La partecipazione di massa Lesempio di collaborazione di massa - TopicsExpress



          

La partecipazione di massa Lesempio di collaborazione di massa online più noto è Wikipedia, lenciclopedia universale che oggi conta molti milioni di voci in molte decine di lingue, create da migliaia di collaboratori in maniera gratuita. È un grande esperimento che presenta molti aspetti innovativi rispetto ai modelli partecipativi tradizionali. Non vive di pubblicità ma di donazioni, caso unico per uno dei siti più visitati e utilizzati al mondo. Ha soprattutto il merito di porre laccento sulle motivazioni non economiche che spingono le persone a collaborare a un progetto, al di là della stantia retorica delleconomia del dono. Si tratta piuttosto di uneconomia del riconoscimento e dellattenzione, perché i collaboratori di Wikipedia sono mossi principalmente dal desiderio di riconoscimento da parte dei pari, dal bisogno di dare un senso alle proprie competenze e di vederle riconosciute in maniera ampia. Non mancano le criticità. Il gruppo dei collaboratori di Wikipedia inizia a comportarsi in maniera censoria, desidera differenziarsi dalla massa degli utenti (invece di costruire creativamente la propria identità). Al suo interno cominciano a manifestarsi logiche egemoniche e di dominio, si accendono conflitti fra wikipediani, e la favola della partecipazione di massa si rovescia nella costruzione di sofisticate tecnoburocrazie che regolano l’accesso. Ma soprattutto, bisogna sfatare il mito di Wikipedia come risultato di collaborazione fra esseri umani uniti da un medesimo ideale: molto più rilevante, anche in termini numerici, è la collaborazione fra esseri umani e bots. I bots sono piccoli programmi informatici capaci di assolvere compiti automatizzati senza lintervento umano; ad esempio, Rambot ha creato circa trentamila articoli di città estraendo i dati dal CIA World Factbook e dai dati anagrafici USA. Al momento i bots hanno creato oltre il 20% del totale degli articoli di Wikipedia, dando vita a un complesso esperimento sociotecnico, nel quale lidea di Parlamento delle cose di Bruno Latour appare quanto mai attuale. Che siamo entusiasti o detrattori di Wikipedia, è innegabile che linterazione sociale in sistemi del genere è mediata da processi codificati e automatizzati, ragion per cui questioni delicate come laffidabilità delle conoscenze vengono confidate in misura sempre maggiore a macchine. Come si stabiliscono gerarchie evolutive fra contributi affidabili e non affidabili, umani e meccanici. La validazione delle fonti, la redazione di protocolli per risolvere i conflitti, la presa in carico delle politiche di fruizione delle risorse comuni sono tutti punti allordine del giorno. Nel complesso, nonostante enormi differenze, la logica intrinseca di Wikipedia non si discosta da quella della banda dei quattro dei mondi digitali, Amazon, Facebook, Google, Apple: è la logica dell’accumulo, dei grandi numeri, della forza delle masse. Pur non essendo broadcast come i media tradizionali, aspirano ugualmente all’egemonia. Si fanno la guerra perché desiderano conquistare un pubblico più vasto, un consenso più ampio153. Pur esaltando la «coda lunga» dei milioni di individui particolari insoddisfatti dalla comunicazione di massa, si comportano come aggregatori interessati alla quantità molto prima che alla qualità. Promuovono lossimoro dellelitismo di massa. Se un numero limitato di partecipanti è essenziale per realizzare un convivio, le masse sono condannate alla trivialità, schiacciate fra autopromozione e autosfruttamento? Secondo James Surowiecki, no. In La saggezza della folla Surowiecki si sforza di mostrare, in maniera ideologica, come un gruppo di persone scelte a caso possegga collettivamente competenze superiori a quelle di una o più persone estremamente intelligenti e preparate. Il concetto di saggezza della folla non implica che un gruppo darà sempre la risposta giusta, ma che in media darà una risposta migliore di quella che potrebbe dare un singolo individuo, ovvero che una folla eterogenea in media sia in grado di prendere decisioni migliori di un esperto. Abbiamo già evidenziato l’esigenza di mettere in discussione l’expertise, e anzi di ritorcere il potere degli esperti contro loro stessi. Quando la conoscenza tecnica è riservata o delegata ai soli esperti specializzati, questi perdono rapidamente la capacità di percepire la responsabilità globale nell’uso dei saperi-poteri. Ciascuno si relaziona esclusivamente con il proprio orticello, i propri committenti, i propri interessi di lobby. Parallelamente, i cittadini, le persone comuni, perdono l’accesso alla conoscenza stessa. Ecco quindi le condizioni per la saggezza collettiva diffusa (corsivi miei): diversità di opinione (ognuno ha qualche informazione che gli altri non hanno, anche se si tratta semplicemente di una interpretazione stravagante di fatti noti a tutti), indipendenza (le opinioni di una persona non sono condizionate da quelle degli altri), decentramento (specializzazione) e capacità di sfruttare capacità specifiche e