La seduta spiritica[modifica | modifica sorgente] Romano Prodi, - TopicsExpress



          

La seduta spiritica[modifica | modifica sorgente] Romano Prodi, Mario Baldassarri e Alberto Clò ebbero un ruolo mai del tutto chiarito nel reperimento delle indicazioni su un possibile luogo di detenzione e resta tuttora alquanto oscura la vicenda della loro presunta seduta spiritica con il piattino effettuata il 2 aprile 1978, da cui sarebbero scaturite prima alcune parole senza senso, poi le parole Viterbo, Bolsena e Gradoli, questultima (Gradoli) che appunto coincideva con il nome della strada in cui si trovava il covo impiegato da Moretti. Ecco le parole di Prodi, dai verbali della testimonianza davanti alla Commissione Moro il 10 giugno 1981: « Era un giorno di pioggia, facevamo il gioco del piattino, termine che conosco poco perché era la prima volta che vedevo cose del genere. Uscirono Bolsena, Viterbo e Gradoli. Nessuno ci ha badato: poi in un atlante abbiamo visto che esiste il paese di Gradoli. Abbiamo chiesto se qualcuno sapeva qualcosa e visto che nessuno ne sapeva niente, ho ritenuto mio dovere, anche a costo di sembrare ridicolo, come mi sento in questo momento, di riferire la cosa. Se non ci fosse stato quel nome sulla carta geografica, oppure se fosse stata Mantova o New York, nessuno avrebbe riferito. Il fatto è che il nome era sconosciuto e allora ho riferito. » Linformazione fu ritenuta attendibile dal momento che, quattro giorni dopo, il 6 aprile, la questura di Viterbo, su ordine del Viminale, organizzò un blitz armato nel borgo medievale di Gradoli, vicino Viterbo, alla ricerca della possibile prigione di Moro. La vedova di Moro affermò di aver più volte indicato agli inquirenti lesistenza di una via Gradoli a Roma, senza che questi estendessero le ricerche anche a questa (avrebbero asserito che non esisteva una simile strada negli stradari di Roma[103]), circostanza confermata anche da altri parenti dello statista, ma energicamente smentita da Francesco Cossiga, allepoca dei fatti ministro dellinterno.[97] La questione sulla seduta spiritica venne riaperta nel 1998 dalla Commissione parlamentare dinchiesta sul terrorismo e le stragi: lallora presidente del consiglio Prodi, dati gli impegni politici di poco precedenti alla caduta del suo governo nellottobre 1998, si disse indisponibile per ripetere laudizione; si dissero disponibili Mario Baldassarri[104] (ex senatore di AN, ex viceministro per lEconomia e le Finanze dei governi Berlusconi II e Berlusconi III, al tempo del rapimento di Moro docente presso lUniversità di Bologna) ed Alberto Clò[92] (economista ed esperto di politiche energetiche, ministro dellIndustria nel governo tecnico Dini e proprietario della casa di campagna dove avvenne la seduta spiritica, al tempo del rapimento di Moro assistente e poi docente di economia allUniversità di Modena), anche loro presenti alla seduta spiritica. Entrambi, pur ammettendo di non credere allo spiritismo e di non aver più effettuato sedute spiritiche dopo quella, confermarono la genuinità del risultato della seduta e dichiararono che né loro né, per quanto ne sapevano, nessuno dei presenti (partecipanti al gioco del piattino o meno, oltre a loro tre erano presenti il fratello di Clò, le relative fidanzate, e i figli piccoli dei commensali) aveva conoscenze nellambiente dellAutonomia bolognese o negli ambienti vicini alle BR. Alla critica relativa al fatto che qualcuno dei presenti avrebbe potuto guidare il piattino, Clò sostenne che la parola Gradoli, così come Bolsena e Viterbo, si erano formate più volte e con partecipanti diversi. Le possibili infiltrazioni mafiose[modifica | modifica sorgente] E stata prospettata la possibilità che elementi della ndrangheta fossero coinvolti nellagguato di via Fani e nel sequestro. È quanto emergerebbe da una telefonata tra il segretario di Moro Sereno Freato e Benito Cazora, deputato della DC; questultimo era entrato in contatto con un certo Rocco, poi identificato in Salvatore Varone, il quale aveva dichiarato di essere a conoscenza, tramite la malavita, dellubicazione della prigione di Moro che egli si offriva di rivelare in cambio di favori alle norme di confino alle quali era sottoposto[105]. Il 18 aprile Varone ritornò in contatto con Cazora e richiese una foto originale di via Fani in cui egli riteneva potesse essere identificato un suo parente. Cazora ne parlò quindi a Freato ma non riuscì a ottenere la foto; non è chiaro a quale foto ci si riferisse. Inoltre Cazora non riuscì neppure a ottenere per Varone i benefici richiesti ottenendo un rifiuto sia dai funzionari ministeriali, sia da Giuseppe Pisanu, sia dal ministro Cossiga. Nonostante questo Varone diede alcune indicazioni sulla possibile prigione di Moro che però, nonostante gli accertamenti compiuti dalle autorità, si rivelarono completamente inutili[106]. Secondo il pentito Tommaso Buscetta, il deputato Salvo Lima e i cugini Salvo, su input di Giulio Andreotti, interessarono il boss mafioso Stefano Bontate per cercare la prigione di Moro: Bontate allora incaricò lo stesso Buscetta, allepoca detenuto, di contattare gli esponenti delle Brigate Rosse in carcere per avere informazioni e cercò la mediazione di Pippo Calò, per via dei suoi legami con la banda della Magliana. Calò però chiese a Bontate di interrompere le ricerche, in quanto tra gli esponenti della Democrazia Cristiana non vi sarebbe più stata la volontà di cercare di liberare Moro.[48][107]. Per la precisione[108] in una tempestosa riunione della Commissione di Cosa Nostra, Bontate – dalla testimonianza processuale resa dal pentito Francesco Marino Mannoia – aveva convocato Pippo Calò per chiedere il suo intervento al fine di liberare lo statista. Calò avrebbe risposto che Cosa Nostra non avrebbe avuto alcun interesse a muoversi. Allinsistenza di Bontate, Calò avrebbe scosso le spalle, rispondendo: «Stefano, ma ancora non lhai capito che sono proprio loro, gli uomini del suo stesso partito, a non voler affatto che sia liberato... ?!». Infatti, sempre secondo Buscetta, Andreotti, che in un primo momento si era adoperato a cercare Moro, era stato indotto a cambiare ogni iniziativa dalla notizia che il prigioniero stava collaborando con le Brigate Rosse e gli stava rivolgendo pesanti accuse (il cosiddetto Memoriale Moro)[108][109]. Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata, ha riferito a partire dal 1990, in modo confuso e variando più volte il suo racconto dei fatti, che egli si attivò per ricercare la prigione di Moro e sarebbe entrato in contatto con lesponente della banda della Magliana Franco Giuseppucci. Questi dopo qualche giorno avrebbe riferito a Cutolo che Nicolino Selis, altro membro della banda, sarebbe stato a conoscenza del luogo, che si sarebbe trovato vicino ad un appartamento che egli utilizzava come nascondiglio di emergenza. Cutolo avrebbe quindi comunicato allavvocato Francesco Gangemi di poter aprire una trattativa; a dire del capo della Camorra, lavvocato avrebbe a sua volta contattato dei politici o ambienti del ministero degli Interni. Il boss esplicitò che i servizi segreti italiani e non i servizi segreti deviati avevano posto il veto allintermediazione per la salvezza dellallora presidente della Democrazia Cristiana. Nella testimonianza di Cutolo, avendo egli preso contatti con Roma per tramite di un suo avvocato, gli fu chiesto di starsene da parte e di non impicciarsi nella faccenda. Valerio Morucci ha completamente screditato davanti alla Commissione Stragi, questo confuso racconto, il brigatista ha evidenziato come i militanti dellorganizzazione fossero allapparenza gente normalissima in giacca e cravatta, completamente estranei allambiente della malavita e quindi molto difficilmente identificabili da parte della banda della Magliana. Morucci concluse: non eravamo una banda criminale...non ci incontravano sotto i lampioni...non facevamo traffici strani...non vedo come la banda della Magliana o chicchessia potesse individuare le brigate Rosse[110]. Stando a quanto riferito in generale anche da alcuni collaboratori di giustizia, le varie mafie italiane in un primo momento si interessarono alla questione, cercando di operare per la liberazione di Moro e/o per individuare il covo dove veniva tenuto prigioniero, anche su richiesta di alcuni interlocutori appartenenti alle istituzioni, ma dalla metà di aprile questi tentativi vengono interrotti da richieste opposte (le due posizioni non saranno comunque condivise da tutti i gruppi e causeranno una spaccatura allinterno di Cosa Nostra tra i Corleonesi, contrari a portare avanti i tentativi di individuare la prigione di Moro, e i palermitani). Secondo quanto riportato durante uno dei processi dal giornalista Giuseppe Messina, uno dei suoi contatti con la mafia siciliana gli aveva comunicato che Cosa Nostra aveva cambiato opinione sulla liberazione di Moro, in quanto questi voleva un governo aperto al Partito Comunista e questo era in contrasto con lanticomunismo della mafia stessa.[111] Nellottobre 1992 un pentito della Ndrangheta, Saverio Morabito, ha dichiarato che in via Fani sarebbe stato presente anche Antonio Nirta, appartenente alla mafia calabrese e infiltrato nel gruppo brigatista[112]. Secondo Morabito inoltre Nirta sarebbe stato anche un confidente dei carabinieri in contatto con il capitano Francesco Delfino; egli avrebbe acquisito queste informazioni nel 1987 e nel 1990 da due malavitosi, Paolo Sergi e Domenico Papalia. Sia Delfino che Nirta hanno recisamente smentito queste affermazioni; inoltre le presunte rivelazioni del Morabito non sono supportate da altre fonti e sono state ritenute dalla Commissione Stragi non ancora supportate da adeguati riscontri[113]. Il ruolo di Carmine Pecorelli[modifica | modifica sorgente] Il giornalista Carmine Pecorelli, che apparentemente godeva di numerose conoscenze allinterno dei servizi segreti[114], nella sua agenzia di stampa Osservatore Politico (OP) si occupò più volte sia del rapimento Moro, sia della possibilità che Moro potesse essere in qualche modo bloccato nel suo tentativo di aprire il governo al PCI[115]. Il 15 marzo, il giorno prima del rapimento, la sua OP pubblica un articolo sibillino che, citando lanniversario delle Idi di marzo e collegandolo con il giuramento del governo Andreotti, farebbe riferimento a un possibile nuovo Bruto (uno degli assassini di Cesare).[116] Successivamente, durante la prigionia di Moro, Pecorelli nei suoi articoli dimostra di conoscere lesistenza del memoriale (mesi prima del suo ritrovamento), di alcune lettere ancor prima che venissero rese pubbliche. Ipotizza la presenza di due gruppi allinterno delle BR, uno trattativista e uno invece deciso ad uccidere comunque Moro, e fa trapelare il sospetto che il gruppo che ha materialmente effettuato lagguato in via Fani non sia poi lo stesso che laveva pianificato e stava gestendo anche il sequestro (Aspettiamoci il peggio. Gli autori della strage di via Fani e del sequestro di Aldo Moro sono dei professionisti addestrati in scuole di guerra del massimo livello. I killer mandati allassalto dellauto del presidente potrebbero invece essere manovalanza reclutata in piazza. È un particolare da tenere a mente.) escludendo peraltro che il gruppo storico delle BR (Curcio e altri già arrestati) avesse a che fare con il rapimento.[116] Sul ritrovamento del covo di via Gradoli Pecorelli fa notare come, al contrario di quanto ci si sarebbe aspettato dai Brigatisti, nel covo tutte le possibili prove della presenza di questi era in bella mostra. Sui possibili mandanti evidenzia come il progetto di apertura dal governo al PCI di Berlinguer, tra i principali sostenitori dellEurocomunismo, sarebbe stato mal visto sia dagli USA (per via del fatto che avrebbe cambiato gli equilibri di potere sia nazionali che internazionali), sia dallURSS (dato che avrebbe dimostrato che un partito comunista poteva andare al governo in maniera democratica e senza essere diretta emanazione del PCUS di Mosca).[116] Il 20 marzo 1979 Pecorelli viene ucciso a colpi darma da fuoco davanti alla sua abitazione. Nel 1992 il pentito di mafia Tommaso Buscetta rivela che luccisione fu eseguita dalla mafia - con la manovalanza romana della banda della Magliana - per fare un favore ad Andreotti, preoccupato per certe informazioni sul caso Moro: Pecorelli avrebbe ricevuto dal generale Dalla Chiesa (di cui si conosce una domanda di adesione alla P2, ma apparentemente senza seguito) copia degli originali delle lettere di Aldo Moro che contenevano pesanti accuse nei confronti di Giulio Andreotti, e vi avrebbe alluso in alcuni articoli di OP. Della circolazione in quegli anni a Roma di una versione integrale delle lettere di Moro scoperte dai carabinieri nel covo milanese di via Monte Nevoso (delle quali solo un riassunto fu nellimmediato reso pubblico, il cosiddetto Memoriale Moro, mentre il testo integrale saltò fuori solo nel 1991 durante una ristrutturazione dellappartamento che aveva ospitato il covo) è