La missione della famiglia, dopo Torino Versione - TopicsExpress



          

La missione della famiglia, dopo Torino Versione stampabileVersione stampabile Stefano Zamagni* - Assai opportunamente, la 47˚ Settimana sociale dei Cattolici italiani di Torino, del cui successo e dei principali risultati emersi altri dirà, ha scelto come tema La famiglia, speranza e futuro per la società italiana. Il titolo, assai azzeccato, dice dell’attenzione e del coinvolgimento del mondo cattolico italiano nell’affrontare quella che, con buone ragioni, si può ormai chiamare l’emergenza familiare. È un fatto che, nonostante una certa retorica di maniera, nel nostro paese si continua a vedere la famiglia solamente come una delle voci di spesa del bilancio pubblico e non anche come risorsa strategica per lo sviluppo umano integrale. Del pari, si continua a considerare la famiglia variabile dipendente che, in quanto tale, deve adeguarsi a quanto viene deciso per gli altri attori sociali. E soprattutto non riesce ad essere accettata l’idea che la famiglia, prima ancora di essere soggetto di consumo, è soggetto di produzione. Oggi v’è un’abbondante evidenza empirica che indica come la famiglia sia il massimo generatore di capitale umano, capitale sociale, capitale relazionale; altro dunque che luogo degli affetti e basta! Come la seconda Conferenza nazionale delle Famiglie del novembre 2010 a Milano ha chiaramente posto in luce, non solamente la spesa pubblica italiana per i servizi alla famiglia è immeritatamente bassa (contro una media Ue dell’8% della spesa sociale l’Italia destina alla famiglia il 4,1%). Ma le modalità con cui vengono combinate le politiche che attribuiscono alla famiglia risorse di tempo (orari flessibili, part-time, congedi parentali, ecc.), risorse monetarie (deduzioni e/o detrazioni; buoni per l’acquisto di beni e servizi, tariffe, ecc.), risorse per la fornitura diretta di servizi di cura sono tali da determinare spesso effetti perversi. Questo accade perché si continua ad avanzare con politiche settoriali per età (bambini, giovani, anziani non autosufficienti, ecc.) anziché passare a politiche del corso di vita aventi per fine un sistema integrato per la promozione del benessere familiare. La famiglia, infatti, non è una somma di segmenti tra loro indipendenti, ma un prodotto degli stessi: se uno di questi soffre, è l’intera famiglia a risentirne! Ce lo ricorda il documento preparatorio del Comitato scientifico e organizzatore quando, citando Giovanni Paolo II, scrive: «È necessario soprattutto passare da una considerazione delle famiglie come settore ad una visione della famiglia come criterio di misura di tutta l’azione politica, perché al bene delle famiglie sono correlate tutte le dimensioni della vita umana e sociale». (Messaggio al presidente della Cei a vent’anni dalla Familiaris Consortio, 15 ottobre 2001). Riscoprire le potenzialità della famiglia Eppure, se si leggono con attenzione i documenti della strategia di Lisbona, si scoprirà che, mentre si parla ad abundantiam di capitale umano, di capitale sociale, di capitale civile, mai la famiglia in quanto tale viene chiamata in causa, come se quest’ultima non fosse uno dei più importanti generatori di quei capitali. Ancora, l’Eurobarometro, nei suoi rapporti periodici, non perde occasione per indicare che c’è un divario crescente tra il numero di figli che gli europei desidererebbero mettere al mondo e quelli che effettivamente nascono. Quanto a dire che la libertà di scelta dei coniugi non trova il modo di essere tradotta in pratica: una sorta di razionamento implicito nell’accesso alla generatività responsabile è all’opera nelle nostre società. Nei trattati europei non si fa parola di una qualche politica familiare europea, dato che l’intera materia viene lasciata agli Stati membri. Il che finisce col determinare serie discrasie, dal momento che la vita delle famiglie europee deve fare i conti con non poche delle direttive comunitarie in aree quali la protezione sociale, i tempi di lavoro, l’eguaglianza di genere, la salute, l’educazione. In tutti questi ambiti la famiglia diviene oggetto di interesse europeo come destinataria di regolamenti