aggregazione (esiste un meccanismo capace di trasformare un giudizio personale in una decisione collettiva)154 Surowiecki sottolinea l’importanza della diversità (un «valore in sé») e dell’indipendenza, perché le decisioni collettive migliori nascono dal disaccordo e dalla disputa, non dal consenso e dal compromesso. Portando numerosi e convincenti esempi (la costruzione del sistema operativo GNU/Linux, la collaborazione fra laboratori di ricerca di tutto il mondo nella scoperta della SARS), l’autore mostra che, per quanto possa sembrare paradossale per l’habitus mentale della maggioranza guidata da una minoranza rappresentativa, l’intelligenza di un gruppo è migliore se ognuno dei suoi componenti pensa e agisce nel modo più indipendente possibile. Lautonomia individuale è la chiave di un buon collettivo, sempre che si concordino regole di condivisione funzionali. Ma se osserviamo lattività concreta di un individuo che si mette in relazione a una rete in via di organizzazione, ci rendiamo immediatamente conto che non si tratta solo di prendere decisioni. Si tratta soprattutto di godersi un percorso comune, di sperimentare il piacere del ritrovarsi, del confronto con l’ignoto in una progettualità condivisa, dell’incontro con l’altro, e spesso anche semplicemente dello stare insieme, tra armonie e conflitti. La folla diventa interessante solo quando ci si avvicina e si scoprono le differenze che la compongono, le storie che s’intrecciano per dare luogo a una narrazione collettiva. Viste da lontano, le persone sono numeri in una statistica, puntini ininfluenti. La partecipazione è interessante solo se i singoli individui sono presi in un processo personale di crescita. Come si procede dunque nel quadro dei mondi digitali? Non diversamente che offline. È interessante continuare a usare Surowiecki suo malgrado, proprio perché non condividiamo minimamente la sua spropositata fiducia nelle masse, né la sua preoccupazione per il business. La diversità è più importante nei piccoli gruppi e nelle organizzazioni informali che non nei gruppi più ampi, come i mercati o gli elettorati, per un semplice motivo: le dimensioni stesse della maggior parte dei mercati, unite al fatto che chiunque abbia del denaro può entrarci (non c’è bisogno di essere accettati o assunti), garantiscono comunque un certo livello di diversità. [...] La questione delle dimensioni è quindi strettamente legata alla questione dell’economia. Una lunga tradizione di pensiero rileva che il progetto dell’economia, letteralmente «regola-norma-legge della casa-ambiente (per estensione, dell’abitare)», è irriducibilmente in contrasto con l’ecologia, il «discorso sulla casa-ambiente-abitare». In parole povere, un discorso che parte dall’economico non può avere come obiettivo il benessere sociale, anche se lo dichiara, perché socialità ed economia sono discorsi opposti. Eppure non mancano tentativi, spesso fortunati, di cooptazione delle pratiche dell’ecologia sociale nel quadro economicista. Una presunta «nuova tecnologia» in grado di realizzare il benessere diffuso è generalmente un buon viatico per sfruttare le energie disponibili. È la convinzione della Wikinomics (economia del wiki) di Tapscott e Williams, o della Socialnomics (economia sociale) di Qualman. Sono nuove teorie economiche e sociali collaborative, invece che basate sulla competizione. L’idea, propagandata come una scoperta epocale, è che la collaborazione sociale genera un valore aggiunto maggiore rispetto alla competizione. Osservazione del tutto banale in ambiti non aziendali, che risulta però effettivamente innovativa nel mondo degli affari. Anche la wikinomics si basa su quattro principi: l’apertura, il peering (organizzazione «autonoma» delle persone nel contesto aziendale), la condivisione (le imprese mettono a disposizione del loro «ecosistema» di clienti-fornitori-partner le loro conoscenze-competenze, per favorire dinamiche sinergiche di crescita) e l’azione globale (assenza di confini geografici: il business è ovunque). Il concetto più interessante, che palesa la trasformazione dell’equilibrio dinamico ecologico in sfruttamento economico, è quello di apertura, derivato dall’addomesticamento neoliberale del concetto di libertà. Come la libertà del free software era scomoda per il libero mercato, ed è stata rapidamente trasformata in apertura nel redditizio affare dell’open source159, così l’impresa, tradizionalmente dedita alla competizione e chiusa, realizza la sua presunta libertà di mercato attraverso un’apertura all’esterno. Allo stesso modo la società aperta viene propagandata come un prodotto automatico dellapertura libertariana della socialità online. Le imprese hanno ormai confini «porosi» e sempre meno certi. Si aprono all’outsourcing, scompare la rigida separazione fra tempo libero e tempo occupato, non perché la tecnologia sottrae tempo alla produzione in favore della socialità, ma nel senso che ogni istante viene messo a profitto. Sappiamo bene che impiegati dotati di cellulari aziendali e connessioni costanti sono sempre raggiungibili, sempre in contatto fra