prova un episodio verificatosi qualche anno dopo: al congresso di Verona del 1983 Bettino Craxi diede lettura di una lettera di Aldo Moro, pesantemente critica verso i suoi compagni di partito, il cui testo non risultava da nessuno degli atti pubblicati fino a quel momento; la cosa fu considerata una sottile minaccia - nellambito della guerra sotterranea tra la DC ed il PSI - e produsse animate critiche che raggiunsero anche lambito parlamentare[117]. Nel processo a suo carico, Andreotti in primo grado ebbe lassoluzione, mentre la Corte dAssise dAppello di Perugia il 17 novembre 2002 lo ha condannato a 24 anni di reclusione. Andreotti ha presentato ricorso in Cassazione, che ha dichiarato annullata senza rinvio la condanna rendendo definitiva lassoluzione di primo grado. Il ruolo di Steve Pieczenik[modifica | modifica sorgente] Un altro personaggio che è stato spesso al centro delle ipotesi di giornalisti e politici è lesperto statunitense giunto su invito di Cossiga, Steve Pieczenik, al tempo assistente del Sottosegretario di Stato e capo dellUfficio per la gestione dei problemi del terrorismo internazionale del Dipartimento di Stato Statunitense, e rimasto in Italia circa tre settimane. Dopo la carriera come negoziatore ed esperto di terrorismo internazionale ha iniziato a collaborare con Tom Clancy, nella stesura di libri e film. Il suo nome, come quello degli altri esperti, venne diffuso solo agli inizi degli anni novanta. Dopo che venne resa pubblica la composizione dei tre comitati, durante le indagini della commissione stragi vennero richiesti i documenti prodotti da questi: si scoprì che erano presenti solo alcune relazioni di un comitato degli esperti, ma nulla di quanto prodotto dagli altri due. In una relazione a lui attribuita, Pieczenik analizzava le possibili conseguenze politiche del caso Moro, leventualità che loperazione delle Brigate Rosse avesse avuto un appoggio dallinterno delle istituzioni oltre che alcuni consigli su come poter agire per far uscire allo scoperto i brigatisti. Dopo che il contenuto di questa relazione, intitolata Ipotesi sulla strategia e tattica delle BR e ipotesi sulla gestione della crisi, è stato reso noto, Pieczenik ne ha tuttavia negato la paternità, affermando che si trattava di un falso, contenente sia alcune delle teorie ed ipotesi da lui effettivamente elaborate al tempo, sia alcuni consigli operativi su cui non concordava, che erano nello stile di Ferracuti, e che per prassi non aveva lasciato nulla di scritto.[50][118] Il giornalista Robert Katz, che ha intervistato Pieczenik sul caso, fa anche notare che il supposto rapporto contiene riferimenti al comunicato numero 8 del 24 aprile relativi allo scambio tra Moro e 13 detenuti, riferimenti impossibili per via del fatto che lesperto statunitense aveva lasciato lItalia il 15 aprile.[28] Stando a quanto raccontato da Cossiga e dallo stesso Pieczenik, inizialmente lidea dello statunitense era quella di inscenare una finta apertura alla trattativa, per ottenere più tempo e cercare di far uscire allo scoperto i Brigatisti, in modo da poterli individuare.[75] In alcune interviste rilasciate successivamente a questi fatti, Pieczenik afferma che durante i giorni del sequestro vi erano notevoli falle che permettevano di far giungere informazioni riservate al di fuori delle discussioni dei comitati e che non aveva limpressione che la classe politica fosse vicina a Moro: « Ci fu una cosa che emerse in maniera chiarissima, e che mi sbalordì. Io non conoscevo luomo Aldo Moro, dunque desideravo farmi unidea di che persona fosse e di quanta resistenza avesse. Ci ritrovammo in questa sala piena di generali e di uomini politici, tutta gente che lo conosceva bene, e... ecco, alla fine ebbi la netta sensazione che a nessuno di loro Moro stesse simpatico o andasse a genio come persona, Cossiga compreso. Era lampante che non stavo parlando con i suoi alleati. [...] Dopo un po mi resi conto che quanto avveniva nella sala riunioni filtrava allesterno. Lo sapevo perché ci fu chi - persino le BR - rilasciava dichiarazioni che potevano avere origine soltanto dallinterno del nostro gruppo. Cera una falla, e di entità gravissima. Un giorno lo dissi a Cossiga, senza mezzi termini. Cè uninfiltrazione dallalto, da molto in alto. Sì rispose lui lo so. Da molto in alto. Ma da quanto in alto non lo sapeva, o forse non lo voleva dire. Così decisi di restringere il numero dei partecipanti alle riunioni, ma la falla continuava ad allargarsi, tanto che alla fine ci ritrovammo solo in due. Cossiga e io, ma la falla non accennò a richiudersi. » (I giorni del complotto, articolo del giornalista Robert Katz pubblicato su Panorama del 13 agosto 1994[28]) Tornato in America venne contattato da un consigliere politico dellambasciata argentina (paese al tempo sottoposto ad una dittatura militare) per chiedere aiuto contro sospetti terroristi. Al rifiuto di Pieczenik questo lo minacciò di fargli pervenire un ordine ufficiale da parte del Dipartimento di Stato. Secondo il negoziatore, il consigliere avrebbe potuto essere in realtà un agente segreto, che in qualche modo era al corrente di ciò che era accaduto nelle stanze romane di Cossiga. Sapeva esattamente cosa vi avevo fatto nelle ultime tre settimane, anche se avrebbe dovuto trattarsi di segreti. Non mi spiegò in che modo fosse venuto a conoscenza di tutto ciò, e lunica cosa che potei fare fu dedurne che la fuga di notizie faceva rotta diretta verso lArgentina e che Parlava in tono arrogante e pieno di sottintesi, come se a unirci fosse stata laffiliazione a qualche misteriosa confraternita; confraternita e fonte delle informazioni che Pieczenik identifica, a posteriori rispetto allevento, con la loggia massonica P2, dopo che la pubblicazione dei nomi degli iscritti e le successive indagini avevano mostrato come molti degli appartenenti dei tre comitati ne facessero parte e come questa avesse legami proprio con lArgentina.[28] Dopo alcuni accordi per essere sentito dalla Commissione Stragi, in un primo tempo accettò linvito, ma poi improvvisamente rifiutò di presentarsi in Italia.