La conquista dei nuovi mondi I grandi viaggi di esplorazione - TopicsExpress



          

La conquista dei nuovi mondi I grandi viaggi di esplorazione che vennero effettuati nel XV secolo dai navigatori portoghesi e spagnoli furono, sotto molti aspetti, il seguito e la conclusione della spinta espansiva che l’Occidente medioevale aveva iniziato a manifestare dopo la svolta dell’Anno Mille. Ripresasi dal colpo infertole dalla peste nera, l’Europa si era rimessa in marcia oltre le proprie frontiere “in cerca di spezie e cristiani”, come disse Vasco da Gama per motivare il suo viaggio quando sbarcò a Calicut. Coloro che sfidarono le onde dell’oceano al largo delle coste dell’Africa o sulle caravelle di Colombo, erano gli eredi di Marco Polo e dei cavalieri crociati: spinti dal desiderio di ricchezze e, insieme, dalla volontà di allargare i confini del loro mondo e di guadagnare a esso, ovvero alla religione cristiana, nuovi popoli. Quando però le navi toccarono terra e dalle loro stive uscirono i guerrieri, montati a cavallo, armati di fucili e cannoni, quello fu il segno che era iniziata un’epoca nuova. L’Occidente cristiano non era più uno stretto lembo di terra ai margini del continente eurasiatico che faticosamente cercava di guardare al di là dei suoi confini circondati da popoli potenti e da una natura ostile. L’Europa stava scoprendo la sua forza e si accingeva a prendere possesso del mondo. di Marco Fossati M.Fossati G.Luppi E.Zanette, La città delluomo 1 - Il controllo portoghese sulle nuove rotte per l’India Una delle principali ragioni per cui i Portoghesi si erano messi alla ricerca di una via diretta per le Indie era, come sappiamo, quella di aggirare lo sbarramento degli arabi e degli altri popoli islamizzati del Nord Africa e del Medio Oriente che, con la loro mediazione commerciale, facevano lievitare i prezzi dei prodotti importati in Europa. E’ comprensibile che, una volta arrivati nell’Oceano Indiano, abbiano dovuto fronteggiare la concorrenza dei mercanti arabi che da secoli controllavano il commercio delle spezie in quell’area. Contro di essi i Portoghesi fecero valere la superiorità militare di cui disponevano, grazie alla disponibilità di una potenza di fuoco incomparabilmente maggiore che consentì loro di assumere il controllo delle rotte navali. I locali regni indù erano spesso ostili ai musulmani e su questo cercarono di far leva da subito Vasco da Gama e poi Cabral che, dopo aver toccato le coste del Brasile, sbarcò a Calicut nel 1500. Egli, prima di rientrare in patria, stabilì un presidio portoghese nella zona contro il quale tuttavia la popolazione locale si ribellò due anni più tardi. A Calicut venne allora rimandato Vasco da Gama, ma era ormai chiaro che la presenza portoghese nell’area doveva essere imposta con le armi. La chiave della penetrazione militare e commerciale, che venne attentamente pianificata da Lisbona, fu la conquista successiva di tre nodi strategici fondamentali: la città di Goa (1510) che si rivelò il luogo ideale per fissarvi la capitale della dominazione sullIndia; lo stretto di Malacca (1511), passaggio obbligato per la navigazione verso il Mar della Cina; lo stretto di Hormuz (1515), nel punto opposto delloceano Indiano, attraverso cui passava la rotta per il Golfo Persico e quindi per i centri carovanieri nei quali gli arabi smistavano le merci per i porti del Mediterraneo. Artefice di queste operazioni di successo fu Afonso de Albuquerque (1453-1515) che nel 1506 era stato nominato viceré di tutti i possedimenti portoghesi nelle Indie dal re Manuele I (1469-1521), il sovrano sotto il cui regno il Portogallo conobbe l’età dell’oro della sua storia (cfr. Documenti: I piani di conquista dei portoghesi in India). I Portoghesi entrarono in contatto anche con la Cina, allora governata dalla dinastia Ming (1368-1644) e inviarono presso la corte imperiale una missione ufficiale nel 1519. Ma i rapporti diplomatici si raffreddarono presto seppure i Portoghesi riuscirono a imporre la loro presenza commerciale anche su quelle coste ottenendo di insediarvi alcune basi di cui Macao, fondata nel 1557, divenne presto la più ricca e la più importante per gli scambi con l’Occidente (cfr. Spazi: I Portoghesi nei mari del Sud). 