di loro, sempre produttivi anche quando non vengono retribuiti. Sono insomma autori sempre attivi e scarsamente riconosciuti. Sono veri e propri servi dell’autosfruttamento globale della wikinomics, automi che scrivono senza soluzione di continuità l’immenso romanzo d’appendice della cultura digitale, magari sentendosi partecipi dell’Intelligenza Collettiva delle Reti. Fino allassurdo imperativo, assolutamente huxleyano, di partecipare al benessere comune esercitando il proprio potere di consumatori. Ma se la crescita è necessaria, e se dobbiamo tutti contribuire a far girare leconomia, è possibile che a breve non indebitarsi sarà considerato immorale, e gli appelli alla decrescita saranno puniti alla stregua di programmi eversivi. Se le masse sono tanto intelligenti e collaborative, si potrebbe immaginare che lattivismo da tastiera sia un fenomeno residuale, e magari anche che la democrazia di massa sia dietro langolo. Ma le cose non stanno così, perché non sempre un gruppo funziona meglio di un singolo. La somma di singoli individui quasi intercambiabili fra loro, dotati di scarse competenze, poco disposti a mettersi in discussione, con poco tempo disponibile da dedicare alla costruzione di un mondo comune potrà anche generare molti click su banner pubblicitari, ma non dà vita a una partecipazione collettiva di grandi speranze. Prima che la Silicon Valley impazzisse per la saggezza delle folle, gli psicologi sociali avevano già da tempo scoperto che in gruppo gli individui possono mostrare unefficienza minore rispetto a quando lavorano da soli. La sinergia non è un riflesso condizionato. Nel 1882 lingegnere agricolo Maximilien Ringelmann condusse un esperimento nella campagna francese: quattro persone dovevano tirare una corda, prima tutti insieme, poi da soli. La corda era attaccata a un dinamometro, per misurare la forza di trazione esercitata. Ringelmann rimase sorpreso constatando che la somma delle forze di trazione individuali erano notevolmente maggiori rispetto a quella del gruppo. Molti altri studi hanno confermato leffetto Ringelmann, cioè che di solito ci sforziamo molto meno in un compito quando ci sono altri che lo fanno insieme a noi. In particolare questo effetto anti-sinergico si verifica quando si tratta di compiti semplici, ripetitivi, nei quali ognuno è sostituibile, tutti sono formalmente importanti ma nessuno fa la differenza: applaudire a uno spettacolo, votare, condividere un link, dire «mi piace». Quando manca la valorizzazione delle differenze individuali, laumento del numero dei partecipanti spesso genera risultati sempre peggiori. La pressione sociale relativa alle caratteristiche peculiari di ciascuno diminuisce. Perché dovremmo metterci in gioco, con passione, quando chiunque può dire al nostro posto «mi piace»? In una massa non abbiamo ragione di volerci distinguere perché lidentità di gruppo è determinata dallomologazione, non dalleccezionalità. Banalmente, un individuo atomizzato formato in permanenza a essere il più possibile intercambiabile con qualsiasi altro atomo deve sviluppare caratteristiche standard per essere appetibile al mercato globale, in uninfinita riproduzione dellidentico con minime variazioni, già previste dal sistema di profilazione. Un individuo autonomo sarà invece tanto più interessante quanto più unico, dotato di caratteristiche particolari, miscela irripetibile di differenti ingredienti ed esperienze. È logico pensare che un individuo del genere parteciperà a diversi gruppi, non per auto promozione, ma per il piacere di scambiare e di stare con altri individui affini. Appartenere a una comunità, a una rete organizzata come un noi, significa allora sentirsi rappresentati, non perché si ha diritto di veto o potere di voto, ma perché si influenza direttamente la rete, si influenzano gli altri e ci si fa influenzare. Si cambia e si inducono cambiamenti, stratificando una storia comune. È un equilibrio necessariamente dinamico e complesso, nel quale i limiti reciproci sono oggetto di rinegoziazione continua. Non si possono immaginare individui già dati una volta per tutte, determinati da principi assoluti come gli attori del mercato libertariano, che intervengono in gruppi perfettamente e compiutamente codificati, aderendo totalmente a un manifesto o a una dichiarazione dintenti. Daltra parte, anche le competenze più straordinarie di un singolo devono trovare il modo di armonizzarsi in una rete organizzata, perché uscire dalla dimensione di massa non significa diminuire il controllo. Al contrario: il controllo capillare esiste sicuramente anche nei piccoli gruppi, anzi forse proprio nelle piccole dimensioni raggiunge il suo apice d’intensità. Lerrore di una sola persona può determinare il fallimento di tutti. Il malessere di uno può contagiare gli altri, i conflitti possono incancrenirsi fino a oscurare ogni aspetto positivo. Cè però una grande differenza fra un controllo gestito da sistemi automatizzati a scopo di lucro, come nel caso della profilazione di massa, e il controllo reciproco dei membri di un piccolo gruppo. In un gruppo di