e provvedimenti vari, ma invano l’osservatore attento troverebbe in tali documenti che alla famiglia è riconosciuta una sua specifica soggettività. Non c’è allora da sorprendersi se il Rapporto 2008 del Global Gender Gap, promosso dal World Economic Forum, vede l’Italia in 84a posizione su 128 paesi per quanto riguarda la partecipazione femminile al mercato del lavoro (con una perdita di ben sette posizioni rispetto al Rapporto precedente). E non c’è da stupirsi se il Primo rapporto sulle politiche famigliari dell’Ocse (Parigi, 27 aprile 2011) denuncia con forza la situazione italiana per il modo in cui vengono lasciate al loro destino le donne che cercano con fatica di armonizzare i tempi di vita familiare con i tempi di vita lavorativa. Il rischio sarà - viene evidenziato nel Rapporto - che i giovani che oggi hanno un’età compresa tra i venti e i trenta anni si vedranno in grande difficoltà quando decideranno di generare figli, dopo essere stati “costretti” a posticipare tale desiderio a causa di un mercato del lavoro non amico della famiglia. Mi piace riportare qui il n. 67 della Gaudium et Spes (1964): «Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita». Quanto a dire che è il processo produttivo che va organizzato in modo tale da consentire la fioritura umana e, in particolare, da rendere possibile l’armonizzazione dei tempi di lavoro e di vita familiare. Il che è oggi tecnicamente ed economicamente possibile, a condizione che sia l’impresa sia la famiglia mutino il loro modus agendi: la prima nel senso di andare oltre l’ormai obsoleto modello di organizzazione taylorista; la seconda nel senso di superare quel modello di conduzione familiare con rigidi ruoli specializzati, fondato sul devastante principio del «vantaggio comparato» tra uomo e donna. La famiglia conserva l’armonia, e quindi diviene luogo di felicità, quando la differenza dei generi diventa occasione di complementarità strategiche e non giustificazione di discriminazioni di varia natura e quando soprattutto l’obiettivo sacrosanto di accrescere il reddito familiare non viene perseguito in modo da mettere a repentaglio le relazioni intrafamiliari, quelle tra i coniugi e tra questi e i figli. Armonizzare famiglia e lavoro È noto che uno dei temi oggi di maggior rilevanza è quello della complessa relazione tra vita familiare e vita lavorativa. Nel dibattito pubblico contemporaneo questo tema viene reso con l’espressione work-life balance, cioè a dire bilanciamento, conciliazione tra famiglia e lavoro. Si tratta di una espressione infelice che tradisce una certa impostazione culturale che il mondo cattolico non può condividere. Il termine conciliazione, infatti, postula l’esistenza di un conflitto, o meglio di un trade-off quanto meno potenziale tra questi due fondamentali ambiti di vita, ciascuno dei quali dotato di una sua propria specificità e di un suo proprio senso. Ritengo invece che non vi siano ragioni di principio che possano far parlare di due polarità tra cui è necessario stabilire pratiche conciliative, perché se è vero che quello del lavoro è anche un tempo di vita, del pari vero è che la vita familiare include una specifica attività lavorativa, anche se questa non transita per il mercato. In un pregevole contributo del Comitato per il progetto culturale della Cei si legge che il valore annuale complessivo del lavoro familiare, secondo il metodo del costo opportunità, si aggirerebbe sui 570 miliardi di euro e quello ottenuto secondo il metodo di calcolo del costo del servizio sarebbe all’incirca di 433 miliardi di euro. Dunque il lavoro domestico ha un peso economico ragguardevole in Italia: circa un quarto del Pil nazionale. (Cfr. Cei, Per il lavoro, Laterza, Roma-Bari 2013, cap. 3). Si tratta dunque, per un verso, di andare oltre una concezione puramente materialistica e strumentalista del lavoro, secondo cui quest’ultimo sarebbe solo pena e alienazione e, per l’altro verso, di smetterla di concepire la famiglia come luogo di solo consumo e non anche come un soggetto produttivo per eccellenza, generatore soprattutto di quei beni immateriali (fiducia, reciprocità, beni relazionali, dono come gratuità) senza i quali una