[102][118] A quasi 30 anni di distanza dai fatti, durante la preparazione del documentario francese Les derniers jours de Aldo Moro, il giornalista Emmanuel Amara entra in contatto con Pieczenik, che accetta di farsi intervistare. Il contenuto di questa intervista è poi inserito nel saggio Abbiamo ucciso Aldo Moro. La vera storia del rapimento Moro (edizione originale Nous avons tué Aldo Moro, Patrick Robin Editions, 2006, ISBN 2-35228-012-5)[119]. Nellintervista riportata nel libro stesso riassume quello che sarebbe stato il suo compito durante il rapimento Moro: « Capii subito quali erano le volontà degli attori in campo: la destra voleva la morte di Aldo Moro, le Brigate rosse lo volevano vivo, mentre il Partito Comunista, data la sua posizione di fermezza politica, non desiderava trattare. Francesco Cossiga, da parte sua, lo voleva sano e salvo, ma molte forze allinterno del paese avevano programmi nettamente diversi, il che creava un disturbo, uninterferenza molto forte nelle decisioni prese ai massimi vertici. [...] Il mio primo obiettivo era guadagnare tempo, cercare di mantenere in vita Moro il più a lungo possibile. Il tempo, necessario a Cossiga per riprendere il controllo dei suoi servizi di sicurezza, calmare i militari, imporre la fermezza in una classe politica inquieta e ridare un po di fiducia alleconomia. Bisognava fare attenzione sia a sinistra sia a destra: bisognava evitare che i comunisti di Berlinguer entrassero nel governo e, contemporaneamente, porre fine alla capacità di nuocere delle forze reazionarie e antidemocratiche di destra. Allo stesso tempo era auspicabile che la famiglia Moro non avviasse una trattativa parallela, scongiurando il rischio che Moro venisse liberato prima del dovuto. Ma mi resi conto che, portando la mia strategia alle sue estreme conseguenze, mantenendo cioè Moro in vita il più a lungo possibile, questa volta forse avrei dovuto sacrificare lostaggio per la stabilità dellItalia. » (Steve Pieczenik in Abbiamo ucciso Aldo Moro. La vera storia del rapimento Moro, Cooper, pag 102 e 103) « Ho atteso trentanni per rivelare questa storia. Spero sia utile. Mi rincresce per la morte di Aldo Moro; chiedo perdono alla sua famiglia e sono dispiaciuto per lui, credo che saremmo andati daccordo, ma abbiamo dovuto strumentalizzare le Brigate rosse per farlo uccidere. » (Steve Pieczenik in Abbiamo ucciso Aldo Moro. La vera storia del rapimento Moro, Cooper, pag 186) Il fatto che Moro fosse ormai sacrificabile in nome della ragion di stato sarebbe divenuto chiaro a Pieczenik nel momento in cui, a fronte di indagini inconcludenti e informazioni riservate che venivano continuamente diffuse, lo statista democristiano avrebbe iniziato a scrivere lettere sempre più preoccupate, che potevano far supporre che stesse per cedere psicologicamente.[119] Pieczenik afferma che appena arrivato in Italia venne informato da Cossiga che le istituzioni italiane non avevano idea di come uscire dalla crisi[120] e che sia lo stesso Cossiga, sia i servizi segreti Vaticani che avevano offerto la loro collaborazione, lo avevano informato che in Italia da pochi mesi era stato effettuato un tentativo di colpo di stato da parte di esponenti dei servizi segreti, principalmente di destra, e di persone che successivamente identificò come legate alla loggia P2[121], ma che il tentativo era fallito e che lo stesso Cossiga era riuscito a fare un po di pulizia e a riprendere il controllo su una parte di quegli elementi. Lo stesso Pieczenik si diceva stupito della presenza di tanti ex-fascisti allinterno dei servizi segreti, tanto da avere limpressione di ritrovarsi nel quartiere generale del duce, di Mussolini[122], ma afferma anche che durante il sequestro la capacità di disturbo di questi gruppi non fu così energica come temeva in un primo tempo. Anche le Brigate Rosse, secondo lesperto, avevano infiltrati nelle istituzioni, e godevano di informazioni di prima mano fornite da figli di politici e funzionari italiani che simpatizzavano per il gruppo, o perlomeno militavano nei gruppi di estrema sinistra. Queste infiltrazioni vennero studiate, pur senza portare a nessuna individuazione sicura, da Pieczenik con laiuto dei servizi Vaticani, che lesperto statunitense riteneva al tempo molto più efficienti ed informati di quelli italiani.[123] Oltre a confermare quanto già detto in precedenti interviste, in questa sostiene di aver partecipato in prima persona alla decisione di creare il falso comunicato numero 7 e afferma di aver spinto le Brigate Rosse ad uccidere Moro, con lo scopo di delegittimarle (Ho permesso che si servissero di questa violenza fino al punto di perdere tutta la loro legittimità. Piuttosto che riconoscere il loro errore, sono sprofondati in quella spirale che li ha portati alla fine.[124]), quando ormai era chiaro (dal suo punto di vista) che comunque non cera la volontà di liberarlo da parte della classe politica. Pieczenik afferma anche che gli Stati Uniti, pur avendo numerosi interessi in Italia (a cominciare dalle truppe dislocate), non erano al corrente della situazione del paese, né per quello che riguardava il terrorismo di sinistra, né per quello che riguardava i gruppi eversivi di destra o i servizi deviati, e che quindi non poté avere aiuti né dalla CIA né dallambasciata statunitense in Italia. Lo stesso Dipartimento di Stato gli avrebbe fornito come informazioni sullItalia solo articoli tratti da TIME e Newsweek[28][125]. Secondo lesperto lunico modo che avevano le Brigate Rosse di legittimarsi in qualche modo e distruggere i tentativi di stabilizzazione da lui portati avanti, sarebbe stato il rilascio di Moro, ma questo non avvenne. Il fatto che fosse tornato in America anzitempo, secondo quanto affermato, era dovuto al fatto che non voleva dare limpressione che dietro la ormai prevedibile morte di Moro vi potessero essere pressioni statunitensi.[124] Precedentemente aveva invece affermato che se ne era andato perché la sua presenza non fosse strumentalizzata per legittimare loperato (ritenuto inefficiente e compromesso) delle istituzioni.