2 - Dalle spezie agli schiavi Il Portogallo tuttavia, anche per lesiguità della sua popolazione, non aveva forze sufficienti per conservare a lungo un impero commerciale così esteso. Presto i mercanti arabi, questa volta sotto la protezione dei Turchi ottomani, ripresero le rotte dellOceano Indiano e altre potenze navali del Nord Europa cominciarono ad affacciarsi sulle sue acque. Ai sovrani di Lisbona rimase in mano il controllo della rotta che passava dal Capo di Buona Speranza e insieme a questa le piazzeforti fondate nei punti di scalo africani dove facevano sosta, allandata o al ritorno, le navi che la percorrevano. In particolare i Portoghesi consolidarono la loro presenza in Angola, dove erano sbarcati nel 1483, e in Mozambico, dove Vasco da Gama aveva fondato una colonia di ritorno dal suo secondo viaggio in India nel 1503. Da quelle basi i soldati e i mercanti portoghesi impararono presto a spingersi verso linterno alla ricerca delloro e di unaltra merce, ancora più preziosa, che in quelle terre si trovava in abbondanza: gli schiavi (cfr. Dizionario: Schiavi) africani. In un primo tempo essi venivano utilizzati per svolgere lavori locali o deportati nelle piantagioni di Madeira e al servizio delle ricche famiglie di Lisbona. Successivamente la domanda crescente di mano d’opera che veniva dai territori sia portoghesi sia spagnoli del continente americano indirizzò verso quella direzione il flusso principale della tratta degli schiavi. I Portoghesi, seguiti poi da trafficanti di vari paesi, instaurarono fra le due sponde dellAtlantico un commercio triangolare. Le navi partivano dallEuropa alla volta dellAfrica cariche di armi e di manufatti di poco valore con cui gli schiavi venivano catturati o comperati dalle popolazioni costiere che erano costrette, per salvarsi dalla deportazione, a diventare esse stesse negriere nei confronti degli abitanti dellinterno. Così rastrellati gli schiavi venivano ammassati nelle stive delle navi e deportati in America dove, quelli che arrivavano ancora vivi, e pertanto si dimostravano particolarmente robusti, venivano messi a lavorare nelle piantagioni e nelle miniere. Le stesse navi negriere poi salpavano alla volta dell’Europa cariche delle merci prodotte da questa perfetta organizzazione di sfruttamento: metalli preziosi, cotone, zucchero, tabacco, caffè. Si calcola approssimativamente che in circa tre secoli siano stati deportati dallAfrica non meno di cinquanta milioni di abitanti. Molto meno tuttavia furono quelli che vennero realmente sbarcati sulle coste del nuovo continente. Moltissimi infatti erano quelli che morivano per le terribili condizioni in cui erano tenuti durante le cinque o sei settimane di viaggio. 3 – Un nuovo continente al di là dell’Atlantico Mentre i portoghesi erano impegnati a consolidare la loro presenza nelloceano Indiano, gli spagnoli, dopo aver verificato che le terre scoperte da Colombo appartenevano a un nuovo continente, cercavano il modo di aggirarlo o di attraversarlo per vedere se fosse possibile proseguire il viaggio verso le Indie. Nel 1502 Amerigo Vespucci si era spinto a Sud costeggiando il Brasile ed era giunto oltre il Rio della Plata, fino in Patagonia; qualche anno più tardi (1509) il veneziano Sebastiano Caboto (1477-1557), navigando per conto del re dInghilterra, aveva esplorato le coste dellAmerica settentrionale spingendosi fino alla baia di Hudson. Sia a Sud sia a Nord il nuovo continente sembrava non finire mai e appariva sempre meno sensato cercare al di là di esso una via rapida verso lAsia orientale. Il primo comunque che vide che cosa ci fosse al di là fu Vasco Nuñez de Balboa (1475-1517) che, nel settembre del 1513, attraversò listmo di Panama affacciandosi su un nuovo oceano che egli, per come gli apparve, chiamò Pacifico. 