L’esercito di riserva La crisi del sistema: il capitalismo - TopicsExpress



          

L’esercito di riserva La crisi del sistema: il capitalismo produce fame e miseria Per tutti gli anni ‘10 di questo secolo e millennio, l’esercito di riserva[1] era composto dal “popolo migrante”; in Europa veniva da est e da sud; nell’America del Nord veniva dai confini Messicani; in Australia erano i “boat people” dell’ovest; in Cina ancora i flussi venivano dalle montagne e dai deserti del sud-ovest. Dal 2007-2008 quest’esercito si è andato ingrossando di “indigeni” che usciti dalla condizione di precari si sono rapidamente trasformati in disoccupati e sottoccupati. Mentre i “garantiti” sono scivolati verso la condizione di precari. Le statistiche di fine anno mettono in evidenza quanto da tempo andiamo denunciando anche sulle colonne di questo giornale. La disoccupazione “complessiva” veleggia verso il 12% e quella “giovanile” verso il 30%. Avevamo messo in evidenza come queste percentuali, già eclatanti, sottovalutino e soprattutto sottorappresentino il fenomeno nella sua realtà. Il movimento dei lavoratori deve riprendere il mano il proprio destino e lo può fare contando solo su sé stesso. Non ci sono aree politiche, non ci sono governi “amici” che possano sostituire l’autonoma iniziativa delle lavoratrici e dei lavoratori. Un nuovo movimento “dal basso” deve ripartire per aggregare attorno a sé tutta la società degli sfruttati e degli oppressi, aprendo una nuova stagione di lotta che sappia dare un futuro a chi oggi un futuro non ce l’ha. La condizione dei giovani è disperante (oltre il 30% di disoccupazione, oltre l’altro 30% di precarietà); il reddito medio di quella che dovrebbe essere la generazione del futuro è al di sotto dei 600 euro (e con 600 euro al mese si deve stringere la cinghia o fare, obtorto collo, i “bamboccioni”). La condizione degli immigrati è avvilente; questo nuovo pezzo della classe operaia italiana è soggiogata da leggi razziste, segregazioniste (peggio che in SudAfrica o in Palestina). In entrambe i settori la condizione femminile risente dell’oppressione di genere che è ancora forte visto che non sono state rimosse le cause sociali e culturali di quest’oppressione. Le forme strutturali della discriminazione e del sessismo: la rappresentazione istituzionalizzata del «femminile», le immagini sessiste di Tv, giornali, libri di scuola, ma anche i processi di precarizzazione del lavoro femminile, le disparità di salario e di carriera nei posti di lavoro, l’attribuzione diseguale, solo alle donne, della cura gratuita della casa, dei bambini, degli anziani. Proprio la crescente discriminazione del lavoro femminile diventa, in tempi di crisi economica, il fulcro materiale di un rinnovato autoritarismo sul corpo delle donne, costrette a lavori malpagati e, di conseguenza, sempre più vincolate alla casa in posizione di subalternità e dipendenza economica. Anche nell’area sociale dei così detti “garantiti” la falce della cassa integrazione e dei licenziamenti ha prodotto perdite di posti di lavoro per oltre 1 milione di persone: i primi a pagare sono stati, ovviamente, i giovani, le donne, gli immigrati. Le rivolte di queste settimane in Africa del Nord e nel Medio Oriente mettono in evidenza questa realtà, collegandosi ai sommovimenti che si sono registrati in Europa per tutto l’autunno e l’inizio dell’inverno del 2010. I sociologi parlano di “generazione senza futuro”; le piazze che si riempiono di rivolta parlano di chi il futuro lo vuole riprendere nelle proprie mani. È evidente come la “partita” sia completamente aperta: se i movimenti di lotta sapranno avere continuità, sapranno radicarsi ed estendersi, se non verranno ammaliati dalle sirene del potere e delle politiche istituzionali (e istituzionalizzanti), la svolta della “crisi” potrà avere uno sbocco rivoluzionario o almeno di trasformazione sostanziale delle condizioni di vita e di lavoro di milioni di persone. In caso contrario vedremo confermate e accentuate le politiche dei vari governi indirizzate ad un ulteriore impoverimento (e conseguente sottomissione) del proletariato nel suo complesso. Oggi la consapevolezza che questo sistema non è in grado di garantire una vita degna d’essere vissuta si allarga. Il passaggio successivo dev’essere quello di acquisire consapevolezza circa la possibilità di costruire una società “altra”, una società che, forse, non garantirà la felicità costituzionalmente (ma sappiamo bene quanto mendace sia questa promessa) ma che, almeno, redistribuisca in maniera sostanziale la ricchezza prodotta dal lavoro e il lavoro necessario a garantire benessere per tutte e tutti. Che questo sia possibile è ampiamente dimostrato da tutti gli indicatori economici sia su di un piano planetario che anche nel microcosmo delle esperienze di autogestione. È evidente che deve modificarsi il “modello di sviluppo” ma soprattutto deve essere abbattuto lo stato e superato il modo di produzione capitalistico. Queste due condizioni sono preliminari ad ogni ipotesi di “riforma” del presente. Affermatesi queste precondizioni si potranno definire una serie di criteri base: – i beni e servizi necessari al benessere collettivo – la quantità di lavoro necessario a questo scopo – le modalità di partecipazione di ognuno a questo sforzo In un simile contesto è stimato come il “lavoro necessario” si possa ridurre a meno di 100 giornate annuali. Questa stima si basa su alcuni pilastri: – ognuno secondo le sue capacità contribuisce per una quota minima al lavoro collettivo – ognuno secondo le sue necessità “consuma” i beni e servizi prodotti collettivamente – nessuno si sottrae a questi “compiti sociali” – nessuno trae vantaggio per sé da questo sistema È, più o meno, il programma sociale che dalla Prima Internazionale, il movimento operaio e socialista, mette in campo per emanciparsi dallo sfruttamento del lavoro e dalla miseria della disoccupazione. Chi pensasse di risolvere le contraddizioni di questo sistema senza questo passaggio necessario sarebbe o illuso o in malafede. Il turbo-capitalismo degli anni ‘90 e la globalizzazione del 2000 hanno dimostrato come il sistema statale-capitalistico non possa neppure più promettere benessere e futuro. L’ora della verità si avvicina. Se non ora quando? Se non noi chi? WS [1] «Ma se una sovrappopolazione operaia è il prodotto necessario della accumulazione ossia dello sviluppo della ricchezza su base capitalistica, questa sovrappopolazione diventa, viceversa, la leva dell’accumulazione capitalistica e addirittura una delle condizioni d’esistenza del modo di produzione capitalistico. Essa costituisce un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale in maniera così completa come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese, e crea per i mutevoli bisogni di valorizzazione di esso il materiale umano sfruttabile sempre pronto, indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione.» (Il Capitale, I libro, VII sezione, cap. XXIII). da Umanità Nova
Posted on: Fri, 04 Oct 2013 17:41:15 +0000

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