P A L M I S A N O - TopicsExpress



          

P A L M I S A N O ( “ Beati i miti, perché erediteranno la terra…” ) Biagio Palmisano, nato a Caronia Montana (provincia di Messina) il 15 marzo del 1950. Nacque in un mattino di marzo, verso le otto, quando la primavera cominciava a imperversare sulla Sicilia tutta, riservando alla zona dei Nebrodi la solita particolare bellezza, frutto d’un patto tra gli dei e le sinuose ninfe dei boschi. Donna Mariannina, a Brasuzzu, lo fece come bere un bicchiere d’acqua ! Venne facile facile, come fare una “cacata”, con rispetto parlando ! E così nacque Brasuzzu, secondogenito ma maschio ! Il padre, Salvatore, conosciuto da tutti come “Pollicino “, un metro e cinquantadue di uomo, piccolo e dalla struttura esile ma svelto ed estremamente resistente alla fatica, esercitava il mestiere antico di carbonaio nei grandi boschi dei Nebrodi. Aveva sposato Mariannina appena due anni prima e la donna, alta una decina di centimetri più del marito, rigogliosa e massiccia, gli aveva già partorito due figli; Rosetta e Biagio, appunto. Pollicino, per il suo lavoro, era costretto a vivere nei “pagliari” in mezzo al bosco per tre quarti di ogni mese e la gente, con maliziosa bonomia, diceva che ogni volta che tornava a casa “ci stampava un picciriddu a Mariannina”, e chissà quanti bambini sarebbero venuti ancora, dato che lui era ventunenne e lei di poco più vecchia ! La previsione, infatti, s’era rivelata esatta, poiché nel giro d’un decennio Mariannina di figli ne aveva confezionati sette. Tutte femmine ad esclusione di Biagio. Forse per il fatto di vivere con sei sorelle, tutte vivacissime e petulanti, forse perché assomigliava al padre e non solo fisicamente, il bambino venne su afflitto da una timidezza infinita, incapace di reggere lo sguardo di un estraneo e, caso tipico, da una balbuzie esagerata. Biagio o Brasi, come si dice in dialetto caronese, non era soltanto timido, infatti a volte la timidezza può celare in un individuo molti segni di forte personalità, se non addirittura, aggressività ; Biagio era un mite allo stato puro. La mitezza era l’essenza del suo esistere su questa terra, obbedienza e spirito di sacrificio, poi, la accompagnavano formando un terzetto caratteriale davvero singolare. Mano a mano che gli anni passavano, queste caratteristiche erano sempre più evidenti nel ragazzo, destando tenerezza nelle persone buone che lo frequentavano ma anche perfidia presso l’altra categoria, quella dei cattivi. Ma Biagio, anche di fronte a soprusi e angherie, che a scuola regolarmente si attirava da parte di compagni più “svegli” e vivaci, “virava di bordo”, sopportava e non provava rancore verso nessuno. Accettava la sua condizione con una consapevolezza dei suoi limiti degna di una persona ben più matura della sua età. Brasuzzu non era un vigliacco, non calcolava i pericoli di una eventuale ribellione, soltanto che nel suo DNA non esisteva nemmeno l’ombra della violenza e del rancore. La sua mitezza rasentava la santità…o l’idiozia. L’unico a capire era suo padre, se lo portava spesso nei pagliari delle carbonaie, non gli diceva granchè, ma con estrema delicatezza, gli comunicava tutto il suo amore e tutto quello che la sua povera vita gli aveva insegnato. Bisogna anche aggiungere che Salvatore Palmisano, piccolo e modesto uomo dei boschi, possedeva una grande dote, che lo faceva giganteggiare su tutti, sia in paese che nell’ambito dell’intera regione dei Nebrodi : era un abilissimo scovatore di selvaggina ! Chi andava a caccia con lui poteva tranquillamente lasciare i cani a casa ! Pollicino si posizionava davanti al gruppo di cacciatori che procedevano “a ventaglio”, attenti ad ogni suo cenno. Andava avanti con passi felpati, ogni tanto si fermava, immobile, come un Setter o un Bracco, e girando gli occhi attorno, senza muovere la testa, scrutava ogni minimo segno di guizzo o di movimento impercettibile; se trovava qualcosa, alzava il braccio e, senza fiatare, segnava a gesti con mimica tutta sua ma che i cacciatori comprendevano perfettamente. Non di rado, passava dall’immobilità più assoluta allo scatto repentino, si tuffava tra rovi e cespugli con agilità impressionante, o per sbarrare la corsa ad una lepre o per spingerla in bocca ai fucili puntati. Insomma, aveva fatto di questa sua dote naturale una vera e propria arte che gli fruttava anche concretamente. Molta gente importante, di Sant’Agata di Militello, di Santo Stefano, o addirittura di Messina o