[28] Lipotesi del tiratore scelto[modifica | modifica sorgente] Sul luogo della strage sono stati ritrovati 93 bossoli. Con questo elevato numero di colpi sparati in pochi secondi vengono colpiti tutti gli uomini della scorta di Aldo Moro: Oreste Leonardi Domenico Ricci, Giulio Rivera, Raffaele Iozzino e Francesco Zizzi; tuttavia il Presidente della DC resta vivo, il che potrebbe far pensare ad unelevata esperienza da parte di chi stava usando quelle armi. I brigatisti Morucci, Moretti, Gallinari, Bonisoli e Fiore hanno sempre dichiarato che i militanti dellorganizzazione non erano addestrati professionalmente e non erano molto esperti di armi. I brigatisti hanno affermato che lazione si fondava soprattutto sulleffetto sorpresa, che non era necessario un addestramento militare specifico ma che invece era richiesta rapidità e grande determinazione per avvicinarsi al massimo alle auto sparando a distanza ravvicinata sugli occupanti senza rischiare di colpire Moro e senza dare modo agli agenti, ritenuti pericolosi e preparati, di reagire[126][127]. Secondo le perizie balistiche presentate al Processo Moro - Quater, una sola arma automatica risulta aver sparato più della metà dei colpi quel giorno: 49 colpi in 20 secondi. Tuttavia lautopsia sul cadavere di Moro ha evidenziato una ferita da arma da fuoco sulla coscia, riconducibile alla sparatoria dellagguato; poiché Moro sedeva da solo sul sedile posteriore della sua vettura, non sarebbe risultato molto difficile per gli aggressori dirigere il fuoco delle loro armi verso la parte anteriore della vettura, dove si trovava lautista e la guardia del corpo. I componenti del commando di via Fani indossavano divise da aviazione civile, invece di indossare vestiti in grado di farli passare inosservati, sia prima delloperazione, sia durante la fuga; per quanto lindossare divise offra il vantaggio di una omogeneizzazione visiva delle persone, rendendole meno distinguibili singolarmente. Partendo dai dubbi sullapparente professionalità mostrata nel colpire la scorta senza uccidere Moro, alcuni hanno ipotizzato che nel commando vi fosse un tiratore scelto armato di mitra a canna corta, che sarebbe colui il quale ha sparato la maggior parte dei colpi, la cui identità sarebbe ancora sconosciuta. Relativamente a questo ipotetico killer alcuni[108], ipotizzano potrebbe essere stato un componente del servizio segreto (italiano o straniero) o dellorganizzazione clandestina Gladio estraneo allorganizzazione brigatista e che le divise sarebbero quindi state necessarie per rendere riconoscibili a prima vista e reciprocamente i brigatisti ed il tiratore scelto. Addirittura, il settimanale LEspresso[128] propone unidentità al fantomatico cecchino. Si tratterebbe di un tiratore scelto ex membro della Legione Straniera, Giustino De Vuono, colui che avrebbe sparato tutti i 49 colpi andati a segno, e – soprattutto – tutti quelli che hanno centrato gli uomini della scorta, guardie del corpo esperte ed abituate a rispondere al fuoco. Agli atti della Questura di Roma si trova depositata una testimonianza, contenuta in un verbale datato 19 aprile 1978, in cui il teste Rodolfo Valentino afferma di aver riconosciuto De Vuono alla guida di una Mini o di unA112 di color verde e presente sulla scena delleccidio. Durante il periodo del rapimento dello statista – peraltro – De Vuono risulta assente dalla sua abituale residenza, a Puerto Stroessner (oggi Ciudad del Este, nel Paraguay meridionale, allepoca dei fatti retto da una giunta militare trentennale con a capo il generale Alfredo Stroessner). De Vuono era affiliato alla Ndrangheta calabrese e diversi brigatisti testimoniarono che le loro armi venivano acquistate presso i malavitosi calabresi e che De Vuono era ideologicamente “collocato allestrema sinistra” ed è stato provato che in Calabria lo Stato aveva avviato contatti con la malavita per ottenere il rilascio dello statista rapito. In alternativa, lidentità del fantomatico tiratore scelto avrebbe potuto anche essere stata straniera. Un testimone occasionale - che si trovava a passare per via Fani circa mezzora prima della strage - sarebbe stato affrontato da un uomo che aveva laccento tedesco e che gli ordinò di scappare via di lì. Si presume che fosse un appartenente alla RAF, lorganizzazione terroristica tedesca che sei mesi prima aveva pianificato ed eseguito un rapimento simile ai danni del presidente della Confindustria tedesca[129]. Le perizie[108] hanno appurato che in via Fani vennero usate anche munizioni di provenienza speciale (ricoperte di una vernice protettiva usata per avere una migliore conservazione), e simili pallottole furono trovate anche nel covo di via Gradoli. Questo tipo di proiettili non sarebbe in dotazione alle forze convenzionali e munizioni con trattamento simile sarebbero state trovate anche in alcuni depositi segreti di armi facenti riferimento a Gladio. Inoltre, alcuni testimoni occasionali dichiararono di aver udito un forte rumore di elicottero sorvolare la zona di Via Fani in concomitanza della strage, sebbene dai piani di volo risultino solo elicotteri della polizia in volo su quellarea ma a partire dalla tarda mattinata, a sequestro compiuto[67]. Cè – infine - lautorevole dichiarazione rilasciata alla stampa da parte del generale Gerardo Serravalle, fino al 1974 a capo di Gladio, secondo il quale: “… dietro la Geometrica Potenza brigatista dispiegata in via Fani cerano killers professionisti: Uno che spara in quel modo, centrando come birilli, tutti gli uomini della scorta senza lasciar loro il tempo per la fuga o per la difesa, è senza dubbio alcuno un tiratore scelto di altissimo livello; 49 colpi in una manciata di secondi: un record. In Europa di siffatti uomini si contano sulle dita duna mano!”[87]. Dubbi sullo svolgimento del rapimento[modifica | modifica sorgente] Questa voce non è neutrale! Questa voce o sezione sullargomento Storia è ritenuta non neutrale. Motivo: Viene riportata ampiamente la versione di Rita Di Giovacchino che è completamente diversa da tutte le ricostruzioni giudiziarie, delle Commissioni parlamentari e di tutti gli storici e pubblicisti che si sono occupati dal caso Moro. Si dà un ingiusto rilievo ad una ricostruzione eterodossa, romanzesca, non supportata da elementi documentali e completamente estranea al mainstream storiografico attuale. Per contribuire, correggi i toni enfatici o di parte e partecipa alla discussione. Non rimuovere questo avviso finché la disputa non è risolta. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Molti sono anche i dubbi che le indagini e la pubblicistica si sono posti circa la dinamica dei fatti di Via Fani[112]. Alcuni testimoni dichiararono che, poco prima della sparatoria di Via Fani, una donna e tre uomini, prima in tedesco, e poi in uno stentato italiano, urlarono ai passanti di sgomberare di corsa perché si sarebbero trovati in pericolo di vita[130]. Il giorno dellattentato i fucili mitragliatori in dotazione agli agenti di scorta di Moro, si trovavano riposti nei bagagliai delle auto.[131] Tuttavia, Indro Montanelli nella sua Storia dItalia riferisce che, durante il processo dinanzi alla corte dAssise di Roma, la signora Eleonora Moro spiegò come ciò non fosse una stranezza: i poliziotti di scorta non avevano grande dimistichezza a maneggiare quel tipo di arma, e che quindi queste venivano sovente tenute in disparte.