4 - La prova sperimentale della teoria di Colombo Quanto questo fosse esteso e quanto lungo fosse ancora il tragitto per giungere alle Indie lo misurò sei anni dopo il navigatore portoghese Ferdinando Magellano (1480-1521) che, navigando per conto degli spagnoli, trovò un passaggio fra le isole a Sud della Patagonia e, entrato nel Pacifico attraverso quello stretto che poi prese il suo nome, riuscì ad attraversarlo giungendo allOceano Indiano da Est. Arrivato alle Filippine egli fu ucciso in uno scontro con la popolazione indigena su unisola di quellarcipelago. Privati del loro ammiraglio e decimati dallo scorbuto, i suoi compagni proseguirono ugualmente il viaggio finché, l8 settembre 1522, una sola delle cinque navi che erano salpate tre anni prima, con appena 18 dei 238 uomini che erano partiti, fece ritorno al porto di Siviglia. Il progetto di Colombo era stato finalmente realizzato, ma nessuno avrebbe potuto sostenere che quella rotta fosse di qualche utilità commerciale. Nella corsa per conquistare i mercati orientali delle spezie la Spagna era stata irrimediabilmente battuta. Ma ben altre e più preziose ricchezze si trovavano a sua disposizione e il loro sfruttamento stava appena iniziando. 5 - Gli abitanti dell’America Quando gli europei sbarcarono sulle coste del continente che essi avrebbero chiamato America, questo era abitato da popolazioni discendenti da quelle che, migliaia di anni prima, vi erano giunte dall’Asia attraverso lo stretto di Bering, nel corso dell’ultima glaciazione. In un continente così vasto la densità degli abitanti era piuttosto ridotta e tuttavia il loro numero viene stimato intorno agli 80 milioni, poco meno di un sesto della popolazione complessiva che si calcola abitasse il pianeta all’inizio del XVI secolo. L’effetto che ebbe sui primi americani l’incontro con i conquistatori venuti da oltre oceano fu disastroso: in meno di un secolo il numero degli abitanti venne ridotto del 90% e quelli che sopravvissero subirono ulteriori distruzioni nei secoli successivi. Vedremo più avanti da che cosa fu provocato questo vero e proprio genocidio. Ora esaminiamo, sia pure rapidamente, un po’ più da vicino chi erano i popoli che abitavano la zona centrale del continente e che, all’inizio del ‘500, si trovarono a fronteggiare l’arrivo degli Spagnoli. I Maya Le popolazioni più sviluppate del Centro America non erano quelle che aveva incontrato Colombo sulle isole del Golfo del Messico in cui era sbarcato nei suoi primi viaggi. Egli però, nel corso del suo quarto viaggio, quando prese terra a capo Honduras (1502), entrò in contatto con i Maya e, vedendoli più evoluti degli altri indigeni, ne dedusse che erano sudditi del Gran Khan. Erano invece gli eredi di una civiltà, ormai in decadenza, che per secoli aveva dominato quella regione. La loro economia era fondata sulla coltivazione del mais, allora del tutto sconosciuto in Europa, e avevano elaborato raffinate tecniche per la tessitura del cotone e la produzione della ceramica. Ma non usavano animali da tiro e nemmeno disponevano di mezzi a ruote. La loro civiltà viene divisa dagli storici in tre periodi: quello di formazione (1500 a.C. – 250 d.C.), a cui risale l’elaborazione di una scrittura geroglifica e un calendario di grande precisione che suddivideva l’anno in 365,24 giorni; il periodo classico (250-987), nel quale comparvero osservatori astronomici e grandi complessi cerimoniali, e il periodo postclassico, che termina con la conquista spagnola, nel quale i Maya raggiunsero il punto massimo del loro sviluppo (XII secolo) e si avviarono poi verso la decadenza. Questa, che sopravvenne per ragioni che non sono del tutto chiare, diede modo al popolo degli Aztechi di stanziarsi sul territorio. Gli Aztechi Preceduti dai Toltechi, una popolazione insediata nella regione del Messico e successivamente emigrata nello Yucatan dove venne assorbita dai Maya, gli Aztechi arrivarono in successive ondate migratorie, intorno al XII secolo, nella zona del lago Texcoco. Qui bonificarono il paludoso territorio circostante e fondarono nel 1325 la loro capitale Tenochtitàn (vicina all’odierna Città del Messico). A metà del XV secolo essi erano diventati egemoni in tutto il Centro America e le loro conquiste andavano dal Pacifico all’Atlantico sottomettendo le popolazioni della zona e arrivando a occupare, all’inizio del ‘500, ciò che restava dell’antico impero Maya. All’epoca della conquista spagnola era al potere il re Montezuma II (1466 ca.