affinità i legami che danno vita alla rete sono altrettante relazioni di fiducia. Si può avere fiducia nel giudizio altrui e usare il gruppo come specchio. Il controllo sociale può diventare così una forma di garanzia dellautonomia individuale, soprattutto nei momenti di scoramento e stanchezza, quando lindividuo manca di lucidità, si comporta in maniera avventata, noiosa, distruttiva. Depositari di una storia condivisa, e quindi anche della nostra storia, sono gli altri a ricordarci che non siamo sempre stati in preda alla disperazione, alla sofferenza. In passato abbiamo contribuito in maniera significativa, e potremmo farlo anche in futuro. È lattenzione, il riconoscimento per la creatività individuale il bene circolante in una rete organizzata. È il tempo dedicato in maniera esclusiva, o comunque prioritaria e privilegiata alla tessitura di quel legame a creare un valore inestimabile. Esiste una vasta gamma di temi, particolarmente ostici dal punto di vista tecnico, ma centrali nel dibattito politico e sociale, che vengono delegati al parere degli esperti perché considerati troppo complessi per la gente comune. La fabbricazione di Organismi Geneticamente Modificati (OGM), la costruzione di Internet, l’utilizzo dell’energia nucleare, i farmaci abortivi sono esempi concreti. OGM, software, centrali nucleari, farmaci sono prodotti della tecnoscienza e attori a pieno titolo nel gioco di costruzione della realtà. Queste cose vengono create di sana pianta e creano problemi prima impensabili (il buco dell’ozono, la collaborazione umani-bots, la peste aviaria, un giorno il vaccino per l’AIDS...) e non hanno un posto adeguato nemmeno nel nostro immaginario perché abbiamo delegato ai tecnici la gestione di queste nuove cose. Oltre all’ormai classico di Bruno Latour, Il culto moderno dei fatticci, Meltemi, Roma, 2005 si veda l’eccellente panoramica di Laura Bovone, «Dai fatti ai «fatticci»: conoscenza scientifica e senso comune oggi», in Studi di sociologia, 2, 2008, pp. 137-157. Lentusiasmo che circonda le guerre per il predominio tecnologico continua ad essere sbalorditivo. È un probabile lascito del peggior spirito di competizione capitalistica lidea per cui gli utenti beneficiano della concorrenza spietata, schierandosi per questo o quel leader carismatico Dall’alto della ruota, i puntini umani che si agitano in basso non hanno alcun valore, sono perfettamente intercambiabili, e se qualcuno smettesse di muoversi non sarebbe certo un problema. Ottime panoramiche sull’ambiguità tecnologica nel quadro dell’ecologia sociale sono «Due immagini della tecnologia» e «La matrice sociale della tecnologia», rispettivamente capp. IX e X di Murray Bookchin, L’ecologia della libertà. Emergenza e dissoluzione della gerarchia. Oltre la tecnofobia: costruire tecnologie conviviali Il verbalismo tribale planetario, il «villaggio globale» di tribù immaginato da McLuhan, è ormai realizzato. È un mondo balcanizzato, parcellizzato in cerchie individuali gestite da Megamacchine private. Gli apparati tecnici si pongono come estensioni potenzianti di organi corporei umani, perché «la tecnologia fa parte dei nostri corpi», ed è impossibile farne a meno o staccarsene. Ancor prima che di diritti civili, si tratta di perdita di autonomia personale nei termini di competenze perdute o mai sviluppate. Eppure, a quasi quarantanni dalle lucide visioni del sociologo canadese, quando dovrebbe essere ormai evidente il costo insostenibile di questa ubiquità mutilata, la deriva tecnocratica ci avvolge in spirali di delega sempre più vincolanti. Siamo terminali senzienti di una rete planetaria e il processo di integrazione sembra inarrestabile. Anche quando si riconoscono gli enormi problemi generati dalladozione indiscriminata delle tecnologie, le vie di fuga esplorate non sono convincenti. Ma non bisogna farsi ingannare dalla pressante richiesta di alternative valide, soprattutto quando sono declinate nella rabbiosa pretesa di alternative immediate e funzionali per tutti. Quello che va indagato è il bisogno personale, il desiderio individuale, e la sua soddisfazione reale e immaginaria. È chiaro che se si vuole qualcosa di potente e grande come Google o Facebook, lalternativa non esiste. Come lalternativa a Google, ma che funzioni rapido ed efficace come Google, non può che essere un altro Google, così anche lalternativa a Facebook, ma che funzioni come Facebook, può essere solo un altro Facebook. Ci vogliono tante alternative situate, tante soluzioni locali e diversificate. Perché è il gigantismo che non funziona. È lideologia della crescita illimitata che gira a vuoto. E la trasparenza radicale non ci sta rendendo più liberi. «Il mezzo è il messaggio», lo slogan più noto di McLuhan, va preso alla lettera. Uno stesso messaggio diffuso con media differenti non rimane inalterato. Il fatto è che nella società digitale il mezzo, e quindi il messaggio, siamo noi stessi. A furia di dibattere pro o contro le tecnologie digitali, non ci siamo accorti di quanto profondamente ci hanno già modificato. Dobbiamo tornare al corpo, e renderci conto