gian Enrico Rusconi possa essere a conoscenza delle priorità dell’Europa (ammesso che abbia senso parlare di un’entità del genere). Soprattutto come possa essere così sicuro che il pensiero contrario, ossia che le autorità europee e i mercati finanziari non apprezzerebbero altri 5-6 mesi di instabilità politica in Italia, sia non già discutibile, opinabile, magari empiricamente falso, ma addirittura insensato: «Non ha senso pensare che una possibile fine anticipata del governo Letta sgomenti l’Europa o scateni le reazioni negative dei mercati più o meno speculativi». Più cauta, sul punto, Lucia Annunziata, che in un editoriale sull’Huffington Post, molto critico con la nota del presidente Napolitano sul destino di Berlusconi, mette in dubbio che la sopravvivenza del governo Letta sia “l’unica assicurazione per una ripresa economica”. Qui almeno c’è un’argomentazione storico-critica: “I cicli economici hanno sempre avuto molto poco a che fare con la stabilità dei governi, o, se è per questo, con la loro capacità, o correttezza, o corruzione. L’Italia è la prova di tale tendenza: siamo stati al massimo del nostro sviluppo economico quando si cambiava governo ogni sei mesi. E siamo andati a picco anche quando guidati da illuminati e morigerati Premier ”. Giusto o sbagliato che sia il ragionamento (secondo me è fuori bersaglio: il problema dell’Italia non è agganciare al ripresa, ma usarla per fare le riforme strutturali) anche Lucia Annunziata sembra ritenere che l’Italia abbia un serio problema di reputazione internazionale, e che tale problema abbia a che fare più con il cattivo funzionamento delle sue istituzioni che con lo stato disastroso della sua economia. Di qui la conclusione: “Scommettiamo invece che una ‘soluzione alle vongole’ per la condanna di un leader politico è molto più dannosa per la reputazione del nostro paese della microstabiltità di un fragile governo”. Dunque, ricapitolando, abbiamo due diagnosi. Quella dei politici, di sinistra ma anche di destra, che – pur da angoli visuali opposti – si preoccupano della tenuta della democrazia, e considerano prioritario salvaguardarla, gli uni liquidando finalmente Berlusconi, gli altri salvandolo nonostante la condanna definitiva inflittagli dalla Corte di Cassazione. E quella, opposta, del presidente della Repubblica, secondo il quale la priorità è il “rilancio dell’economia e dell’occupazione”, e “fatale sarebbe invece una crisi di governo”. Chi ha ragione? O meglio: è vero o è falso che, una volta caduto il governo Letta e indette nuove elezioni, non vi sarebbero contraccolpi economici, o comunque essi sarebbero di entità trascurabile? La cosa interessante, a me pare, è che questa è una questione empirica, che riguarda il funzionamento del sistema economico-sociale Italia. Chi non vuole le elezioni lo argomenta con i rischi economici di un nuovo periodo di instabilità politica. Chi invece vuole andare al voto (al momento soprattutto gli anti-berlusconiani) lo argomenta negando tali rischi. Non dice: salvare la democrazia è più importante che rilanciare l’economia, ma dice che votare non ha effetti negativi sull’economia, e può averne di positivi sull’immagine dell’Italia. Qui si apre uno spazio di discussione vero, che merita di essere occupato da analisi e non da ideologie. Nuove elezioni aumenterebbero la reputazione dell’Italia sullo scenario europeo, come ritiene Rusconi? E non avrebbero effetti apprezzabili sull’economia? In attesa di conoscere l’opinione di chi vorrà cimentarsi con questi due quesiti, provo a dire brevemente come vedo le cose io. Dove gli anti-berlusconiani hanno ragione, secondo me, è quando dicono che una sconfitta di Berlusconi migliorerebbe la reputazione dell’Italia. È vero, l’establishment europeo vede Berlusconi come un corpo estraneo, di cui inspiegabilmente gli italiani non si sono ancora liberati. Per la maggior parte degli osservatori