La strage di Caltavuturo si inserì in un processo già in atto e - TopicsExpress



          

La strage di Caltavuturo si inserì in un processo già in atto e lo accelerò notevolmente. Quando si seppe che, nel gennaio del ’93, tredici contadini inermi erano stati trucidati dalle forze dell’ordine, l’impressione fu enorme e la notizia si diffuse rapidamente. Le vittime, insieme ad altri braccianti senza terra, stavano occupando simbolicamente le terre demaniali e chiedevano alle autorità il rispetto di promesse mai mantenute. Anche grazie a quell’episodio, la lotta cominciò a spostarsi verso le campagne, si chiedevano patti agrari più equi ed aspettative secolari sembravano ad un passo della loro realizzazione. Da maggio al dicembre del ’93 un po’ tutte le terre siciliane furono attraversate da una rivolta finalmente matura e portata avanti da gente che aveva un’etica ed una disciplina proprie. Il fronte della protesta, infatti, riuscì a reggere e seppe respingere quelle minacce e quei tentativi che miravano a spezzarlo. Carmela cercava di tenersi informata in tutti i modi, pensava alla sua infanzia e rivedeva il padre che ritornava dal lavoro. E, dopo tanto tempo di silenzio, si ritrovò davanti e inaspettatamente anche il volto della madre. Si presentava ad ogni ora del giorno, stava sempre ad apparecchiare la tavola , si limitava a mettere un po’ di minestra sotto il naso del marito ed aveva gli occhi tristissimi. Era il modo che aveva di raccontare in silenzio l’unica storia che conosceva, quella della miseria e del suo potere devastante. Una forza oscura che sapeva essere nemica del cielo e della terra, che si ostinava a dire che la vita è male e impediva a qualsiasi dolcezza di venire alla luce. Per un attimo si sentì in colpa con se stessa ma fu solo un attimo. In cuor suo sapeva che avrebbe dato ogni cosa per i suoi fratelli che stavano lottando, le sembrava di poter allungare le braccia fino a sfiorare le loro labbra con la punta delle dita e le veniva quasi voglia di mettersi a pregare. E, se avesse avuto una più approfondita coscienza e fosse stata in possesso di alcune informazioni, avrebbe potuto capire fino in fondo quanto cruciale fosse il momento storico che la Sicilia stava vivendo. I dirigenti dei Fasci, infatti, avevano scelto la via legalitaria, non offrivano pretesti per l’azione repressiva e sapevano respingere le provocazioni. Così, nonostante le ristrettezze della legge elettorale, avevano conseguito buoni risultati e messo un primissimo piede nelle istituzioni conquistando qualche municipalità. Promuovevano scioperi con obbiettivi molteplici e sempre individuati, sapevano mobilitare diverse categorie di lavoratori e cominciavano a pensare in grande. Sembrava, cioè, che avessero trovato la formula giusta per una lotta articolata e unitaria, ottenevano successi lusinghieri e incoraggianti e vedevano crescere di giorno in giorno il numero degli aderenti. Quando il movimento si radicò nelle campagne e si sentì abbastanza forte, l’obbiettivo da raggiungere fu il rispetto dei “patti di Corleone”. Si trattava di regolare in modo più equo i rapporti tra chi possedeva la terra e chi la lavorava ma, anche, di ripensare istituti radicati come la mezzadria o le condizioni di affitto di chi la coltivava in proprio. Si trattava di questioni legate allo specifico della realtà siciliana, avevano attraversato i secoli e solo chi avrebbe avuto la pazienza di studiarle poteva veramente capirle e valutarle. Al nord, invece, il capitalismo era entrato da tempo nelle campagne e la “questione della terra” risultava infinitamente meno complicata. Le grandi aziende agrarie erano governate con logica imprenditoriale e si era formato un proletariato delle campagne fatto di contadini salariati che aspiravano a paghe più alte e a migliori condizioni di lavoro. E ai socialisti riuniti in congresso a Reggio Emilia, la situazione siciliana appariva poco comprensibile e, comunque, difficilmente compatibile con le loro teorie e i loro principi. Si chiedevano che senso avesse sostenere le richieste di