che se le nostre memorie sono stoccate online, i nostri corpi tendono a materializzarsi in quegli stessi luoghi. Adattarsi al mondo virtuale significa letteralmente essere assorbiti e riversati online. La leggerezza impalpabile dei bit va di pari passo con la pesantezza dei data center sparsi in giro per il pianeta. Preferibilmente in zone temperate o fredde, perché i computer generano calore, e vanno refrigerati. I data center sono enormi capannoni industriali ricolmi di hard disk collegati fra loro, fragili monumenti di memoria totale che consumano quantità straordinarie di energia (nel 2011 negli Stati Uniti il 3% del consumo totale. Limpatto ambientale è devastante. Il cloud computing non risolverà nulla, perché la crescita accelerata delle quantità di dati rende vano ogni tentativo di limitare gli sprechi. Ogni volta che accediamo da remoto ai nostri profili online per controllare di esistere, da qualche parte cè un computer acceso oltre al nostro, e molti altri computer che mediano il nostro percorso in rete, migliaia e migliaia di chilometri di cavi, per collegarci al nostro corpo online. La rapida trasformazione di milioni di utenti in terminali senzienti completamente inadatti a vivere in un mondo senza web è stata possibile per via della straordinaria capacità di adattamento del corpo umano. Fino alla metà circa del XX secolo, la forza fisica era un parametro rilevante per valutare la capacità di un essere umano di agire nel mondo. La promessa della tecnologia di rendere meno gravosa la vita si è realizzata per la parte più ricca della popolazione mondiale, che si è adattata a vivere fra tastiere e schermi. Tutti gli altri aspirano a partecipare in massa al mondo del benessere, incarnato nelle decine di migliaia di beni di consumo fra cui scegliere. Il culto del consumo richiede lincarnazione costante in oggetti di cui disporre, vere e proprie appendici identitarie. Anche lo spazio occupato sui server remoti è uno status symbol identitario. Occupare molto spazio online significa gestire un corpo che oltrepassa i limiti della fisicità. Un corpo che, nel caso dei social media privati, è sottoposto al default power, cioè a modifiche forzose non richieste. Un corpo digitale che non appartiene agli utenti, e che gli utenti possono gestire solo seguendo regole imposte dallesterno. Daltra parte, i corpi non digitali degli utenti sono stati plasmati dalle esigenze del mondo tecnologico, che richiede scarsa forza fisica e notevoli capacità cerebrali. Google Earth è il nostro occhio onnipotente, ma possiamo usarlo gratuitamente solo finché ci viene consentito, e nel frattempo i nostri occhi reali si deteriorano davanti allo schermo. Il cervello, come tutto il resto del corpo, ha subito modificazioni spettacolari. Fino a pochi decenni fa, si riteneva che il cervello fosse un organo statico, una volta terminata la fase di sviluppo. Invece il cervello è plastico, anzi, estremamente plastico. Per tutta la vita continua a modificarsi. Anche se i neuroni muoiono, nuovi collegamenti continuano a crearsi tra i neuroni esistenti. Le sensazioni che proviamo ripetendo unesperienza si sedimentano a livello fisico dando luogo a nuovi percorsi neuronali, mentre circuiti poco utilizzati vanno in rovina come sentieri dimenticati. Non solo: anche immaginare di compiere unazione, di vivere o rivivere una situazione provoca mutamenti nella conformazione cerebrale. Una volta acquisita una nuova conformazione, è difficile tornare alla precedente. Nella socialità mediata da internet viene sollecitato quasi esclusivamente locchio, un organo collegato direttamente e in maniera privilegiata ad alcune aree del cervello, mentre il resto del corpo languisce. Il cervello si modifica di conseguenza, e percepiamo il mondo letteralmente in maniera diversa. Il cervello è un muscolo che, a furia di essere nutrito di relazioni superficiali, matura ipertrofie malsane, perdendo nel frattempo altre capacità. Come il junk food è una droga capace di rovinare il metabolismo, così anche le comunicazioni spazzatura inquinano i corpi, ed è difficile acquisire nuovamente le capacità perdute164. La concentrazione del pensiero profondo richiede tranquillità e attenzione; è provato inoltre che le capacità cognitive migliorano se si trascorre del tempo in un ambiente naturale165. Le qualità immaginative più complesse, come lempatia e la compassione, hanno bisogno di tempo e cura per affinarsi. La percezione del dolore fisico altrui, manifesto nellespressione del corpo, stimola riflessi di vicinanza emotiva molto più rapidi della percezione di sofferenze psicologiche, più complesse da rappresentare166. In termini creativi, sviluppare una visione morale ed estetica comune richiede enormi disponibilità in termini di tempo e di ascolto. È facile indignarsi per lo spettacolo dellingiustizia del mondo, ma non si possono condividere sogni, utopie attraverso strumenti tecnologici che generano distrattenzione. La nostra dimensione sociale non è necessariamente determinata dalle tecnologie attuali. Il cellulare è diventato imprescindibile, e allo stesso