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L’uso strumentale della morale e del linguaggio della sinistra 0 02 luglio, 2013 | Permalink | Archiviato in: Cultura e Informazione 994221_10200881567753039_1679866371_nUno degli aspetti più grotteschi che ci è dato assistere in questi ultimi anni nella politica italiana è l’uso che la sinistra fa della morale e del linguaggio, tanto che corre l’obbligo di analizzarne la natura, l’origine, gli effetti, gli scopi. 1) Il linguaggio Le parole hanno in sé un segreto: concorrono alla formazione del pensiero, voglio dire, non sono puri accessori di cui si serve il pensiero per esprimersi, ma fanno parte dello stesso processo, dello stesso sviluppo di organizzazione della realtà, di conoscenza della realtà. Per questo ogni epoca ha il suo linguaggio e usa le sue parole specifiche, infatti il mondo si forma insieme alle parole ed esse contengono, come cristallizzate, ma in senso attivo, le forme del pensiero di quell’epoca. In Italia, seguendo un processo generale di tutto il mondo Occidentale, si sta svolgendo una totale copertura del linguaggio, un tentativo di nascondere, attraverso esso, la realtà, che spesso è cruda, brutale, poco incline alle “magnifiche sorti e progressive”, una realtà dirompente, imbarazzante, che crea, nella sua spontanea e istintuale evidenza, un forte disagio in chi è permeato di astratte ideologie, di puerili e sdolcinati ottimismi di maniera, in chi insomma non fa del crudo, ma sano realismo, scuola di vita e di pensiero. E allora ecco il tentativo di vedere, e soprattutto, di far vedere, una realtà diversa, virtuale, docile ai nostri desideri, una realtà che come un asino recalcitrante magari deve essere bastonata, forzata, e poi costretta a seguire le più astruse fantasie. La lotta però è durissima, quasi mai vittoriosa, poiché la realtà proprio non ne vuol sapere di farsi comandare, di farsi sottomettere dai sorrisini pii, dalle maniere affettate, dai buoni propositi. Mutatis mutandis, saggio era l’adagio di Bacone quando affermava che la natura si comanda obbedendola. Ma ecco allora che diviene più forte la spinta, la copertura che si deve usare nelle parole per nascondere una realtà che non si fa docile, anzi che continuamente sconvolge con la sua brutale schiettezza tutti i piani, tutti quei buoni propositi che spesso, come dice il noto adagio, costellano una strada che conduce all’inferno. Lo scarto allora tra le parole e la realtà si fa grande perché le parole, in modo conflittuale, seguono una doppia funzione: da una parte seguono con il pensiero il loro naturale processo di costruzione della realtà, dall’altra (dato che il pensiero vuole esprimere un gigantesco velo, una gigantesca copertura ideologica che la realtà vuole camuffare e nascondere per presentarne un’altra fittizia, ideologica) si oppongono alla conoscenza, alla comprensione, all’organizzazione funzionale e costruttiva della realtà. Il conflitto allora diviene lacerante, e le mille contraddizioni che si presentano si riflettono in modo pesante nel linguaggio, determinando un uso il più delle volte scorretto nel suo tentativo di correzione, eroso nei suoi etimi e nella sua semantica e perciò non più riconoscibile, non più comprensibile, spesso sempre più incapace di avere la sua funzione di comunicazione e di conoscenza e costruzione della realtà. 2) La morale Una condotta è la sintesi di istinto, riflessione, educazione, influenze sociali, religiose, politiche, economiche. Spesso un comportamento si basa su ciò che si desidera e su ciò che si può fare, ma ancor di più, spesso un comportamento si basa sul conflitto tra ciò che si dice di volere e ciò che inconsciamente si desidera veramente. Quando tale conflitto è grande, cioè più marcata è la distanza tra i desideri consci e quelli inconsci, allora si determina una tale frustrazione, un tale smacco all’orgoglio di cui, in quantità diverse, tutti gli uomini sono pervasi, che si ha forte il desiderio dell’io cosciente di forgiarsi una morale, cioè una programma, un piano da seguire che detti idealmente le azioni presenti e quelle future. Ma come spesso accade, la morale da seguire è troppo ideale, cioè troppo lontana dalle effettive possibilità che l’individuo può conseguire. Il fallimento non fa seguire ulteriori tentativi magari più idonei alle proprie forze, più vicine alla propria natura, no, di solito i fallimenti rafforzano in modo grottesco ancor più i propositi ideali, in uno sforzo così sovrumano che spesso, se non sempre, l’individuo resta completamente schiacciato, mostrando tutta la sua impotenza. L’impotenza però, anche qui, non fa nascere la consapevolezza del proprio limite e una più saggia e accorta condotta più vicina alle proprie possibilità, no, accresce semmai rabbia, rancore, desiderio spasmodico di individuare un colpevole che ha impedito la propria realizzazione. In tal senso diviene più chiara la differenza tra morale e moralismo: quando il piano di realizzazione fallisce, e fallisce perché è grande lo scarto tra reale e ideale, la morale è il vestito buono e il moralismo il corpo per aggredire gli altri. Il corpo del reato, perciò, viene addossato non già a se stessi, alla propria incapacità, alla propria eccessiva sopravvalutazione, ma a coloro che si individuano, a torto o a ragione, come colpevoli di non essere capaci di realizzare quello che noi stessi non siamo stati capaci di realizzare. E si diventa severissimi, ferocemente intransigenti, violentemente intolleranti verso l’altrui vera o presunta incapacità. 