-1520), Montecuzoma nella lingua locale, e l’impero azteco era all’apice della sua potenza, ma anche così la sua unità interna appariva fragile. Suddiviso in una quarantina di distretti dotati di un elevato grado di autonomia, ma sottoposti a una fortissima pressione fiscale, il regno di Montezuma era attraversato da lotte intestine e da spinte secessioniste di cui seppero approfittare gli spagnoli nel corso della conquista. La società azteca era dominata da una classe di nobili, divenuti tali per nascita o per meriti di guerra, e di sacerdoti. Sotto di loro la popolazione era costituita da uomini liberi (maceualtin) che avevano una specie di usufrutto sulle terre che lavoravano, e da schiavi che godevano di alcuni diritti e che potevano, in determinate circostanze, ottenere la libertà. Una religione superstiziosa, fondata su divinità esigenti e spesso ostili (Uitzilopochtli, dio Sole; Coyolxauhqui, dea Luna; Tlaloc, dio della pioggia) conferiva un particolare potere ai sacerdoti che nelle celebrazioni dei culti praticavano anche sacrifici umani. In questo caso le vittime erano quasi sempre i prigionieri anche se, come la morte in battaglia, era considerato motivo di gloria per i guerrieri immolarsi come vittime sacrificali. La scrittura degli Aztechi, meno raffinata di quella dei Maya, era di tipo pittografico e affiancava una diffusa letteratura orale nel celebrare eventi storici e religiosi. In alcuni codici così redatti si parla, per esempio, delle profezie che annunciavano l’arrivo di divinità provenienti dal mare con le quali i sacerdoti aztechi e il re Montezuma identificarono gli Spagnoli. Gli Inca Nella lingua della popolazione che abitava gli altopiani delle Ande a Sud della cordigliera peruviana, inca significa “re” o “principe”. Fu questo il nome che i conquistatori spagnoli diedero a quel popolo e con il quale anche noi lo ricordiamo. Gli Inca erano guerrieri e nella regione in cui si stabilirono all’inizio del XIII secolo e fondarono la loro capitale Cuzco, vissero a lungo di razzie condotte contro le popolazioni locali senza dare vita a una qualche forma di potere centrale. La situazione mutò nel XV secolo, sotto il regno di Viracocha, quando gli Inca si espansero sia a Nord sia Sud arrivando a costituire un impero che si estendeva sui territori degli attuali Colombia, Ecuador, Perù, Cile, Bolivia e Argentina. A differenza degli Aztechi e dei Maya, il sistema politico e amministrativo che costituirono era rigidamente gerarchico e centralizzato, fondato su una aristocrazia militare che esercitava il suo potere sulle popolazioni agricole sottomesse. Il sovrano era ritenuto l’incarnazione di un dio ed aveva potere su ogni cosa. Poi venivano i membri della sua famiglia e quindi, a gradi diversi, i vari livelli dell’aristocrazia seguendo il profilo di una piramide sociale alla cui base stava la massa dei contadini e degli artigiani, sottoposti a vincoli e a prestazioni di lavoro obbligatorie, ma tutelati da una sorta di sistema assistenziale in caso di carestia o di epidemie. Amministrativamente l’impero inca era diviso in quattro grandi regioni e infatti il suo nome in lingua locale, Tahuantinsuyu, significa terra dei quattro quartieri. Una fitte rete di funzionari governativi teneva sotto controllo le attività agricole, basate sulla coltivazione della patata e del mais, e coordinava i lavori di interesse comune (drenaggi, terrazzamenti, irrigazione, ecc.). Una parte del raccolto veniva confiscata dalla famiglia imperiale e, in una certa misura, conservata nei magazzini statali per essere ridistribuita in situazioni di emergenza. Tutta questa complessa macchina statale era governata senza alcuna forma di scrittura, che gli Inca non avevano elaborato, ma grazie a una fitta rete di strade, lastricate in pietra, percorse avanti e indietro da corrieri che tenevano i contatti con ogni angolo del territorio consentendo così il funzionamento di un sistema fortemente centralizzato nella persona del re che rese agevole la conquista da parte degli spagnoli. 