[132] Gli agenti di scorta dello statista (lappuntato dei carabinieri Otello Riccioni, il maresciallo di Pubblica Sicurezza Ferdinando Pallante, il brigadiere Rocco Gentiluomo e gli agenti Vincenzo Lamberti e Rinaldo Pampana) - che la mattina del rapimento non erano in servizio - rilasciarono dichiarazioni scritte stranamente molto simili tra loro, tra il 13 ed il 26 di settembre 1978 ai giudici istruttori Ferdinando Imposimato ed Achille Gallucci. In sostanza queste attestavano che Moro era un personaggio fortemente abitudinario al punto che usciva di casa sempre alla medesima ora, alle h. 09.00 del mattino, cosicché i brigatisti, pedinandolo, avrebbero avuto maggiore certezza nei tempi per lagguato. Viceversa, la vedova dello statista smentì questa versione il 23 settembre 1978 interrogata dal giudice istruttore Achille Gallucci.[133] La Signora Moro, precipitatasi sul luogo della strage di Via Fani, chiese cosa fosse successo, le venne così risposto dagli agenti che Era opera delle BR. Ma la rivendicazione giunse solo qualche ora dopo. Tuttavia in quel periodo, nel mezzo degli anni di piombo, le azioni di fuoco da parte delle Brigate Rosse contro istituzioni dello Stato e persone ad esse legate, erano talmente frequenti che ogni evento di questo genere veniva in prima battuta attribuito loro; ancor oggi nella pubblicistica relativa di quegli anni taluni eventi delittuosi sono sbrigativamente attribuiti alle BR, anche se commessi da appartenenti di altri gruppi storicamente di minor rilevanza. La Signora Moro fece presente in aula che nelle lettere del marito recapitate dai brigatisti, non vi è accenno riguardo alle condizioni della scorta, tuttavia considerati i legami personali intercorsi, oltreché professionali tra lo statista e le sue guardie del corpo, sarebbe a suo avviso improbabile che il marito non avesse speso parola riguardo alle vittime[67]. Il 1º ottobre 1993 su incarico della Corte, i periti balistici depositarono una nuova perizia dove si conferma che, contrariamente a quanto dichiarato dal brigatista Morucci, a sparare sulla Fiat 130 ci fosse presente almeno un altro brigatista collocato sul lato destro dellauto sul lato passeggero[134]. Che il numero dichiarato dei terroristi presenti quella mattina in Via Fani fosse alquanto esiguo (inizialmente essi dissero desser stati in nove; successivamente in undici) lo affermò anche uno dei fondatori delle BR, Franceschini[67]: Quando rapimmo Mario Sossi, nel 74, eravamo in dodici. Esser in undici a dover gestire un rapimento complesso come quello di Moro mi sembra quanto meno azzardato. Infatti, a detta dei periti[87], il commando non poteva esser composto da meno di quattordici membri. Il giorno del rapimento si trovò a passare in via Fani in motorino lingegnere Alessandro Marini, che ha dichiarato che due persone a bordo di una motocicletta Honda di grossa cilindrata esplosero dei colpi contro di lui. La motocicletta avrebbe così preceduto lauto di Moretti; tuttavia le Brigate Rosse hanno sempre negato lesistenza di codesta moto e dei suoi occupanti, né viene fornita menzione riguardo presunti colpi di arma da fuoco nei confronti del Marini.[112] Esistevano almeno tre possibili percorsi che, la mattina del rapimento, la scorta avrebbe potuto effettuare. Gli itinerari venivano modificati di volta in volta, eppure i brigatisti tagliarono i pneumatici del furgone dun fioraio che aveva bottega proprio in Via Fani, per non consentirgli di giungere in loco (sarebbe potuto risultare testimone dellagguato, oltre che di intralcio allintera operazione); questo proverebbe che brigatisti fossero a conoscenza dellitinerario effettivamente percorso dalla scorta. Vi è dubbio sul momento scelto per il rapimento: Moro si recava ogni mattina in chiesa (la Chiesa di Santa Chiara in Via Forte Trionfale) col nipotino e, subito dopo, a fare una passeggiata con uno solo dei suoi uomini di scorta. I brigatisti avrebbero potuto rapirlo in quel frangente, non dovendo confrontarsi con la scorta (Moretti dichiarò in tribunale che già dal 1976 iniziò il pedinamento di Moro, quindi, le sue abitudini erano più che note al commando brigatista). Ad agevolare la fuga del commando un improvviso blackout interruppe le comunicazioni telefoniche della zona[135]. La SIP per tutto il periodo del sequestro risultò inefficiente: Si susseguono durante i 55 giorni di prigionia dellOn. Moro, strane quanto improbabili coincidenze legate allazienda dei telefoni: il 14 aprile alla redazione de Il Messaggero, è attesa una telefonata dei rapitori; vengono così raccordate in un locale della polizia, per poter stabilire la derivazione, le sei linee della redazione del giornale. Ma al momento della chiamata la Digos accerta linterruzione di tutte e sei le linee di derivazione e non può risalire al telefonista... Lallora capo della Digos parla, nelle sue dichiarazioni agli inquirenti, di totale non collaborazione della SIP. ...In nessuna occasione fu individuata lorigine delle chiamate dei rapitori: eppure furono fatte due segnalazioni…. Lallora direttore generale della SIP, Michele Principe, era iscritto alla P2[136]. In pochi secondi i brigatisti prelevarono solo due delle cinque borse che Moro portava con sé in auto, ma solo le borse contenenti i medicinali ed i documenti riservati vennero portate via. Risulta assai improbabile che - nei pochi concitati istanti dellagguato, i brigatisti avessero portato via proprio le uniche borse che interessavano, lasciando quelle non essenziali. Vi è chi ha ipotizzato che le borse mancanti siano state prelevate successivamente nel corso delle prime indagini sul posto. In un agguato con stretti tempi desecuzione, risulta inspiegabile che si perda tempo a dare il colpo di grazia a ciascun uomo della scorta, salvo esigenze dettate dal pericolo di lasciare in vita eventuali scomodi testimoni. La giornalista Rita Di Giovacchino, in un suo libro[67], scrive di aver avuto accesso alle carte poste sotto sequestro dalla Magistratura romana a seguito dellomicidio di Carmine Pecorelli, e ricostruisce la vicenda in modo che tutti i tasselli possano combaciare. Da testimonianze oculari, al termine della messa mattutina, Moro avrebbe annuito a un messaggio verbale suggeritogli nellorecchio da parte del capo della scorta. Moro sarebbe stato affidato ad unaltra scorta, mentre la scorta originale avrebbe funto da civetta imboccando Via Fani, dove sarebbe stata a propria insaputa