La terra dei fuochi e le responsabilità di Massa Carrara Era - TopicsExpress



          

La terra dei fuochi e le responsabilità di Massa Carrara Era già noto e chiaro, nell’89, a Massa Carrara, al movimento popolare contro la Farmoplant, quello che Carmine Schiavone ha testimoniato nel ‘97 e che viene reso pubblico oggi. A quando la ricerca delle responsabilità in questo crimine contro l’umanità della classe dirigente locale in quegli anni, dei tecnici Montedison e di quelli istituzionali? Non so se si possa stabilire una data di inizio dell’esportazione di rifiuti, pericolosi, tossico-nocivi, dalla nostra zona, perché le industrie e aziende che vi sono state implicate, per decenni, è molto altro. Sicuramente Carmine Schiavone non è stato il primo, perchè dopo la chiusura della Farmoplant, il 17 luglio 1988, si aprì il problema di come smaltire i rifiuti delle produzioni di pesticidi che erano stati accumulati a migliaia e migliaia di tonnellate nella fabbrica. Un parte enorme era già stata bruciata nel suo inceneritore, il Lurgi, ma prima ancora che questo entrasse in funzione, grandi quantità di rifiuti erano stati fatti sparire interrandoli al suo interno. Erano state scavare fosse tra i dieci e i venti metri di profondità e lati in proporzione, col ricorso agli escavatori di una ditta esterna, ma domiciliata nella ZIA, mentre un’altra ditta, sempre della Zia, era stata incaricata del trasporto dei rifiuti dai vari reparti e del loro interramento. Centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti chimici di ogni genere erano così finiti nel sottosuolo della zona industriale e ci sono ancora. Poi il terreno era stato livellato, asfaltato o cementato e su una sua parte era stata realizzata anche una struttura sportiva per i figli dei dipendenti e per le società sportive che la Montedison finanziava, per arruffianarsi l’opinione pubblica. Un’altra grossa parte dei rifiuti venne seppellita e stivata nei vecchi capannoni ed edifici di un’industria precedente, le Resine, acquisiti dalla Montedison-Farmoplant con l’area circostante. All’interno i capannoni dell’ex Resine vennero svuotati, fino a lambire le fondamenta e per una profondità imprecisata (un capannone rischiò, per questo, di crollare) e le fosse così ottenute segretamente, servirono a tombare altre migliaia di tonnellate di rifiuti. Una volta riempite, furono ripavimentate e gli edifici sovastanti, murate le porte e le finestre, diventarono degli immensi bunker o vasconi, dove, egualmente vennero riversati o accatastati, veleni e tossici di ogni genere. Fin dall’inizio queste costruzioni e aree vennero, programmaticamente, utilizzate come discariche interne, occulte e criminali. E’ molto ragionevole pensare che tecnici istituzionali, sindacati e maestranza ne fossero al corrente. Non si mobilitano e seppelliscono decine di migliaia di tonnellate di materiali pericolosi, senza che nessuno se ne accorga. Per i rifiuti liquidi delle produzioni, si utilizzava in determinate occasioni, quando ad esempio c’erano piogge abbondanti, e si era fuori stagione turistica, il canale del Lavello confinante con lo stabilimento, ma le morie di pesci, determinate da questi che ipocritamente” venivano definiti “sversamenti” dovuti ad errori di manovra, rivelavano agli abitanti del circondario quanto l’azienda aveva perpetrato e scattavano segnalazioni. I tecnici istituzionali dovevano intervenire e non potevano far altro che segnalare, a loro volta, questi casi alla magistratura, anche se la tendenza a minimizzarli era costante, al limite dell’impudenza e del falso, come si può ancora constatare dalle relative relazioni esistenti. Pochi mesi prima della chiusura definitiva dello stabilimento, ad esempio, venne giustificata, in una perizia alla magistratura, una moria di pesci attribuendone la responsabilità principale al fatto che si trattava di pesci “debilitati”. La maggior parte dei rifiuti liquidi, perciò, non potendo essere riversata nel Lavello che saltuariamente e in particolari condizioni, venne pompata nella falda acquifera più profonda, intorno agli 80 metri. C’è uno studio “scientifico” dell’epoca, di “ricercatori” non locali, al soldo della Montedison. che propone l’utilizzo delle falde per liberarsi dei rifiuti liquidi. La convinzione che il crimine non potesse essere scoperto e venire a galla, era però mal riposta. Tra il 1979 e il 1980, la magistratura, ordinò la chiusura di oltre mille pozzi a valle dello stabilimento (molti di questi servivano ai campeggi, ma c’erano ancora molte abitazioni