Nomi Ormai aveva deciso che quando a scuola gli avrebbero - TopicsExpress



          

Nomi Ormai aveva deciso che quando a scuola gli avrebbero chiesto come si chiamava si sarebbe presentato con il suo secondo nome, quello che in pochi conoscevano e quasi nessuno sapeva pronunciare correttamente. Reseph era il nome che il padre, dopo tante ricerche, aveva scelto per lui e doveva essere il suo primo ed unico nome, ma quando alla sua nascita i genitori si trovarono ad affrontare quella triste sorpresa, decisero di chiamarlo Giuseppe come il nonno paterno. Reseph suonava eccessivamente altisonante e quindi era decisamente troppo impegnativo da portare per un bambino nelle sue condizioni, per un bambino disabile. Così Reseph slittò al secondo posto e da lì nel dimenticatoio, mentre Giuseppe diventò Bibi, come se bastasse chiamarlo con un allegro nomignolo per rendere il suo aspetto più gradevole alla vista. Quando Bibi pronunciava il suo secondo nome avvertiva una forza estranea attraversargli il corpo deforme, Reseph era una lama che luccicava nel buio della sua vita, la lama di un coltello che avrebbe separato la buccia dal frutto, mettendo a nudo il suo reale essere, un essere così diverso dall’inguardabile apparenza. Bibi aveva frequentato le elementari in un istituto scolastico privato attrezzato per accogliere i disabili, ma ora, tra meno di una settimana, avrebbe dovuto affrontare il suo primo giorno di scuola media e l’idea di doversi trovare assieme a bambini normali lo terrorizzava. L’unico timido scudo che poteva usare per proteggersi dagli sguardi di compassione che i compagni sicuramente gli avrebbero lanciato come dardi appuntiti, trafiggendogli le carni, era quel nome così singolare, il nome di una antica divinità. La scuola distava un centinaio di metri da casa sua, una distanza insignificante per la maggior parte dei ragazzini di dieci anni, ma non per lui. Il padre voleva che per andarci usasse la sedia a rotelle elettrica, ma Bibi aveva preso un’altra coraggiosa decisione: ci sarebbe andato con le stampelle. I suoi nuovi compagni di scuola dovevano vederlo arrivare, anche se con l’ausilio delle stampelle, in piedi, con lo zaino sulle spalle proprio come loro e non trasportato da un grottesco ed enorme triciclo sibilante. Per essere certo di percorrere senza difficoltà quei maledetti metri che separavano casa sua dalla scuola si era allenato tutti i pomeriggi lungo il corridoio, sotto il vigile ed un po’ sconfortato controllo dei genitori. Più di una volta, vinto dalla stanchezza, era finito disteso a terra ed i genitori erano stati costretti a sollevarlo, prendendolo di peso da sotto le ascelle e scambiandosi reciprocamente sguardi avviliti. Bibi, però, non voleva arrendersi e stringendo con maggiore forza le impugnature delle stampelle riprendeva il suo esercizio, incurante delle preoccupate proteste dei genitori. “Mamma, papà, voi non potete capire quanto è importante per me.” diceva loro, quando si concedeva un minuto di pausa per riprendere fiato. E loro, infatti, non capivano, temevano soltanto che si potesse far male cadendo e non sospettavano quanto per il figlio fosse doloroso sapersi cosi diverso dagli altri, sapersi incapace di muoversi con i propri muscoli. A volte quando girava per la città con la sua carrozzella elettrica si sentiva una creatura extraterrestre, per metà umana e per metà macchina. Le stampelle, per quanto fosse faticoso e pericoloso adoperarle, gli restituivano un’immagine umana, certo, un immagine di sofferenza, ma che rimaneva sempre umana. Poi il fatidico giorno arrivò, gravido di speranze e timori. Per lui quello era il giorno della sfida e dell’affermazione della sua identità, mentre i genitori lo ritenevano la fine delle illusioni di normalità del loro unico ed amatissimo figlio. Quella mattina con lo zaino sulle spalle Bibi iniziò la sua lenta e sofferta “scalata”. Il padre con aria mesta lo seguiva a pochi passi di distanza, convinto che la determinazione del figlio si sarebbe conclusa con una amara delusione. Il ragazzo avvertiva la preoccupata sfiducia del padre e da questa traeva una maggiore forza. Ad ogni metro le sue mani, strette come morse nelle impugnature, si facevano sempre più bianche e le stampelle vibravano per l’energia che trasmetteva quella poderosa presa. Presto il sudore copioso gli bagnò il volto costringendolo a delle soste, durante le quali il padre, senza dir nulla, lo asciugava con un fazzolettino di carta. Bibi, però, dopo ogni sosta riprendeva la sua marcia con maggiore alacrità, trascinandosi dietro le gambe inermi come se fossero una coda posticcia. Erano rimasti pochi metri a dividerlo dal cortile della scuola, ormai ce l’aveva fatta, e senza comprenderne le ragioni iniziò a piangere. Lacrime e sudore si mescolarono tra loro rendendo quasi impossibile distinguere le une dall’altro. I suoi nuovi compagni si sarebbero limitati a vedere solo un povero disabile che sudava per l’aver percorso pochi, e per loro irrilevanti, metri. Il luccicore delle lacrime in mezzo al sudore sarebbe rimasto un segreto di Bibi, uno di quei tanti che non avrebbe mai confessato a nessuno. Poi, quando al suono della campanella tutti si affrettarono a raggiungere il cancello d’ingresso, Bibi con il poco fiato che gli era rimasto disse a se stesso: “Mi chiamo Reseph.” Saul Ferrara Racconto tratto dalla raccolta “I sogni dell’Ombra”
Posted on: Wed, 24 Jul 2013 08:12:22 +0000

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