6 - L’amministrazione spagnola del territorio Fin dalla prima spedizione di Colombo lobiettivo degli spagnoli che sbarcavano in America era quello di trovare loro ma, nonostante tutti gli sforzi compiuti per rintracciarlo nelle isole Bahamas e nelle Antille successivamente esplorate, essi non riuscirono a trovarne che in quantità modeste. Si scoprì però abbastanza presto che le nuove terre potevano fornire una importante fonte di guadagno attraverso la coltivazione intensiva di prodotti, come la canna da zucchero, che avevano unottima resa in quei climi e per i quali si poteva utilizzare il lavoro della popolazione locale sottoposta a regime di schiavitù. Mano a mano che arrivavano nella madre patria le notizie su quanto veniva scoperto sull’altra sponda dell’Atlantico, i sovrani spagnoli cercavano di definire i modi attraverso cui governare le nuove terre e amministrare le nuove ricchezze. Poiché era stata la regina Isabella a sostenere e a finanziare la spedizione di Colombo, i territori americani vennero annessi alla corona di Castiglia con il nome di Regno delle Indie. A popolarli sarebbero dovuti andare coloni spagnoli, accompagnati dalle famiglie e attentamente selezionati dal centro di controllo (Casa della contractaciòn) istituito a Siviglia nel 1503 per evitare che eretici, musulmani o ebrei si infiltrassero fra gli emigranti. In un primo tempo sembrò che questa politica potesse avere successo e già in occasione del secondo viaggio di Colombo (settembre 1493) si recarono con lui 1300 uomini con una considerevole quantità di bestiame, sementi e utensili da lavoro. Ma i disagi del viaggio e, soprattutto, le incognite di una terra selvaggia e di un clima sconosciuto selezionavano gli aspiranti alla partenza e presto fu chiaro che, a parte gli uomini di fede sinceramente interessati a diffondere il cristianesimo, si recavano in America soltanto avventurieri attratti dalla possibilità di arricchirsi. Per incentivare la loro permanenza e garantire alla corona i proventi sullo sfruttamento delle nuove terre, venne istituita lencomienda tramite la quale un certo territorio e i suoi abitanti venivano dati in concessione (“in commenda”) a un encomendero che ne disponeva a suo piacimento salvo versare al sovrano una quota delle sue rendite. Veniva così esportato in America un modello di tipo feudale, ma molto più duro di quello in uso in Europa per la popolazione locale che vi era sottoposta. D’altra parte le autorità spagnole si preoccupavano principalmente di controllare la regolarità dei flussi di merci verso la madrepatria (lo stesso Colombo, nel 1500, era stato accusato di appropriazione indebita e perfino arrestato) e si davano poco pensiero di come queste venissero prodotte. Le condizioni di sfruttamento a cui vennero sottoposte le popolazioni che vivevano nelle isole dei Caraibi fin dai primi anni della colonizzazione erano durissime, ma fu peggiore la sorte che toccò agli abitanti delle regioni centrali del continente quando i conquistatori spagnoli si spinsero in quella direzione. 