private che se ne servivano per bere, cucinare, lavarsi), perchè risultarono avvelenati da prodotti e sostanze della Farmoplant. Tutto questo venne denunciato, puntualmente, dall’Assemblea Permanente, il movimento popolare contro le produzioni criminali delle industrie chimiche locali, dalla fine degli anni ‘70 del secolo scorso. Ci sono volantini, manifesti, articoli, dossier, denunce, comunicati, processi che attestano tutto questo e lo documentano in modo inequivocabile. E quando verranno aperti gli archivi delle forze dell’ordine, tra venti o trent’anni, le prove saranno ancor più evidenti, perchè l’accesso alle notizie e alle documentazioni, specie se ufficiali, sono molto più ampi e diretti per la forse dell’ordine che non per i cittadini. La forza dei movimenti popolari e il loro sapere oggettivo nasce invece dalla capacità di socializzazione delle osservazioni individuali dei loro componenti. Una pratica che allora il movimento popolare contro la Farmoplant praticò costantemente. Quando infine, la Farmoplant viene chiusa, la mobilitazione popolare è troppo forte e troppo attenta a quel che avviene in quella fabbrica, perchè possa continuare l’allegra scomparsa dei rifiuti, con la complicità dei tecnici istituzionali, delle forze politiche e delle amministrazioni pubbliche. L’inceneritore è chiuso e non è più possibile, ad esempio, far entrare in fabbrica o farne uscire camion e mezzi di trasporto se non dopo un controllo popolare (vere e proprie perquisizioni) e prima o dopo una certa ore (le sei di mattina e le dieci di sera). Verso l’autunno del 1989, il presidio dell’Assemblea Permanente e del Comitato dei Cittadini davanti alla Farmoplant nota un via vai sospetto di grossi camion che entrano vuoti in fabbrica e ne escono dopo alcune ore coperti da teloni e carichi di fanghi, si suppone, perchè perdono liquidi e fanghiglie varie, lungo il percorso che li porta all’autostrada. Qui i teloni vengono tolti (non sappiamo bene, perché) e i mezzi si dirigono invariabilmente verso sud. Viene organizzata l’osservazione dei movimenti dei camion dentro la fabbrica e la registrazione delle loro targhe. Contemporaneamente avviene la segnalazione ai servizi sanitari istituzionali. Dall’osservazione dei movimenti dei camion dentro la fabbrica, fatta attraverso i primi piani delle abitazioni che la circondano o, a volte, salendo sugli alberi lungo il Ricortola che fiancheggia un lato dello stabilimento, viene fuori che questi camion non si fermano in un solo luogo per fare il pieno carico, ma passano, tutti, da diversi impianti, aree e fabbricati, cioè vengono riempiti di rifiuti chimici diversi, a strati. Questo può significare una sola cosa: che i rifiuti vengono mescolati. Il motivo è chiaro, la mescolanza di rifiuti con maggiore tossicità, con altri meno pericolosi e con terre, abbassa la classificazione dei rifiuti più pericolosi da tossico-nocivi a speciali, permettendo trattamenti di smaltimento infinitamente meno costosi e più facili da un punto di vista delle autorizzazioni e dei controlli istituzionali. Se poi la parte superiore del camion viene ricoperta di terra, il materiale trasportato può sembrare del tutto innocuo e scaricato ancor più facilmente, senza difficoltà igienico-sanitarie e controlli. La legge vieta espressamente questa pratica della miscelazione, ma è evidente che dentro la fabbrica questo avviene sistematicamente. Se no, a che scopo caricare i camion di materiali diversi? Per i tecnici istituzionali, questo trasferimento di materiali pericolosi e di incerta composizione dall’interno della fabbrica verso ignote destinazioni, effettuato passando e spargendo liquami a fanghi lungo le strade della provincia non desta preoccupazioni. Il movimento è invece convinto del contrario e, essendo interessate, dalla fabbrica all’autostrada, strade provinciali, manda alcuni suoi rappresentanti dal segretario della Provincia, che, messo al corrente della situazioni, si indigna contro di loro e li caccia in malo modo. Non vuole responsabilità, la provincia non c’entra. Forse, come pubblico ufficiale avrebbe almeno dovuto interessare la magistratura. Non risulta che l’abbia fatto, come non risulta l’abbiano fatto i tecnici istituzionali addetti ai controlli e alle bonifiche. Qualche giorno dopo l’inizio di questi trasferimenti di rifiuti, di sera, si ferma un camion alla baracca del presidio popolare, posizionato proprio davanti all’ingresso principale della fabbrica e chiede dove sia la Farmoplant. Gli viene indicata, ma essendo passate le dieci, deve