modo i social media di massa stanno diventando imprescindibili, ma non è detto che debba andare così. Potremmo decidere che non vogliamo essere le propaggini di Facebook, di Google+o di qualche altro sistema di socialità gestito per il nostro bene e, proprio come per il cibo, cercare qualcosa di meglio di cui nutrirci. Le nostre comunicazioni potrebbero diventare banchetti che ci appagano profondamente, invece di lasciarci con un vuoto sempre più incolmabile. È possibile uninformatica conviviale, cioè che promuova la realizzazione della libertà individuale in seno a una società dotata di strumenti efficaci. La logica conclusione di questa critica allinformatica del dominio è che «piccolo è bello». Le dimensioni contano eccome. Al di là di una certa dimensione, la gerarchia fissa è necessaria per gestire i rapporti tra gli esseri umani e gli altri esseri viventi e non. Questo perché tutto è relativo, cioè «in relazione a». Se invece di dieci persone in spazi limitati che intrattengono relazioni del tutto uniche fra di loro abbiamo a che fare con centinaia, migliaia o milioni di persone, la relatività cede il passo allomologazione. Avere mille amici non ha senso, non abbiamo il tempo né le energie per valorizzarli. Le relazioni significative richiedono attenzione e competenza, non distrattenzione e sciatteria. Gli esseri umani possono tenere una traccia affettiva, cioè avere presente più o meno cosa fanno, dove sono e perché, di poche decine di persone alla volta167. In un progetto di partecipazione troppo ampio, si cominciano a individuare categorie (di genere, di razza, di censo, di età, di competenze), che vengono gerarchizzate in maniera fissa, senza che sia realmente possibile evadere dal proprio spazio. Maschio bianco di lingua standard: nessuna evoluzione possibile che non sia una rottura radicale, con conseguenti traumi, violenze, rivoluzioni che tornano inevitabilmente al punto di partenza, quel Che fare? di leniniana memoria, costitutivamente privo di risposte libertarie, inizio certo dellennesima rivoluzione totalitaria, di destra o di sinistra che sia. Le Megamacchine implicano concatenazioni di tipo capitalista e dispotico. Generano dipendenza, sfruttamento, impotenza degli esseri umani ridotti a compratori e servi. Non è una questione di proprietà, perché la proprietà collettiva dei mezzi di produzione a questo livello non muta nulla, e si limita ad alimentare unorganizzazione dispotica stalinista. Perciò Illich vi oppone il diritto di ciascuno a utilizzare i mezzi di produzione in una «società conviviale», ossia desiderante e non-edipica. Ciò significa: lutilizzazione più estesa delle macchine da parte del maggior numero di persone, la moltiplicazione delle piccole macchine e ladattamento delle grandi macchine alle piccole unità, la vendita esclusiva di elementi macchinici che devono essere assemblati dagli stessi utilizzatori-produttori, la distruzione della specializzazione del sapere e del monopolio professionale. La questione da porre è quindi: come fare? Quali sono i nostri desideri nei confronti delle tecnologie? Come vorremmo costruire reti sociali a misura dei nostri bisogni? Con quali strumenti? Quali metodi di partecipazione e di scambio vorremmo utilizzare? Lideologia della trasparenza radicale va ribaltata e applicata alle tecnologie stesse che utilizziamo, a quei media sociali che si pongono come immediati e sono invece intermediari opachi. È vitale che lindividuo mantenga delle sfere private, uninteriorità segreta e personalissima, non profilata né profilabile. È vitale imparare a passare del tempo con se stessi, in solitudine, in silenzio, e imparare a piacersi, affrontando la paura del vuoto, quellhorror vacui intimo che i social media cercano inutilmente di colmare. Solo individui che si stimano, che si piacciono abbastanza nonostante le proprie debolezze possono trovare lenergia per costruire uno spazio comunicativo sensato nel quale incontrare gli altri. Solo individui che hanno acquisito un saper-fare che vada oltre il far-sapere, cioè competenze che non siano forme di mera autopromozione, possono avere qualcosa di interessante da comunicare e condividere. Una comunicazione efficace richiede capacità di ascolto nei confronti di se stessi ancor prima che nei confronti degli altri. Ma la logica algoritmica è insufficiente e mortificante. Non è lindividuo a doversi fare trasparente alla tecnica, è la mediazione tecnica che deve essere resa il più possibile trasparente e comprensibile per le persone. Sono i processi di costruzione dei mondi condivisi che vanno esplicitati. Esprimere bisogni non è un processo automatico. Trasmettere competenze non è un processo spontaneo. Articolare desideri non è privo di rischi. Le relazioni si basano sulla fiducia, e sul rischio che tale fiducia venga ingannata, delusa e tradita. La stratificazione e la lentezza sono elementi essenziali nei rapporti. Tutte le forme di comunicazione autentiche sono atti complessi di condivisione di unimmaginazione personale. Lincomprensione è sempre possibile, e non sarà la presunta chiarezza