3) La sinistra italiana Spesso si è criticato l’analisi antropologica svolta dalla cultura delle sinistra italiana, considerandola razzista. In un certo senso lo è, sicuramente quando si attribuisce superiorità, domini, gerarchie piramidali. Però, da un punto di vista della “forma mentis”, della particolare struttura ideologica, l’analisi della sinistra italiana di antropologizzare la politica può riferirsi soprattutto a se stessa. Se ne ricava in tal modo una concezione che tradisce un feroce e nello stesso tempo ingenuo tentativo di ipesemplificazione della realtà, una concezione così manichea, così organizzata tra chi è buono e chi è cattivo, che sicuramente è essa stessa analizzabile antropologicamente, con notevoli apporti della psicologia del profondo. Il grande storico della civiltà, Jacob Burkardt, già verso la fine dell’Ottocento aveva intuito potentemente che il secolo che stava arrivando sarebbe stato caratterizzato da quelli che lui chiamò “gli esemplificatori”. Chi sono costoro? Essi sono quelle persone che utilizzano un corpo di idee generali, astratte, e vorrebbero costringere tutta la realtà a confermarle. Insomma, vi è in tale tentativo un sovrumano sforzo non già di migliorare la realtà, che è cosa diversa e sicuramente nobile, ma di accusarla, negarla, in ultima analisi di violentarla, e sostituirla in modo del tutto artificiosamente da una ideologia ben organizzata. Perché l’ideologia funzioni, essa deve catalizzare un gran numero di persone e continuamente da loro essere alimentata. Il nazismo sicuramente ha avuto tale origine, ma il comunismo ha più sottigliezze, più patine di nobiltà, più capacità di nascondimento e perciò di ipocrisia del nazismo, e infatti non è un caso che delle feroci forme di totalitarismo, il nazismo è stato combattuto frontalmente e distrutto, mentre il comunismo è morto in parte “tranquillamente” (si veda Stalin) nel proprio letto. Nella sinistra italiana ha subito esercitato un forte predominio la parte comunista rispetto a quella socialista, e la ragione è semplice. Mentre in altre parti del mondo Occidentale vi è stata una fortissima cultura liberale che ha attratto a sé anche la parte del socialismo più riformista, in Italia la componente liberale è sempre stata minoritaria perché soverchiata da quella cattolica, in tal modo anche il riformismo socialista ha avuto poca attrattiva perché ad esso si preferiva il maggior piglio rivoluzionario della compagine comunista. E in effetti, avevano gioco facile gli argomenti che sostenevano che il riformismo socialista era fiacco, poco incisivo, se da solo doveva combattere contro il decisionismo, anche se retorico e ingenuo, del fascismo, e l’immobilismo reazionario del cattolicesimo. Il partito comunista perciò usciva trionfante ed egemonizzava tutto il tentativo di cambiamento collocandolo in una concezione di totalitarismo agghiacciante. Tali forze soverchianti avevano bisogno però di formarsi con i potenti mezzi della parola, del linguaggio, e della morale, perché l’egemonia delle parole induce gli avversari al silenzio, e la ferrea e aggressiva morale a disciplinarne i comportamenti determinando una conseguente forma di criminalizzazione. La tipica confusione che la sinistra opera tra legalità e moralità e illegalità e immoralità, non è un incidente di percorso, un casuale fraintendimento, ma è il tentativo di creare due steccati in cui riversare al di là i nemici, e al di qua i migliori, gli eletti, che, in una curiosa riedizione del calvinismo, portano nelle loro carni, direi al di là di ciò che sono le loro opere, il marchio dei giusti e dei reprobi. La sinistra a chiara impronta comunista, post comunista, cattocomunista, fintamente superante il comunismo, orfana del comunismo, si forgia in essenza di parole e morali totalitarie che hanno il duplice scopo di accrescere e alimentare il loro credo, e nello stesso tempo di togliere il terreno dai piedi dei loro nemici per subordinarli e costringerli alla resa che, inutile nasconderlo, non ammette prigionieri. di Sergio Rizzitiello © 2013 Qelsi
Posted on: Sun, 14 Jul 2013 12:52:20 +0000

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