parcheggiare il camion fuori. Poi torna al presidio e si mette a chiacchierare con chi è lì in quel momento per il proprio turno di vigilanza e controllo. Probabile pensi si tratti di un gruppo di lavoratori in sciopero e mobilitazione per il lavoro. Gli viene offerto un bicchiere di vino e qualcosa da mangiare. Iniziano le chiacchiere: - Chi sei, da dove vieni, cosa fai? - E’ chiaro che preferisce passare il tempo in compagnia, invece che nella cabina del suo camion. E i discorsi vanno alla lunga. E sono molto importanti. E’ uno “slavo”, un croato o uno sloveno, forse; non è padrone del camion, ma fa volentieri il trasporto di questi rifiuti industriali, perchè lo pagano molto di più - il doppio dice - che se trasportasse altri rifiuti di altre industrie chimiche. E’ chiaro che non ha nessuna idea di quel che è avvenuto nella Farmoplant. Parla tranquillamente e a ruota libera. Quel che fa non gli crea problemi, non si pone domande, non si preoccupa di cosa trasporti. Lo pagano il doppio e questo gli basta. Ma chiacchiera volentieri. Gli chiediamo dove porterà il giorno dopo il suo carico. La sua destinazione è la zona di Caserta, a una discarica autorizzata, dove deve consegnare la bolla di accompagnamento datagli in fabbrica, ma solo quella, perchè invece andrà a scaricare da un’altra parte, in qualche area non autorizzata. Lui finora ha scaricato in due diverse aree, ma forse ce ne sono anche altre. Gli chiediamo chi siano i proprietari del camion e quelli delle discariche autorizzate e non. Per il camion risponde che dovrebbe essere di una società diretta da una donna anziana, se non ricordo male. Per le discariche, ride e fa capire che dietro c’è un’organizzazione illegale e che questo metodo di smaltimento dei rifiuti, al di fuori delle zone autorizzate, è sistematico. Non parla di camorra, forse non sa neanche che esiste, ma gli è chiaro che questo traffico di rifiuti è illegale e fa capo a un’organizzazione illegale. Il giorno dopo compare a firma dell’Assemblea Permanente, di Medicina Democratica e del Comitato dei cittadini davanti alla Farmoplant, un nostro volantino in cui si fa il resoconto di quanto emerso da questa conversazione. Intanto, anche l’Unità è arrivata, per vie che non conosciamo, alle stesse conclusioni e nomina esplicitamente la camorra. Appena diffuso il volantino il via vai di camion in entrata e uscita dalla Farmoplant si interrompe. E con quelle modalità non è più stato ripreso. Almeno fino a quando c’è stato il presidio davanti alla fabbrica. Avevamo però l’impressione, come movimento, che le cose fossero più complesse e che il traffico e la sparizione dei rifiuti chimici e industriali della Zia facesse capo a gruppi e organizzazioni differenti. Perchè, ad esempio, i camion solo in parte avevano targhe di Napoli, mentre altri ne avevano di toscane e della sua dipendenza da un’azienda toscana di trasporti di questo tipo ci aveva parlato qualche altro camionista. Del resto i rifiuti derivati dall’abbattimento, coevo e per altro criminale con la dinamite, dell’ItalianaCoke non erano diretti verso il sud e sembravano dipendere da altri imprenditori. Un’altra sera, per tornare a quelli della Farmoplant vediamo partire un camion carico di fanghi, molto tardi. Il conducente, prima di intraprendere il viaggio si è fermato in una trattoria vicina. Qualcuno decide di seguirlo. Presa la Genova Livorno, il camion si inoltra lungo la superstrada in costruzione tra Livorno e Rosignano. A Rosignano l’inseguimento finisce. E’ molto tardi; chi guida deve entrare al lavoro alle sette e abbandona la partita. Il sospetto però è che quel carico di rifiuti, non sia finito in Campania, ma a far da massicciata alla superstrada. Quando si ebbe la certezza che i camion stavano portando via i rifiuti chimici della Farmoplant, benchè non si sapesse ancora con sicurezza dove e come venissero fatti sparire, si aprì nel movimento uno scontro, perchè una parte non era per niente convinta che bisognasse denunciare questo immondo e micidiale traffico assassino. “Se portano via questa merda dalla nostra zona, è tutto di guadagnato. E se dovessero riaccendere l’inceneritore, quanti più rifiuti vanno via, tanto meno resterà acceso. Noi abbiamo già dato”. Fu difficile far digerire a tanti che se quei veleni non li volevamo tra noi, non dovevamo permettere che andassero ad avvelenare altre persone, ignare e non organizzate come noi, altri bambini, altra gente, altre zone.
Posted on: Sat, 02 Nov 2013 21:17:39 +0000

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