7 - La conquista del Messico Nonostante fossero state infruttuose le ricerche dell’oro insistentemente condotte fra la popolazione indigena da Colombo e dai primi che arrivarono nel Nuovo Mondo, il rinvenimento dei metalli preziosi, che tutti erano convinti fossero nascosti da qualche parte in grande abbondanza, rimase l’obiettivo principale dei conquistatori. Alle prime spedizioni che sbarcarono sulle coste dell’America Centrale e presero contatto con le popolazioni Maya nella penisola dello Yucatán (cfr. Dizionario: Yucatán), venne segnalata lesistenza del regno degli Aztechi che di oro sembravano possederne in abbondanza. Alla sua ricerca partì, Hernan Cortés (1485-1547), appartenente a una famiglia di ascendenza nobile ma di modeste condizioni, che si era trasferito nel 1504 a Santo Domingo e aveva poi seguito Diego Velazquez nella conquista di Cuba (1511) dove aveva assunto la carica di alcade (sindaco) di Santiago. Nel 1518 Cortés ottenne da Velazques, divenuto governatore dell’isola, il permesso di condurre una spedizione in Messico il cui territorio era stato solo di recente esplorato. Temendo di non poter controllare gli esiti della spedizione il governatore di Cuba aveva poi tolto il suo consenso, ma Cortés partì lo stesso, il 19 febbraio 1519, alla testa di appena seicento uomini dotati però di armi da fuoco e di cavalli, ambedue totalmente sconosciuti alla popolazione locale. Sfruttando abilmente il possesso di questi elementi, grazie ai quali lui e i suoi erano visti come divinità venute dal mare, Cortés riuscì in pochi mesi a conquistare limpero degli Aztechi che contava allora diversi milioni di abitanti. Dotato di grande determinazione Cortés non aveva esitato a danneggiare e insabbiare le sue stesse navi per togliere ai suoi soldati ogni velleità di tornare indietro prima di aver completato la spedizione. Ma il conquistatore del Messico, a differenza della maggior parte degli altri avventurieri che si lanciarono in imprese simili alla sua, si mostrò soprattutto capace di raccogliere informazioni sul territorio e sulle popolazioni con cui veniva a contatto e di usarle ai fini della conquista. La lingua era stata un grave ostacolo per gli Spagnoli e aveva creato ogni sorta di equivoci quando essi avevano cercato di raccogliere notizie dai locali (cfr. Dizionario: Yucatán). Consapevole di questo Cortés si procurò subito degli interpreti e fra di essi ebbe un ruolo di particolare rilievo una donna che gll Spagnoli chiamavano Marina o, più spesso “la Malinche”. “Senza di lei Cortés non poteva trattare alcun affare con gli indiani – si legge nella Storia veritiera della conquista della Nuova Spagna di Bernal Diaz del Castillo. – Doňa Marina era donna di grande valore; aveva un ascendente enorme su tutti gli indiani della Nuova Spagna”. Grazie all’aiuto di persone come la Malinche , che svolse un vero e proprio ruolo di mediazione culturale fra lui e gli Aztechi, Cortés venne a conoscere i dissidi interni che indebolivano il regno di Montezuma e le profezie che annunciavano l’arrivo di misteriose divinità a cui il sovrano azteco dava molto credito. Usando con abilità di queste informazioni e facendo contemporaneamente pesare la propria superiorità militare, Cortés conquistò il cuore dell’impero messicano, ne rase al suolo la capitale Tenochtitlán e costruì sulle sue rovine Città del Messico. In tutto ciò egli dovette anche tenere a bada il suo ex protettore Diego Velázquez che aveva mandato sulle sue tracce Pánfilo de Narváez, (1470 - 1528) per fermarlo e sottometterlo alla sua autorità. Ma la fama ottenuta con le sue conquiste valse a Cortés il titolo di governatore e capitano generale della Nuova Spagna che gli venne conferito nel 1523. Ma il suo successo destava inquietudine nella corte spagnola che da lì a poco intervenne per limitarne il potere. Dopo che gli fu tolto il governo del Messico Cortés tentò ancora di intraprendere nuove spedizioni, ma la sua fama stava calando ed egli si ritirò a finire i suoi giorni in una piccola proprietà vicino a Siviglia. Alla sua morte, nel 1547, la popolazione messicana era avviata a una distruzione quasi totale: dei circa venticinque milioni, che contava il giorno in cui Cortés e i suoi conquistadores erano sbarcati sulla costa a Est dell’attuale Vera Cruz, ne erano rimasti in vita poco più di un milione. 