un mezzadro che non lavorava per un salario e avevano cominciato a guardare al movimento che scuoteva l’isola con diffidenza. Poi ci si mise anche una questione di tipo formale. Nello statuto dei Fasci, il riferimento al socialismo risultava troppo generico e non c’era mai stata una piena adesione al partito da parte dei gruppi dirigenti. E, così, il grande sciopero del maggio ’93 che investì le campagne siciliane non fu salutato con favore e sembrò cadere in una diffidente indifferenza. E’ impossibile dire quanto abbia pesato il mancato appoggio dei socialisti italiani ma è lecito pensare che non avrebbe sostanzialmente influito sugli avvenimenti. Si dimostrò, però e ancora una volta, quanto fosse difficile capire l’isola e ciò che avveniva nel suo perimetro. Giolitti, frattanto, esitava. Per vera convinzione, preferiva intervenire con la forza solo quando la legalità era palesemente violata, sperava di coniugare progresso e pace sociale e si azzardava a dire che lo Stato deve sapere essere al di sopra delle parti sociali. Ma era lui il primo ad operare mille distinguo mentali non espressi, certamente prendeva con le molle una affermazione tanto impegnativa e, intanto, dava le sue direttive ai prefetti. Chiedeva di controllare se, tra gli aderenti all’organizzazione, ci fosse qualche pregiudicato, cercava pretesti per un intervento sempre possibile e non era certo insensibile alle pressioni degli agrari meridionali. Ci pensò lo scandalo della “Banca Romana” a cambiare uno dei protagonisti dell’intera vicenda. Travolto da una questione che non aveva riguardato solo lui, rassegnò le dimissioni e passò ad altri il testimone del potere. Il sicilianissimo Crispi l’isola la conosceva bene e da tempo era diventato uomo d’ordine e fedele servitore di Casa Savoia. Non era più il mazziniano di un tempo, non aveva più vaghe simpatie per il socialismo e si era fatto convinto monarchico. Ma, soprattutto, sapeva bene quale blocco di potere si fosse consolidato in Italia e come sapesse condizionare le scelte dei governi. si inserì in un processo già in atto e lo accelerò notevolmente. Quando si seppe che, nel gennaio del ’93, tredici contadini inermi erano stati trucidati dalle forze dell’ordine, l’impressione fu enorme e la notizia si diffuse rapidamente. Le vittime, insieme ad altri braccianti senza terra, stavano occupando simbolicamente le terre demaniali e chiedevano alle autorità il rispetto di promesse mai mantenute. Anche grazie a quell’episodio, la lotta cominciò a spostarsi verso le campagne, si chiedevano patti agrari più equi ed aspettative secolari sembravano ad un passo della loro realizzazione. Da maggio al dicembre del ’93 un po’ tutte le terre siciliane furono attraversate da una rivolta finalmente matura e portata avanti da gente che aveva un’etica ed una disciplina proprie. Il fronte della protesta, infatti, riuscì a reggere e seppe respingere quelle minacce e quei tentativi che miravano a spezzarlo. Carmela cercava di tenersi informata in tutti i modi, pensava alla sua infanzia e rivedeva il padre che ritornava dal lavoro. E, dopo tanto tempo di silenzio, si ritrovò davanti e inaspettatamente anche il volto della madre. Si presentava ad ogni ora del giorno, stava sempre ad apparecchiare la tavola , si limitava a mettere un po’ di minestra sotto il naso del marito ed aveva gli occhi tristissimi. Era il modo che aveva di raccontare in silenzio l’unica storia che conosceva, quella della miseria e del suo potere devastante. Una forza oscura che sapeva essere nemica del cielo e della terra, che si ostinava a dire che la vita è male e impediva a qualsiasi dolcezza di venire alla luce. Per un attimo si sentì in colpa con se stessa ma fu solo un attimo. In cuor suo sapeva che avrebbe dato ogni cosa per i suoi fratelli che stavano lottando, le sembrava di poter allungare le braccia fino a sfiorare le loro labbra con la punta delle dita e le veniva quasi voglia di mettersi a pregare. E, se avesse avuto una più approfondita coscienza e fosse stata in possesso di alcune informazioni, avrebbe