massacrata da un tiratore scelto ignoto ai brigatisti, ma - paradossalmente - noto agli agenti uccisi. La scorta sarebbe stata sacrificata per non lasciare liberi cinque scomodi testimoni. Sarebbe una messinscena postuma anche quella delle auto della scorta intrappolate nel blocco creato dai brigatisti. Moro non sarebbe stato prigioniero dei terroristi, bensì di unaltra organizzazione: in pratica i brigatisti avrebbero funto da prestanome e questo spiegherebbe le reticenze emerse tra i terroristi sul nome di colui che effettivamente sparò allo statista, sul fatto che venne trovata della sabbia sulle suole delle scarpe del cadavere di Moro e sui gettoni telefonici ritrovati nella tasca della sua giacca, nonché sullora della morte e sulla tonicità muscolare del cadavere. Questo spiega anche la sibillina frase che pronunciò Sereno Freato - segretario particolare dello statista democristiano - dopo il ritrovamento del cadavere di Pecorelli: Indagate sui mandanti del delitto Pecorelli e troverete i mandanti dellomicidio di Moro. E spiega pure le morti di Carmine Pecorelli e di Antonio Chichiarelli, il falsario della Banda della Magliana che possedeva le Polaroid della prigionia di Moro e che redasse il falso comunicato brigatista, nellottica di un suo tentativo di ricatto (il borsello distrattamente dimenticato in un taxi a Roma nel 1979 e pieno dindizi riferiti al sequestro dello statista democristiano e la messinscena posta in atto al termine della rapina plurimiliardaria alla Brinks Securmark di Roma nel 1984). Anche la morte del tenente colonnello dei Carabinieri, Antonio Varisco, nel 1979, attribuita ai brigatisti - nonostante i dubbi circa la dinamica dellattentato e le contraddizioni emerse nelle dichiarazioni di brigatisti al processo - sarebbe riconducibile a questa pista, tanto più che Varisco fu colui che gestì materialmente il caso del covo brigatista di Via Gradoli. Varisco era amico del generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, il coordinatore della lotta al terrorismo, e anche di Pecorelli. Questultimo e Varisco vennero uccisi a distanza di pochi mesi. Dalla Chiesa venne ucciso a Palermo dalla Mafia in assenza di scorta nel 1982 e molti congetturarono che il suo trasferimento in Sicilia fosse ascrivibile più a una punizione - con relativa condanna capitale - che non ad una promozione. E - per terminare - anche la stamperia ed i macchinari con cui venivano redatti i ciclostilati delle BR appartenevano solo nominalmente al fiancheggiatore brigatista Enrico Triaca, quando - in realtà - erano di proprietà dei servizi segreti (i macchinari poi, erano costosissimi e nuovi di zecca). Altri sospetti e aspetti controversi[modifica | modifica sorgente] La Banda della Magliana in quel periodo dettava legge nella malavita della Capitale. A questorganizzazione criminale apparteneva Antonio Chichiarelli, lautore del falso volantino brigatista. Inoltre, il covo brigatista ove Moro venne tenuto sotto sequestro si trovava nel famigerato quartiere della Magliana ed anche il proprietario delledificio di fronte al covo era vicino alla banda della Magliana.[137] Allepoca del ritrovamento del cadavere, e nei giorni immediatamente successivi, alcuni quotidiani a tiratura nazionale asserirono che nelle tasche dellabito dello statista fossero stati ritrovati dei gettoni telefonici, il che avrebbe lasciato adito a dubbi sul fatto che i brigatisti avessero intenzione di rilasciare lostaggio. I gettoni telefonici - infatti - venivano forniti dai brigatisti ai rapiti che avevano intenzione di liberare in modo che potessero comunicare ai congiunti ove esser prelevati[138]. Aspetti che non tornano pure sul luogo di detenzione: il cadavere di Moro presentava una buona tonicità muscolare ed unigiene incompatibili con le condizioni di detenzione nel Carcere del Popolo descritto dai brigatisti catturati. In esso, poi, era virtualmente assente lo spazio per poter scrivere le missive. Dopo la condanna e prima delluccisione, lallora confessore di Moro – in base ad una dichiarazione di Francesco Cossiga – Don Antonello Mennini entrò nella cella in cui le Brigate Rosse tenevano rinchiuso Aldo Moro per impartire allo statista i sacramenti. Nessuna replica da parte del religioso[139] I giornalisti Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca nel loro libro Il misterioso intermediario sostengono che Moro era vicino alla liberazione, salvato da una mediazione della Santa Sede. Condotto in un palazzo del ghetto ebraico, stava per essere trasportato in Vaticano su unauto con targa diplomatica, ma allultimo momento qualcuno allinterno delle BR non avrebbe mantenuto gli impegni, ed avrebbe ucciso lo statista. Dà spazio a congetture lambiguo commento di Francesco Cossiga che definì il libro bellissimo. Altri scenari, addirittura esoterici, sono evocati nel libro di Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca Il misterioso intermediario che chiama in causa il direttore dorchestra Igor Markevitch come oscura figura di raccordo sul caso Moro. Le conseguenze politiche[modifica | modifica sorgente] Francobollo commemorativo emesso nel 25º anniversario della morte di Moro Laffaire Moro segnò profondamente la storia italiana del dopoguerra, e alcuni politologi si spingono ad affermare che la cosiddetta Prima Repubblica sia finita appunto il 9 maggio 1978[senza fonte], e non qualche anno più tardi con Tangentopoli. Il Compromesso storico col PCI non era ben visto dai partner internazionali. Il 23 marzo 1976, Aldo Moro (in quella data presidente del consiglio) cerca di ottenere pareri da parte degli altri capi di stato del G7 a Portorico, che gli prospettarono la probabile perdita di aiuti internazionali se il PCI fosse entrato nel governo.[140] Nel giugno 1976, la DC è al 38 per cento, seguita a breve distanza dal PCI di Berlinguer al 34. Moro è il probabile candidato alla presidenza della Repubblica, da dove sembra chiaro favorirà lalleanza tra PCI e DC. Con il suo assassinio, si chiude definitivamente la stagione del compromesso storico e con esso i governi di solidarietà nazionale, con ciò allontanando nel tempo, o ancor più precisamente rendendo impossibile in quel dato contesto storico, la realizzazione dellantico anelito del PCI di pervenire al governo centrale.