Palermo, con la passione della caccia, lo ingaggiava per una battuta e lui accettava, non faceva prezzi, non chiedeva, ma puntualmente, alla fine del giorno o del periodo di caccia, riceveva buoni compensi in termini di denaro o di pezzi abbattuti, che regolarmente andava a rivendersi. Tutti conoscevano Pollicino e le sue doti e tutti cercavano di tenerselo buono; uno così non lo si trovava facilmente! Il giovane Biagio seguiva spesso il padre in queste battute, ne spiava tutti i movimenti, cercava di carpirne i segreti e questi, felice che il figlio fosse così appassionato e che si liberasse dalla timidezza, lo istruiva sempre per bene, dedicandogli tanto tempo. Brasuzzu ascoltava, spalancava gli occhi che abbandonavano il solito imbarazzo e diventava per un po’ come tutti i ragazzi, spesso meglio di tutti. E Brasuzzu imparava alla svelta, eccome ! Fu così che nel 1962, durante la settimana tra Natale e Capo d’anno, Salvatore e Biagio Palmisano fecero la conoscenza dell’Onorevole Alfonso Gratteri, illustre avvocato penalista presso il Foro di Palermo, Deputato all’assemblea Regionale Siciliana, nonché ricchissimo proprietario terriero della zona di Santo Stefano di Camastra. Appassionato cacciatore, era un uomo grande e grosso, dai capelli biondi tendenti al rosso, due spalle ed un torace poderosi. Portava a spasso una pancia degna di un principe vichingo, ma nonostante la stazza, nei boschi camminava che era un piacere e tirava assai bene col fucile. Quarantenne, avvezzo da sempre alla ricchezza ed al successo, era uomo altezzoso ed arrogante e, nonostante fosse dotato di gran cultura, era di una presunzione infinita. Grande mangiatore e donnaiolo impenitente, aveva fama d’essere genitore di numerosi figli illegittimi, quasi tutti frutto di “amori ancellari”, avvenuti con le varie serve e cuoche della sua antica e grande villa di Santo Stefano. Lui era l’unico rampollo ed erede della baronessa Fifè (sta per Filippa) De Crescenti, donna all’antica e tutta d’un pezzo ma che “sbavava” per questo figlio “bellissimo ed intelligentissimo”, avuto dal matrimonio con un ricchissimo latifondista di Cefalù, deceduto due anni dopo la nascita di Alfonso. Alfonso era il suo “Principe” e tutto gli era dovuto, e tutto gli era stato consentito sin da bambino. Ecco il perché dell’atteggiamento dell’Avvocato Onorevole, che tutto poteva e tutto comprava. L’unico difetto che mancava al suo umano repertorio, però, era l’avarizia, e così Alfonso Gratteri, attingendo all’infinito patrimonio familiare e usufruendo pienamente dei suoi cospicui redditi, pagava, pagava ed otteneva, otteneva cariche, onori, favori e amicizie. Dotato anche di una sottile furbizia e di oratoria fluida e avvolgente, era diventato l’avvocato che era diventato, nonché Deputato Regionale nelle file del partito liberale ! A Palermo abitava un grande appartamento sito in piena via Libertà e teneva studio in un altrettanto lussuoso palazzetto nei pressi di piazza Politeama. Ad appena ventiquattro anni aveva sposato l’unica figlia del costruttore edile più ricco di Palermo, uomo colluso con mille “cavigghi” ma estremamente potente e dalla lunga mano. “Picciuli chiamanu picciuli !”, così si dice in Sicilia e così è ! E poi, la giovane moglie, bella d’una bellezza sconvolgente con occhi da tigre e corpo sinuoso, era quanto di più adatto potesse affiancare cotanto “principe”, anche se la ragazza, maliziosa e viziata, non svettava nella misura dell’intelligenza ed era più ignorante d’una capra ! Ma così è, non si può avere tutto dalla vita ! L’Onorevole Gratteri sentì parlare di Salvatore Palmisano nell’estate del 62, a Santo Stefano, mentre cenava nell’immenso terrazzo della villa in compagnia del gioielliere Pisanino, ospite a casa sua. “ Che ?…Non lo conosci ?…è qualcosa di portentoso, se vai a caccia con lui ti devi portare appresso un furgone, tanta è la caccia che ti fa prendere ! E’ favoloso, e puoi lasciare i tuoi cani a riposare tranquillamente, non ne hai bisogno di cani con Pollicino ! Pollicino è meglio d’una intera muta di cani di razza ! “ Gli disse Pisanino, sorseggiando un bicchiere di Porto. “Lo voglio conoscere !”, disse perentorio l’Onorevole con la solita, plateale sicurezza. Fu così che iniziò un sodalizio che si protrasse, fitto fitto, negli anni, anche se basato su due bisogni estremamente opposti. L’onorevole pagava bene e si lasciava andare a regali extra che per Pollicino e la sua famiglia numerosa erano una vera benedizione. Era sì