8 - La caduta dell’impero degli Inca Negli anni in cui Cortés si dedicava alla sua impresa, fra gli spagnoli di stanza a Panama, fondata nel 1519, circolavano con sempre maggiore insistenza racconti a proposito di favolose ricchezze che sarebbero state custodite nei territori a Sud della città. Fra coloro che volevano verificare queste notizie vi era Francisco Pizarro (1475-1514), un ufficiale spagnolo che aveva partecipato alla spedizione di Vasco de Balboa. In società con un altro esploratore spagnolo, Diego de Almagro, (1475-1538), Pizarro compì due spedizioni lungo le coste occidentali dell’America meridionale (1524-25 e 1526-28) che si conclusero con un insuccesso ma che gli consentirono di raccogliere informazioni sull’impero degli Inca riguardo al quale non si avevano notizie precise ma che, proprio per questo, appariva in una luce favolosa. Egli si recò allora in Spagna dove ottenne dal sovrano (il futuro Carlo V) un mandato ufficiale per la conquista del Perù e la successiva amministrazione del territorio. Tornato in America, dopo aver reclutato una parte di uomini nella madrepatria, Pizarro completò il suo corpo di spedizione a Panama da dove partì nel 1531 alla volta del Perù. Aveva con sé 183 uomini e 37 cavalli e con questa esigua forza in pochi mesi si impadronì dellimpero inca giocando sulla lotta dinastica che era scoppiata al suo interno e, soprattutto, avvantaggiandosi della struttura rigidamente centralizzata di quello Stato nel quale bastava avere il controllo del re per dominare la situazione. Il re Atahualpa (1500-1533), che aveva da poco sconfitto il fratello Huáscar nella lotta per la successione, cadde prigioniero di Pizzarro e venne da lui giustiziato con una falsa accusa di tradimento. Il conquistatore spagnolo, ormai padrone del campo, si dedicò con i suoi uomini alla sistematica razzia delle ricchezze del paese. Ma così facendo entrò in conflitto con i suoi compagni di avventura e in particolare con de Almagro contro cui condusse una vera e propria guerra nel 1537. L’anno successivo Pizarro sconfisse e uccise il rivale ma venne poi a sua volta ucciso (1541) dal figlio di quello, Diego. Le lotte fra le diverse fazioni dei conquistatori si conclusero solo nel 1548 quando i ribelli vennero battuti e l’ordine ristabilito dal viceré Pedro de la Gasca mandato appositamente in Perù dalla corte di Spagna (Documenti: Descrizione dei conquistatori). 9 – Esseri umani o “omuncoli” da rendere schiavi? Contro gli orrendi massacri compiuti durante la conquista del Messico e del Perù, come del resto in tutte le spedizioni dello stesso tipo, si levarono alcune voci indignate, prima di tutto fra i religiosi. Tanto più che le uccisioni in massa nel corso dei saccheggi, non meno della riduzione in schiavitù dei sopravvissuti, venivano giustificati nel quadro di unazione che aveva come scopo dichiarato quello di estendere nel mondo la fede cristiana. Famose sono le accuse lanciate dal frate domenicano Bartolomé de Las Casas (1474-1566) che descriveva il comportamento degli spagnoli fra gli indios come quello di “lupi, tigri o leoni crudelissimi da molti giorni affamati dediti a forme di crudeltà strane, varie, mai viste prima dora né lette né udite, alcune delle quali ci saranno in seguito descritte ma ben poche in confronto alla loro quantità. Queste denunce tuttavia non suscitarono reazioni significative né nella madre patria, dove i racconti giungevano affievoliti dalla distanza, né tanto meno fra coloro che avevano affrontato i disagi del viaggio e del soggiorno nel nuovo continente mossi esclusivamente dal desiderio di ricchezze. Si sviluppò comunque un acceso dibattito che coinvolse filosofi e uomini di chiesa intorno alla natura più o meno umana dei selvaggi. Infatti in un paese cattolico come la Spagna non si potevano accettare, almeno ufficialmente, deroghe al principio della fratellanza tra i figli di Dio e per poter ridurre qualcuno in schiavitù trattandolo come un animale bisognava poter dimostrare in qualche modo che la sua natura era più vicina a quella delle bestie che a quella degli uomini. E ciò che pensava, con assoluta convinzione, il dotto umanista Juan Gines