della trasparenza radicale a evitare il conflitto. Non ha senso voler suddividere questi processi in cicli logici e sottoporli allalgoritmo perfetto. La soddisfazione automatica dei desideri consiste nel delegare alla tecnica persino la facoltà immaginativa. Benvenuti nel deserto del bisogno indotto e del desiderio automatico, dove non cè più nulla da immaginare. Bisogna rendere conto dei processi comunicativi e delle tecnologie che li rendono possibili, esplorarli con testi e pratiche capaci di prolungare, ritracciare e riassemblare il sociale facendo emergere la rete delle connessioni fra gli attori sociali che ne sono protagonisti169. In questo modo è possibile tagliare trasversalmente l’immaginario istituito, ormai bloccato, e rimetterlo in moto. La rete è la traccia lasciata dal fluido sociale circolante, reso visibile dalle continue traduzioni operate da questi attori. Seguire gli attori è senz’altro più lento e faticoso che cercare risposte complessive o teorie unificanti, ma è un azzardo necessario per non rinunciare alla complessità del reale. L’ambizione di questo resoconto è aver abbozzato la mappa di un territorio in parte inesplorato, seguendo le connessioni fra gli attori e le loro traduzioni-tradimenti reciproci. Naturalmente la mappa non corrisponde al territorio, rimangono molti spazi vuoti suscettibili di dar luogo a nuove associazioni impensate170. Un attore compie delle azioni, cioè fa qualcosa. Un attore è ben diverso da un semplice intermediario. Un attore non è un supporto neutro, un canale anodino per una comunicazione esterna che lo lascia inalterato e indifferente; al contrario. Un attore è un mediatore che si occupa di tradurre e modificare, secondo le sue peculiari caratteristiche, riuscendo a trasmettere in maniera efficace. Così una banale comunicazione fra due amici sulla chat di Facebook coinvolge le competenze linguistiche degli individui, ma anche lideologia sottesa a quel progetto, protocolli di comunicazione di rete stratificati estremamente complessi, le reciproche aspettative di chi interagisce, e molti altri aspetti non riducibili alla parola tuttofare «informazione». Può sembrare strano associare neuroni, individui, emozioni, membrane e circuiti, mondo sociale macroscopico e molecole microscopiche, ma nella realtà queste cose si trovano associate. La stranezza, semmai, sarebbe cercare di separarle, ascrivendo forzosamente gli individui alla descrizione socio-antropologica, i neuroni alla descrizione neurologica, le emozioni alla descrizione psicologica, le membrane alla descrizione biologica, i circuiti alla descrizione ingegneristica o informatica. A questo punto, individuare i loro legami sarebbe impossibile, a meno di ricorrere a un’onnipresente quintessenza, l’informazione appunto, deus ex machina del legame sociale nel paradigma dell’informazionalismo. Oppure a fantomatiche «forze sociali», a non ben identificate «forze psichiche», a evidenti ma troppo complicate da esaminare «forze storiche», e così via. La comunicazione non trasmette informazione, ma consente e implica la costruzione di spazi d’interazione, nei quali attori eterogenei si trovano convocati insieme. La collaborazione può evolvere come tecnologia conviviale nel momento in cui smette di contribuire al chiacchiericcio di fondo e prova a creare uno spazio condiviso. Uno spazio personale e collettivo che può ampliarsi, rivolgendosi a un pubblico171. Se diventa occasione di crescita per gli individui, può capitare che il territorio cominci a essere frequentato, condiviso, usato. Questo territorio si chiama collettivo, ed è un sistema diverso, rispetto agli individui. È una cosa che prima non esisteva, una creazione radicale, Castoriadis direbbe un immaginario istituente retto da una logica magmatica. Usare una tecnologia conviviale insieme significa modificarsi e modificare la realtà, la propria realtà, e in un senso più ampio la realtà che ci circonda. Nella metodologia delle dinamiche di gruppo172, il problema più rilevante, da utilizzare come punto di forza, è quello dei limiti del collettivo. In ogni attività di collaborazione il limite si può articolare in senso qualitativo, quantitativo e temporale. Vi sono evidenti limiti qualitativi, perché l’elaborazione collettiva è senz’altro meno rispondente alle aspettative del singolo, al sé individuale (in quanto elaborazione di un sé collettivo), in un certo senso più imprecisa. Questo perché le percezioni (discriminazioni percettive o qualia) del soggetto individuale sono differenti da quelle del soggetto collettivo. Entrambi i soggetti sono in divenire e necessitano di un continuo scambio regolato. Per questa ragione fare le cose da soli è molto più facile e meno faticoso che farle insieme. Anzi fare insieme è doloroso nella misura in cui bisogna rinunciare ad avere sempre l’ultima parola e mediare, nella misura in cui la propria identità viene messa continuamente in discussione. Il singolo deve affidare una parte dell’espressione di sé ad altri; se cerca di controllare ogni cosa, soffoca il collettivo stesso, e si arroga un ruolo dominante