società non sarebbe capace di futuro. È il dualismo (si badi, non la dualità) famiglia-lavoro ad aver veicolato l’idea che le politiche di conciliazione, di cui tanto si va parlando anche nel nostro paese da ormai diversi anni, dovrebbero limitarsi a mirare, da un lato, a migliorare la produttività delle imprese e, dall’altro, ad accelerare il processo verso la piena liberazione della donna dalla segregazione occupazionale. (Cfr. S. e V. Zamagni, Famiglia e lavoro. Conflitto o armonia?, Milano, San Paolo 2012). Ecco perché al termine conciliazione preferisco quello di armonizzazione responsabile. Nel greco antico armonia era l’intercapedine che occorreva frapporre fra due corpi metallici perché, sfregandosi, non andassero a produrre attrito e quindi scintille pericolose. L’idea di armonia è dunque quella di concordia discors. Duplice, allora, il fine che è bene attribuire alle politiche di armonizzazione tra famiglia e lavoro (di mercato): superare la diffusa femminilizzazione della questione conciliativa a favore di un approccio reciprocitario tra famiglia e lavoro, per un verso; provocare un ripensamento radicale circa il modo in cui avviene l’organizzazione del lavoro nell’impresa di oggi, per l’altro verso. Per dirla in altri termini, non condivido la posizione di chi ritiene che i molteplici strumenti di conciliazione finora proposti e talvolta messi in pratica (congedi parentali, lavoro part-time, asili nido, banche delle ore, flessibilità degli orari, programmi di «buon rientro» in azienda, mentoring, ecc.) debbano essere pensati unicamente per consentire alla donna che ha famiglia di adattarsi al meglio alle esigenze del ciclo lavorativo al duplice fine di accrescere il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro — tasso che, come noto, è particolarmente basso nel nostro paese — e quindi di aumentare il reddito familiare. Perché se questi fini, di per sé legittimi e auspicabili, vengono perseguiti in modo tale da peggiorare la qualità delle relazioni intra e interfamiliari, il risultato netto, alla lunga, non potrebbe che essere negativo. In una recente e poderosa ricerca dell’Oecd si legge che le «politiche di riconciliazione includono tutte quelle misure che estendono sia le risorse familiari (reddito disponibile e servizi di cura per i figli) sia l’attaccamento dei genitori al mercato del lavoro» (sic!). Invero la parola chiave che sintetizza la filosofia delle politiche europee in materia è quella di adaptability alle supposte «leggi ferree» del mercato del lavoro — come già si esprimevano Robert Malthus e altri studiosi nel 19˚ secolo. È la famiglia dunque che deve adattarsi alle necessità di quest’ultimo, e non anche viceversa. Soprattutto è la donna che deve adattarsi alle esigenze dell’impresa attraverso l’accettazione implicita del trade-off tra possibilità di conciliazione e rinuncia agli avanzamenti di carriera. È contro questa vera e propria ideologia dell’efficientismo come principio che dovrebbe sopravanzare ogni altro valore che occorre prendere decisa posizione. Una ideologia a tutta prima suadente, perché pervasa di un certo buonismo compassionevole nei confronti della odierna condizione femminile, ma il cui esito finale certo sarebbe l’estinzione o comunque la derubricazione della famiglia da asse portante della società. Non ci si deve allora meravigliare se nel disegno delle politiche familiari il favore va, di fatto, ai Dinks (Double Income No Kids), vale a dire ai nuclei con due redditi e senza figli. Affari di famiglia Ritengo piuttosto che le politiche di armonizzazione debbano essere declinate a livello di coppia, perché la famiglia non è un affare solo femminile. Ciò comporta, nel concreto, di passare dal gender mainstreaming — nozione accolta nel Trattato di Amsterdam del 1997, secondo cui si devono porre in atto misure volte a realizzare pari opportunità fra i generi — al family mainstreaming, secondo cui è anche alle relazioni intrafamiliari che si deve prestare attenzione nel momento in cui si pone mano alla riorganizzazione del processo lavorativo. Solo un paio di esempi per illustrare il punto. La flessibilità occupazionale oggi resa possibile dalle varie