[141] Il 16 marzo 1978, giorno del rapimento, il governo Andreotti ottiene la fiducia: votano contro soltanto liberali, missini, radicali e demoproletari. Lesecutivo è un monocolore DC che si regge grazie allastensione dei comunisti (il cosiddetto governo della non sfiducia). Le conseguenze politiche del rapimento di Moro furono da un lato lesclusione del PCI da ogni ipotesi di governo per gli anni successivi, e dallaltro un ridisegno del cosiddetto regime democristiano: la DC di Andreotti rimase partito di governo fino al 1992 anno di tangentopoli, partecipando sempre a maggioranze che lasciarono il PCI allopposizione, ma queste politiche tuttavia portarono dal 1981, col primo Governo Spadolini ad avere alternanze di presidenti del consiglio democristiani con altri laici, rompendo quindi il monopolio democristiano. Allinterno del Partito socialista italiano (PSI), che aveva sostenuto la possibilità di uno scambio di prigionieri per liberare Moro, vinse la linea di Bettino Craxi per lesclusione del PCI dal governo, e iniziò una lotta politica con lo stesso per tentare di superarlo nelle elezioni. Le elezioni anticipate del giugno 1979 vedranno una tenuta della DC e un sensibile calo del PCI. La figura di Moro fu in seguito appannata dalle risultanze di alcune indagini circa malversazioni riguardanti importanti società petrolifere. Uno dei principali collaboratori di Moro, Sereno Freato, fu pesantemente coinvolto in ciò che sarebbe stato poi chiamato lo scandalo dei petroli, che portò addirittura allarresto dellallora comandante generale della Guardia di Finanza (in armi), ed in contestazioni minori circa appalti di ditte di trasporti e costruttori pugliesi. Lo Stato avrebbe sconfitto le BR senza antidemocratiche leggi di emergenza e senza mediazioni politiche, ma con la giustizia ordinaria e le leggi vigenti. Allepoca era contestata la conduzione di regolari processi, con la presenza di avvocati in difesa dei Brigatisti, e dei gradi di appello. I Brigatisti rifiutavano la Difesa e il processo, proclamandosi prigionieri politici e il diritto di asilo. Applicando le leggi come a qualunque cittadino, senza riconoscere alle BR uno status privilegiato, anche la giustizia ordinaria ha contribuito al loro disconoscimento politico. Filmografia[modifica | modifica sorgente] Cinema[modifica | modifica sorgente] Todo modo, regia di Elio Petri (1976). Il film è una parodia farsesca ma realistica della classe politica e dirigente dellItalia degli anni settanta. Nella pellicola, il personaggio del Presidente, interpretato da Gian Maria Volonté, è palesemente ispirato ad Aldo Moro. Il film è tratto dallomonimo romanzo (1974) di Leonardo Sciascia. Il caso Moro, regia di Giuseppe Ferrara (1986). Tratto dal libro I giorni dellira. Il caso Moro senza censure (1980) di Robert Katz, il film è stato il primo a raccontare lintera vicenda del sequestro dello statista democristiano. Il protagonista è di nuovo Gian Maria Volonté, stavolta ufficialmente nei panni di Aldo Moro. Lanno del terrore (Year of the Gun), regia di John Frankenheimer (1991). Film statunitense tratto dal romanzo Year of the Gun (1984) di Michael Mewshaw, ed interpretato da Andrew McCarthy, Valeria Golino e Sharon Stone. La pellicola, ambientata nel 1978, racconta la vita in Italia di un giovane giornalista americano, il quale vuole scrivere un romanzo sullo sfondo degli anni di piombo. Insieme ad una sua amica fotoreporter, i due rimangono loro malgrado invischiati nelle trame ordite dalle Brigate Rosse per lassassinio di Aldo Moro. Lo statista è interpretato dal caratterista Aldo Mengolini. Piazza delle Cinque Lune, regia di Renzo Martinelli (2003). 25 anni dopo la morte di Moro, al procuratore capo di Siena (allepoca giovane giudice a Roma) viene fatto recapitare in forma anonima un vecchio video in Super 8 che documenta il rapimento dello statista in via Fani. Partendo da questo nuovo ed incredibile documento, insieme ad una sua giovane collega e alla sua guardia del corpo, i tre iniziano ad indagare e a ricostruire le fasi della vicenda storica. La pellicola è interpretata da Donald Sutherland, Giancarlo Giannini e Stefania Rocca. Il vero Moro appare in immagini di repertorio, mentre nella finzione cinematografica il suo ruolo è ricoperto da un caratterista (mai in primo piano). Il film è dedicato allallora ventisettenne nipote Luca Bonini Moro, che compare sui titoli di coda in veste di cantautore interpretando il brano Maledetti voi; sullo sfondo del ragazzo (figlio di Maria Fida Moro e spesso affettuosamente citato nelle lettere dello statista durante la prigionia), alcune fotografie di lui a due anni col nonno nei giorni immediatamente precedenti il sequestro. Buongiorno, notte, regia di Marco Bellocchio (2003). Liberamente ispirata al libro Il prigioniero (1988) della ex brigatista Anna Laura Braghetti, la pellicola narra il sequesto e la detenzione di Aldo Moro dal punto di vista dei suoi carcerieri, soffermandosi sul dramma umano vissuto da Moro e sui dubbi che hanno assalito i brigatisti. Moro è interpretato da Roberto Herlitzka, mentre Maya Sansa è la brigatista assalita da scrupoli di coscienza. Televisione[modifica | modifica sorgente] Aldo Moro - Il presidente, regia di Gianluca Maria Tavarelli – miniserie TV (2008). La miniserie racconta la genesi, la messa in atto e lepilogo del sequestro Moro. Lo statista è interpretato da Michele Placido. La miniserie è andata in onda in occasione del 30º anniversario delluccisione di Moro, ma non è stata gradita dai suoi familiari e da quelli degli agenti della scorta, e molti esponenti dellepoca della Democrazia Cristiana ne hanno preso le distanze. Teatro[modifica | modifica sorgente] Lira del sole, un 9 di maggio (1998) di Maria Fida Moro e Antonio Maria Di Fresco, regia di Antonio Raffaele Addamo. Con Maria Fida Moro e Luca Bonini Moro. Teatro Biondo Stabile di Palermo. Corpo di Stato (1998) scritto e interpretato da Marco Baliani Aldo Moro - Una tragedia italiana (2007) di Corrado Augias e Vladimiro Polchi, regia di Giorgio Ferrara. Con Paolo Bonacelli (Aldo Moro) e Lorenzo Amato (il narratore). Teatro Stabile della Sardegna, Teatro Eliseo di Roma. Se ci fosse luce - i misteri del caso Moro (2007) scritto, diretto e interpretato da Giancarlo Loffarelli. Con Emiliano Campoli, Marina Eianti, Giancarlo Loffarelli, Luigina Ricci, Elisa Ruotolo, Maurizio Tartaglione. Compagnia Le colonne. Roma, Via Caetani, 55º giorno (2008) scritto ed interpretato da Lucilla Falcone - Associazione Culturale La Buona Creanza. Aldo Morto/Tragedia (2012) scritto, diretto e interpretato da Daniele Timpano - amnesiA vivacE.
Posted on: Wed, 13 Nov 2013 22:39:52 +0000

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