de Sepùlveda (1490-1573) secondo il quale gli abitanti indigeni del nuovo continente non erano esseri umani a pieno titolo, ma omuncoli nei quali a stento potrai riscontrare qualche traccia di umanità, e che non solo sono totalmente privi di cultura, ma non conoscono luso delle lettere, non conservano alcun documento della loro storia (escluso qualche tenue e oscuro ricordo di alcuni avvenimenti affidato a certe pitture), non hanno alcuna legge scritta ma solo istituzioni e costumi barbari. Contro questo tipo di posizioni poco riuscirono a ottenere coloro che, come Las Casas, sostenevano che non vi sono nazioni al mondo, per quanto zotiche, incolte, selvagge e barbare, rozze o crudeli e quasi animalesche esse siano che non possano essere persuase, condotte ed avviate allordine e alla civiltà e diventare civilizzate. Daltra parte in queste affermazioni del buon padre domenicano lumanità delle popolazioni selvagge e incolte si misurava con la loro disponibilità a essere persuase, condotte ed avviate allordine e alla civiltà e diventare civilizzate. Las Casas non aveva dubbi sul fatto che vi fossero una sola civiltà e una sola cultura e che gli spagnoli, in quanto europei e cristiani, la rappresentassero, sia pure con qualche sintomo di corruzione nei loro comportamenti (cfr. Documenti: Un esempio di relativismo culturale). Egli era convinto che le popolazioni americane potessero fare propri i valori della civiltà cristiane e per questo andavano salvaguardate e difese. Anche se per farlo lo stesso Las Casas non si fece scrupolo di proporre la deportazione degli africani che, essendo di costituzione più robusta degli indios, potevano utilmente sostituirli come schiavi nelle piantagioni (Documenti: Un esempio di relativismo culturale). 10 - Le cifre di un genocidio Abbiamo detto sopra che, secondo dati necessariamente imprecisi ma certamente vicini alla realtà, più di settanta milioni di persone sparirono dal numero degli abitanti della terra nel corso del secolo che seguì l’arrivo degli europei sul continente americano. Dei popoli che lo abitavano dei Maya, degli Aztechi, degli Inca e di tutti gli altri di cui non si ricordano neanche i nomi, restano solo i resti di pochi monumenti che, per essere privi di metalli preziosi, sono sfuggiti ai saccheggi e alle distruzioni dei conquistatori. Molti furono i morti provocati direttamente dalle armi dei soldati spagnoli: uccisi in battaglia, ma più spesso vittime inermi di massacri compiuti per seminare il terrore e piegare le resistenze o, più banalmente, per il semplice gusto di uccidere (cfr. Documenti: Massacri senza scopo). Molti furono coloro che persero la vita per il brutale sfruttamento a cui furono sottoposti nelle piantagioni e poi nelle miniere dove finalmente erano stati trovati l’oro e l’argento tanto agognati dai conquistatori. Ma le conseguenze disastrose che ebbe sulla popolazione indigena del continente americano limpatto con i nuovi venuti dallEuropa, non sono misurabili soltanto con le cifre pure impressionanti dei massacri e delle migliaia di persone uccise di fatiche e di stenti. A tutto questo va aggiunto un drastico calo della natalità dovuto alle condizioni di vita imposte alla popolazione. “Non si accostano più alle loro donne, per non generare degli schiavi”, scrive il vescovo Zumàrraga in una relazione al re di Spagna e altri testimoni aggiungono che, quando pure i bambini nascevano, “morivano subito perché le madri, stanche e affamate, non avevano latte per alimentarli” (Las Casas). Infine larrivo degli europei fu micidiale per i nativi americani perché portò loro il contagio con malattie per loro sconosciute e contro le quali non avevano potuto sviluppare gli anticorpi necessari. Così, nel corso degli anni, la popolazione che era sopravvissuta ai massacri e al lavoro forzato, venne decimata dal vaiolo, dal morbillo, dal tifo e da varie forme di febbri influenzali. (parodos.it)
Posted on: Sun, 20 Oct 2013 18:25:23 +0000

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