La Fratellanza musulmana dopo Morsi Eleonora - TopicsExpress



          

La Fratellanza musulmana dopo Morsi Eleonora Ardemagni 26/07/2013 Dopo la destituzione per mano militare del presidente islamista Mohammed Morsi, l’esercito ha chiesto agli egiziani di scendere in strada per mostrare il sostegno al loro intervento. Il 24 luglio, il capo delle forze armate Abdel Fattah al Sissi ha invitato i suoi sostenitori a manifestare nelle piazze del paese contro quella che ha definito “la minaccia terroristica” islamista. Questo appello è suonato come un campanello di allarme per i sostenitori di Morsi, che hanno deciso di marciare contro quella che ritengono una “dichiarazione di guerra civile”. La destituzione di Mursi ha infatti esasperato la polarizzazione egiziana, arrivando a dividere i governi e le opinioni pubbliche di Medio Oriente e Nord Africa. Nel giugno 2012, allo stesso modo, l’elezione democratica del primo capo di stato islamista dell’Egitto aveva già polarizzato i giudizi politici regionali lungo l’asse entusiasmo/preoccupazione. Il carattere transnazionale del movimento della Fratellanza musulmana (di cui il partito Libertà e Giustizia di Morsi è espressione) amplifica i riflessi regionali del “golpe popolare”; ciò si unisce alla deludente performance di governo degli Ikhwan (i Fratelli) musulmani locali, specie nella gestione della profonda crisi economico e sociale che affligge il paese. In ogni nazione araba, i fatti egiziani del 2013 si sono così intrecciati con le dinamiche politiche interne: è dunque interessante provare ad analizzare l’impatto del “caso Morsi” su alcuni scenari nazionali, in chiave comparata. Egitto All’interno dei Fratellanza egiziana qualcosa sta mutando. Una nuova corrente giovanile contro la violenza rivendica maggior spazio dentro la Confraternita, chiedendo le dimissioni della leadership del movimento - a cominciare dalla guida spirituale Mohamed Badie - e l’elezione di dirigenti giovani, che rigettino l’uso politico della violenza. Il gruppo, che sta raccogliendo firme nella moschea-simbolo delle manifestazioni pro-Morsi, Rabaa el-Adawiya (distretto di Nasr City), minaccia di appellarsi ai vertici internazionali degli Ikhwan in Turchia, affinché depongano gli attuali capi. Una richiesta che pare però superata dalla notizia che la procura generale egiziana ha emanato un ordine d’arresto per Badie e altri otto esponenti politici del movimento. Da un punto di vista regionale, la rimozione del presidente Morsi rappresenta comunque una sconfitta cocente per l’Islam politico e le sue ambizioni di governo; una débâcle che potrebbe però contribuire al rafforzamento di formazioni islamiste ancora più radicali, come quelle appartenenti al variegato universo salafita. Marocco La crisi di governo marocchina si è aperta lo scorso maggio, quando il secondo partito della coalizione, i nazionalisti di Istiqlal, ha ritirato il proprio appoggio all’esecutivo guidato da Abdelilah Benkirane del Partito della giustizia e dello sviluppo (Parti de la Justice et du Développement - Pjd), vicino alla Fratellanza. Una settimana dopo la rimozione di Morsi, i toni dello scontro si sono però infiammati: cinque dei sei ministri del partito di centro-destra si sono dimessi dal governo e il segretario dell’Istiqlal, Hamid Chabat, ha dichiarato di desiderare “la fine di Benkirane, così com’è stato per il Fratello Morsi”. Il casus belli va anche qui ricercato nella politica economica, ovvero nell’impopolare progetto del Pjd, osteggiato dal secondo partner della coalizione, di tagliare del 20% i sussidi statali sui beni di prima necessità. L’obiettivo è ridurre il deficit di bilancio dal 7% al 3% entro il 2017, come promesso al Fondo monetario internazionale in cambio dell’erogazione di prestiti. La storia del Pjd è però assai diversa da quella dei Fratelli egiziani: il partito marocchino non ha vissuto la clandestinità e sembra aver imparato a muoversi all’interno del makhzen, il potente sistema politico-relazionale che dal palazzo del re, Mohamed VI, raggiunge e condiziona i principali gangli della società marocchina. Il premier Benkirane gode, inoltre, di elevati livelli di popolarità, come confermano sia i sondaggi sia le recenti elezioni locali (Marrakesh, Tangeri, Fez). La destituzione di Morsi, giudicata un colpo di stato dal Pjd ma accettata