potuto capire fino in fondo quanto cruciale fosse il momento storico che la Sicilia stava vivendo. I dirigenti dei Fasci, infatti, avevano scelto la via legalitaria, non offrivano pretesti per l’azione repressiva e sapevano respingere le provocazioni. Così, nonostante le ristrettezze della legge elettorale, avevano conseguito buoni risultati e messo un primissimo piede nelle istituzioni conquistando qualche municipalità. Promuovevano scioperi con obbiettivi molteplici e sempre individuati, sapevano mobilitare diverse categorie di lavoratori e cominciavano a pensare in grande. Sembrava, cioè, che avessero trovato la formula giusta per una lotta articolata e unitaria, ottenevano successi lusinghieri e incoraggianti e vedevano crescere di giorno in giorno il numero degli aderenti. Quando il movimento si radicò nelle campagne e si sentì abbastanza forte, l’obbiettivo da raggiungere fu il rispetto dei “patti di Corleone”. Si trattava di regolare in modo più equo i rapporti tra chi possedeva la terra e chi la lavorava ma, anche, di ripensare istituti radicati come la mezzadria o le condizioni di affitto di chi la coltivava in proprio. Si trattava di questioni legate allo specifico della realtà siciliana, avevano attraversato i secoli e solo chi avrebbe avuto la pazienza di studiarle poteva veramente capirle e valutarle. Al nord, invece, il capitalismo era entrato da tempo nelle campagne e la “questione della terra” risultava infinitamente meno complicata. Le grandi aziende agrarie erano governate con logica imprenditoriale e si era formato un proletariato delle campagne fatto di contadini salariati che aspiravano a paghe più alte e a migliori condizioni di lavoro. E ai socialisti riuniti in congresso a Reggio Emilia, la situazione siciliana appariva poco comprensibile e, comunque, difficilmente compatibile con le loro teorie e i loro principi. Si chiedevano che senso avesse sostenere le richieste di un mezzadro che non lavorava per un salario e avevano cominciato a guardare al movimento che scuoteva l’isola con diffidenza. Poi ci si mise anche una questione di tipo formale. Nello statuto dei Fasci, il riferimento al socialismo risultava troppo generico e non c’era mai stata una piena adesione al partito da parte dei gruppi dirigenti. E, così, il grande sciopero del maggio ’93 che investì le campagne siciliane non fu salutato con favore e sembrò cadere in una diffidente indifferenza. E’ impossibile dire quanto abbia pesato il mancato appoggio dei socialisti italiani ma è lecito pensare che non avrebbe sostanzialmente influito sugli avvenimenti. Si dimostrò, però e ancora una volta, quanto fosse difficile capire l’isola e ciò che avveniva nel suo perimetro. Giolitti, frattanto, esitava. Per vera convinzione, preferiva intervenire con la forza solo quando la legalità era palesemente violata, sperava di coniugare progresso e pace sociale e si azzardava a dire che lo Stato deve sapere essere al di sopra delle parti sociali. Ma era lui il primo ad operare mille distinguo mentali non espressi, certamente prendeva con le molle una affermazione tanto impegnativa e, intanto, dava le sue direttive ai prefetti. Chiedeva di controllare se, tra gli aderenti all’organizzazione, ci fosse qualche pregiudicato, cercava pretesti per un intervento sempre possibile e non era certo insensibile alle pressioni degli agrari meridionali. Ci pensò lo scandalo della “Banca Romana” a cambiare uno dei protagonisti dell’intera vicenda. Travolto da una questione che non aveva riguardato solo lui, rassegnò le dimissioni e passò ad altri il testimone del potere. Il sicilianissimo Crispi l’isola la conosceva bene e da tempo era diventato uomo d’ordine e fedele servitore di Casa Savoia. Non era più il mazziniano di un tempo, non aveva più vaghe simpatie per il socialismo e si era fatto convinto monarchico. Ma, soprattutto, sapeva bene quale blocco di potere si fosse consolidato in Italia e come sapesse condizionare le scelte dei governi.
Posted on: Fri, 01 Nov 2013 08:51:03 +0000

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