forme di lavoro atipico introdotte dal «pacchetto» Treu (L. 196/1997) e dalla legge «Biagi» (L. 30/2003 e D.Lgs 276/2003), mentre va incontro all’esigenza dell’impresa di migliorare la propria performance economica, e mentre favorisce bensì la ricerca e l’ottenimento di lavoro, sia pure precario, non è certo a misura di famiglia, perché tende ad aggravare la segregazione di genere. Altro esempio. Asili nido, servizi di cura per gli anziani non autosufficienti e altri istituti del genere sono bensì un aiuto formidabile per la famiglia, ma se vengono disegnati in modo da deresponsabilizzare i genitori rispetto alla loro missione educativa oppure in modo da allentare i legami di solidarietà intergenerazionale, è evidente che essi conducono alla lunga a delegittimare il ruolo della famiglia. Ecco perché è necessario introdurre nella legislazione un qualche indicatore che esprima la valutazione di impatto familiare (Vif) delle misure di politica del lavoro e di welfare che si vanno ad adottare. Perché mai se si è potuta votare una legge in Italia sulla Via (valutazione di impatto ambientale) non si dovrebbe poter approvare una legge sulla Vif? La famiglia è vita Prima di chiudere, una chiosa sull’elemento della generatività della famiglia. La sua interpretazione solo come generazione di nuove vite è riduttiva. È noto, infatti, che la Chiesa cattolica ha sempre considerato il matrimonio indissolubile anche quando i coniugi non riescono ad avere figli. Per converso, c’è sempre stata generazione di nuove vite fuori dal matrimonio. Il profondo significato della generatività all’interno della famiglia ha a che vedere con l’accompagnamento, la costanza, la pazienza, la pratica reiterata della relazionalità che essa è capace di realizzare. Altrimenti non si capirebbe perché alla stabilità della famiglia (che il cattolicesimo eleva ad indissolubilità) sia sempre stato ascritto un valore particolare. La creazione di nuova vita non è mai un atto confinato in una singola unità di tempo, ma ha una durata lunga e complicata per arrivare a dare frutti maturi. Non ci vuole meno di una famiglia che continui nel tempo per realizzare questa generatività e insegnarla alle nuove generazioni. Anche se nella famiglia non ci sono figli, la sua generatività si esplica nel far progredire gli sposi con il costante aiuto reciproco verso una personalità più piena e matura. La perdita di questo concetto di generatività è alla radice dei matrimoni procrastinati anche da parte di chi ha in animo di sposarsi: non si pensa che è attraverso il matrimonio che si potranno perfezionare le capacità individuali degli sposi, così come le loro risorse economiche. Il matrimonio è allora erroneamente vissuto come un punto di arrivo, non già come un punto di partenza verso nuovi e più ambiziosi traguardi. In quanto seminarium civitatis — Cicerone preferiva l’espressione seminarium rei publicae — la famiglia mai può dimenticare che la sua missione è anche quella di rendere lo Stato più civitas (e meno polis). E poiché è la civitas che genera la civilitas, si può comprendere perché, oggi più che mai, c’è disperato bisogno della famiglia. La quale però deve sforzarsi di più di coltivare quella che l’antropologo indiano Arijun Appadurai ha chiamato la capacità di aspirare (capability to aspire). È questa la capacità che chiama in causa la partecipazione delle persone alla costruzione delle rappresentazioni sociali e simboliche che danno forma al futuro, ai progetti di vita. Un celebre racconto di Chatwin ci svela come si può fare per coltivare questa capacità. Questo. Un bianco schiavista riesce a convincere i suoi portatori neri ad accelerare il passo in cambio di denaro. Nonostante l’accettazione iniziale dell’offerta, i portatori si fermano molto vicini alla meta e non vogliono procedere oltre. Richiesti della spiegazione del loro irrazionale comportamento, rispondono: «Per dare tempo alle nostre anime di raggiungerci». È proprio così: di tanto in tanto abbiamo bisogno di sostare per consentire alle nostre anime di raggiungerci. *pubblicato su Dialoghi 3/2013
Posted on: Sat, 30 Nov 2013 17:27:39 +0000

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