che gli sarà puntualmente rinfacciato, anche quando gli altri si mostrano di fatto acquiescenti. Essere esigenti è indispensabile, ma è facile trasformarsi in guide e, insensibilmente, addirittura in censori. Per questo è indispensabile avere ben presente il metodo come limite positivo, un limite anche quantitativo rispetto al tempo e alle energie che si possono impiegare in unattività collettiva. Se vi sono grandi differenze di investimento personale in un progetto, l’armonizzazione risulterà più complicata. Infatti in questi casi chi investe di più non può semplicemente fare di più e coprire le mancanze altrui, reali o presunte. Questo per due ragioni analoghe ma opposte: innanzitutto, verso l’esterno dellindividuo, perché rischierebbe di mettere in ombra gli altri, impedendo di fatto l’autonomia diffusa. In secondo luogo, verso l’interno dellindividuo, perché rischierebbe di assumersi eccessive responsabilità, che poi per non diventare fonte di frustrazione (tipiche spie sono le lamentazioni del genere «faccio tutto io!» o «sono indispensabile!») dovrebbero trovare una forma di riconoscimento che gli altri non saranno disposti ad offrire, per non squalificare il collettivo e il loro apporto personale. Da un punto di vista ecologico, non sempre fare di più significa fare meglio: la collaborazione esige la continua rinegoziazione dei limiti e delle regole che definiscono tali limiti. Il puro volontarismo è cieco e anzi spesso controproducente. Un sano e costruttivo sbilanciamento verso il caos e l’imprevisto creativo esige spesso dei passi indietro, per redistribuire le proprie energie a favore degli altri. Non per altruismo, ma per tattica. Da una parte, si deve evitare uno squilibrio eccessivo; ma dall’altro, si deve evitare anche l’appiattimento verso il basso, adeguandosi al ritmo di chi si mostra meno entusiasta e disponibile. Chi raffredda gli entusiasmi spesso tende a far passare un punto di vista conservatore, nel senso di noto e non utile al superamento delle difficoltà. Lentusiasmo devessere incoraggiato dalla fiducia, e la fiducia bilanciata dalla capacità critica, cioè dalla riflessività. Gli sforzi reciproci devono essere intesi ad ampliare lo spazio autonomo senza far leva sul dovere e sul bisogno, ma sul piacere. In caso contrario, le frustrazioni tenderanno ad avere il sopravvento. Il desiderio di dominio personale si nutre del desiderio altrui di essere dominati, e viceversa. Per questo l’equilibrio dev’essere dinamico, pronto a usare le energie per nuove individuazioni, evitando l’insorgere di dinamiche egemoniche e la cristallizzazione di gerarchie. La stasi non si può superare senza fare appello al residuo caotico, allo sbilanciamento in avanti regolato da metodi condivisi. Bisogna porre un limite positivo anche al ritornare ossessivamente sul gruppo, che a volte deve sciogliersi per riconfigurarsi o semplicemente perché ha esaurito la propria carica, quindi un limite temporale. Le teorie lisce, le pratiche prive di sbavature, esposte in identità collettive prive di appigli e criticità, sono tanto belle quanto inutili. Sono soprammobili inutilizzabili e non strumenti utili. Per lasciar spazio all’autonomia del divenire è necessario rinunciare alla perfezione e rimanere al realismo relativo condizionato al qui e ora, alle tecniche attualmente disponibili. Il labor limae deve arrestarsi quando il tempo comincia ad attorcigliarsi su sé stesso e il piacere del gioco della condivisione si esaurisce. Facebook e le altre reti sociali ci spingono allelitismo di massa disincarnato, che è sinonimo di totalitarismo globale organizzato in piccoli gruppi autarchici. Anche se è molto più complesso e faticoso, preferiamo assumerci il rischio del nostro tempo, il rischio di immaginare un mondo di tecnologie conviviali. Tutto è ancora possibile, nulla è già scritto. Ci siamo ancora noi, con i nostri desideri e il nostro tempo da usare per soddisfarli, per creare qualcosa di diverso. È il momento giusto. Anche per scollegarsi almeno un po dai media sociali, spegnere il computer, uscire per strada e cominciare a costruire reti sociali differenti. La scrittura è una forma di comunicazione che costruisce spazi d’interazione asincroni, poiché, a differenza della parola orale, non richiede la presenza contemporanea degli interlocutori. Richiede però il supporto di strumenti tecnologici di vario tipo, dalla penna alla carta stampata al computer. La scrittura collaborativa mediata al computer, specie attraverso strumenti come wiki, chat e mailing list, è una pratica di scrittura che può fornire metodi d’indagine per descrivere porzioni di realtà in divenire. Può inoltre creare spazi nei quali alcune questioni acquisiscono la legittimità necessaria per essere poste. Nello spazio sociale conviviale appositamente costruito gli individui possono incontrarsi, scontrarsi, eventualmente capirsi, influenzarsi a vicenda, creare qualcosa insieme, modificarsi: gli individui si mettono in gioco. ippolita.net/i
Posted on: Fri, 08 Nov 2013 22:44:46 +0000

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