stranieri è semplicemente incomprensibile che un politico con il record criminale di Berlusconi sia ancora in gioco. Questa incapacità di capire li porta a individuare nell’immaturità degli italiani la causa della permanenza di Berlusconi sulla scena politica, e a vedere con favore qualsiasi passo in direzione di una emancipazione dall’imbonitore, clown o buffone di cui appaiono vittime. C’è solo un piccolo “però”: non è detto che eventuali nuove elezioni non le vinca di nuovo Berlusconi, magari provando a recitare la parte della vittima, quasi fosse un Mandela che dal carcere guida una giusta rivoluzione. Insomma attenti, nemici irriducibili di Berlusconi: proprio perché quel che dite sulla percezione degli stranieri è vero, nuove elezioni potrebbero migliorare la reputazione dell’Italia, ma anche peggiorarla drammaticamente. Sull’economia, invece, penso che i fautori di nuove elezioni possano essere in errore. È vero che il ciclo economico dell’Europa è sostanzialmente indipendente dalla politica italiana, e se ci sarà ripresa anche l’Italia ne beneficerà in qualche misura. Ma il punto è che la misura in cui ne beneficerà dipende molto dal contesto politico. Più precisamente: dalla capacità del governo di evitare una nuova crisi finanziaria, e dall’incisività delle riforme per aumentare la competitività dell’Italia. Su questo versante la situazione è molto meno rosea di come viene dipinta dai mass media in questi giorni. Lo spread dell’Italia rispetto alla Germania sta diminuendo, ma sta peggiorando rispetto a quello della Spagna, che è il nostro termine di paragone più pertinente (lo spread con la Germania sta migliorando solo perché i tassi di interesse sui bund tedeschi stanno crescendo molto rapidamente). L’andamento del PIL e le prospettive di crescita sono fra le peggiori in Europa. Il rating dei nostri titoli di stato è a un passo dalla zona “spazzatura”, il che significa che basta una minima crisi di fiducia per farci precipitare nel baratro (quando si entra in regione spazzatura, giusto o sbagliato che sia il giudizio su di noi, per gli investitori istituzionali scatta l’obbligo di vendere i nostri titoli). La conclusione è che dobbiamo tenerci il governo Letta, perché qualsiasi alternativa è più rischiosa? Questa sembra essere l’opinione del capo dello Stato, ma è un’opinione a sua volta gravida di rischi. Anche il governo Letta, con il suo continuo annunciare, rimandare, mediare è un rischio per il Paese. Il governo Letta sta facendo molto meno di quello che sarebbe richiesto, e abbastanza di meno di quello che sarebbe possibile. Il rischio è che, complice la ripresina in arrivo, si accontenti di navigare a vista, trasformando la propria sopravvivenza nel fine della sua azione politica, anziché cosiderarla il mezzo necessario per cambiare profondamente l’Italia. In questo caso anche l’esperienza del governo Letta ricadrebbe nella sindrome così ben descritta da Lorenzo Bini Smaghi nel suo ultimo libro (Morire di austerità, il Mulino 2013): le riforme necessarie al Paese non si fanno perché quando c’è la crisi, e la politica si convince finalmente che è ora di agire, i costi delle riforme sono troppo alti; e quando c’è la ripresa e i costi delle riforme diventano più ragionevoli, la politica si adagia, sperando che le cose si aggiustino da sé; così i cambiamenti che l’Italia aspetta da vent’anni non arrivano mai, e il declino diventa inarrestabile. La conclusione è alquanto amara. Far cadere il governo Letta comporta rischi economici immediati e non trascurabili, lasciarlo navigare a vista comporta rischi forse ancora maggiori, ma di periodo più lungo. Non è una bella scelta, ma temo che le alternative effettivamente in campo siano solo queste due. Leggi il resto: linkiesta.it/berlusconi-letta-italia#ixzz2c7dWww28
Posted on: Fri, 16 Aug 2013 09:35:04 +0000

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