di buon grado dal monarca marocchino, si sta trasformando agli occhi dell’Istiqlal e delle formazioni di opposizione filo-monarchiche in un ulteriore argomento contro gli islamisti, accusati di aver finora governato per se stessi piuttosto che per la nazione. Mentre un rimpasto di governo sembra l’opzione più probabile, Mohamed VI (l’unico che per costituzione può rendere effettive le dimissioni dei ministri) osserva in silenzio il dibattito, che ha assunto aspri toni populisti. Da sempre scarsamente politicizzati, i marocchini potrebbero tornare a votare, alle prossime elezioni, i partiti più vicini, nonché graditi, al Palazzo, in nome della stabilità politica. Nel frattempo, il movimento Tamarrod (ribellione), che s’ispira all’omonimo egiziano, ha convocato una manifestazione per il 17 agosto. Il gruppo - animato da militanti di sinistra, sindacalisti e giovani attivisti - chiede una nuova costituzione che assicuri una piena separazione dei poteri e si è già attirato numerose critiche, sia dal Pjd che dal Movimento 20 febbraio, la coalizione giovanile che, seguendo il vento delle primavere arabe, nel 2011 scese in strada per chiedere una riforma della costituzione marocchina. Giordania Il 20 luglio, Re Abdullah è il primo capo di stato a compiere una visita ufficiale dal neo-presidente egiziano Mansour: l’Islamic Action Front (Iaf), appartenente alla rete della Fratellanza, ha immediatamente tuonato contro le felicitazioni della monarchia, accusandola di appoggiare un golpe e di opporsi al volere del popolo del Cairo. Dopo mesi di proteste altalenanti ma insidiose, capeggiate proprio dal gruppo islamista, è assai probabile che, di fronte alla destituzione di Morsi, il sovrano hashemita - già preoccupato dal massiccio afflusso di profughi siriani - abbia tirato un sospiro di sollievo. E ciò nonostante i Fratelli giordani abbiano sempre riconosciuto la legittimità del sistema monarchico. L’indebolimento del segmento più organizzato dell’opposizione può infatti consentire a re Abdullah di recuperare parte dell’influenza politica perduta, soprattutto nei confronti dei transgiordani, storici alleati del regime, ora inquieti di fronte alle urgenze socio-economiche e alle blande riforme messe in atto dal sovrano. In più, lo Iaf, dove coabitano un’ala intransigente e una favorevole alla partecipazione alla contesa elettorale, è fuori dal parlamento, avendo boicottato le elezioni politiche dello scorso gennaio in polemica con la legge elettorale vigente: non è dunque possibile, come avvenuto in passato, che si creino alleanze parlamentari con i partiti della sinistra per contrastare i provvedimenti appoggiati dalla monarchia. Yemen Tutto ciò che avviene al Cairo accade poi a Sana’a, recita un tradizionale adagio yemenita. Di certo, la destituzione del presidente egiziano ha diviso il General People’s Congress (Gpc) e Islah, ovvero i pilastri dell’esecutivo di transizione. Se Islah, ombrello politico sia della Fratellanza locale che dei salafiti, ha condannato il colpo di stato portando i suoi manifestanti a protestare sotto l’ambasciata d’Egitto nella capitale, il Gpc (ancora presieduto dall’ex capo di stato Ali Abdullah Saleh) si è invece rallegrato con la decisione assunta dal generale Abdel Fattah al-Sisi. Le divergenze sul “caso Morsi” si intrecciano con il cammino già travagliato del Dialogo nazionale: la competizione fra i due partiti si riflette sulle istituzioni (il Gpc controlla politicamente il ministero della difesa, Islah quello degli interni) mentre l’arruolamento nelle Forze armate segue preoccupanti criteri clanico-tribali piuttosto che professionali. Solo poche settimane fa, Mohamed Morsi e lo shaikh Hamid al-Ahmar, alla guida dell’Islah, si erano incontrati; ora, un movimento ispirato ai Tamarrod egiziani è stato fondato nella città di Ibb, a nord dell’inquieta Taizz, già epicentro della sollevazione anti-regime del 2011. Ancora una volta, la politica yemenita partecipa e si ispira al divenire dell’Egitto. Eleonora Ardemagni è analista in relazioni internazionali (Medio Oriente e Nord Africa), collaboratrice di Equilibri e Aspenia. Dottoressa magistrale in relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano, è diplomata in affari europei all’Ispi.
Posted on: Sat, 27 Jul 2013 16:55:46 +0000

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