borioso, gli piaceva comandare ed era spesso preda di scatti d’ira davvero offensivi nei confronti di Palmisano e, soprattutto, del piccolo Biagio. Ma i fogli da diecimila giungevano puntuali e Pollicino si rendeva conto di non aver mai guadagnato tanto nella sua vita. Si metteva, quindi, a disposizione di quel potente uomo bizzarro, ripagandolo con la sua abilità nell’individuare selvaggina, tane e piste. Brasuzzu faceva da portatore di fucili e si caricava di prede ammazzate. Durante il periodo della caccia aperta ed anche oltre, l’Onorevole era diventato esclusivista dei servizi dei Palmisano, anzi, aveva minacciato rappresaglie qualora Pollicino avesse portato a caccia altra gente che non fosse lui e qualche suo amico importante. “ Io ti pago bene, anche troppo…! “ , rinfacciava spesso. E Salvatore Palmisano abbozzava, sopportava le parolacce che, gratuitamente, venivano affibbiate a lui e a Brasuzzu e ogni volta pensava: “ Calati Juncu ca passa la china…”. Biagio, dal canto suo, mite com’era, stava a testa bassa, soltanto mortificato per gli epiteti rivolti al padre e non a lui. Gli dispiaceva per suo padre, lui non si risentiva mai, era nato così, con un limite di sopportazione infinito, consapevole, consapevole del suo stato “inferiore”. E l’onorevole, quasi a voler piegare questo estremo limite, ci dava dentro con Biagio, eccome ! Lo sfotteva per le rare parole balbettate ogni tanto, lo sgridava per nulla, si inventava omissioni mai commesse e giù epiteti quali “Testa di cazzo…” , “Figlio di Buttana…” ed altre ancora. Quando tornavano a casa e si lasciavano alle spalle quell’uomo, il padre ogni tanto diceva al ragazzo : “ Se non sarebbe per questi fottuti soldi, figghiu miu, tanti amarezzi non te li farebbe supportari “! Biagio faceva spallucce, guardava il padre sorridendo e diceva: “ No..non..ci…badare..papà, pì mmia un t..tai a proccupari !” A casa non dicevano niente, Salvatore posava i soldi sul tavolo della cucina e Mariannina s’illuminava in volto : “ Chi furtuna, chi furtuna, aviri canusciutu l’onorevole “, diceva. Trascorse ancora qualche anno, Biagio aveva compiuto vent’anni e suo padre da tempo aveva abbandonato l’attività di carbonaio, ormai a tempo pieno a servizio dell’Onorevole che, a parte la caccia, lo utilizzava nella villa di Santo Stefano come giardiniere, inserviente, tappabuchi, ed in infinite attività come fare la spesa giornaliera per Donna Fifè la quale aveva sempre bisogno di qualcuno per le più disparate commissioni. Biagio aveva smesso da tempo d’andare a scuola, s’era fermato alla prima media, e poi era un vero valido aiuto per suo padre, lo aiutava in tutto senza fiatare, lavorava in silenzio ed era l’ombra di Salvatore. L’Onorevole gli aveva evitato di partire soldato ( ma il metro e cinquantasei di Biagio glielo avrebbe impedito comunque, anche senza raccomandazioni ), e gli aveva imposto di prendersi la patente di guida. “ Avrò bisogno di un autista per Palermo, sia per me che per mia moglie, non voglio assumere palermitani, quelli sono più coglioni di te !” Gli aveva detto perentoriamente un giorno. “ Chi furtuna, ora imposta puru a Brasuzzu !” , aveva detto Mariannina tutta felice. Così, con infinita tristezza e profondo imbarazzo, Biagio si trasferì a Palermo e lasciò Caronia. L’impatto con la città fu per la sua natura schiva e timida, come un trauma difficilissimo da superare, tuttavia, col tempo, il fatto di vivere nell’anonimato di un posto affollato e caotico, lo fece sentire come protetto, a Palermo nessuno si prendeva la briga di sfotterlo, era uno come gli altri, nessuno lo guardava, pareva non esistere e lui non faceva nulla per farsi notare. L’Onorevole gli assegnò una stanzetta ubicata nel grande terrazzo soprastante l’appartamento di via Libertà e Biagio cominciò a fare l’autista dell’avvocato Gratteri e della Signora Maria Rosa, quando ne aveva necessità. Il rapporto tra la Signora e Biagio, si definì immediatamente, al primo incontro. La prorompente bellezza di quella donna, sempre profumata e che emanava sensualità da tutti i suoi pori, colpì quel giovane piccolo e timido, travolgendo in lui qualcosa di nascosto ma profondamente vivo. Biagio era si, piccolo e insignificante, ma, come suo padre, celava dentro una carica di desiderio sessuale dirompente anche se innocentemente naturale. Ogni volta che la Signora gli parlava, Biagio diventava di mille colori ! Sentiva un fuoco dentro che lo immobilizzava, lo sconvolgeva, faceva ribollire tutte le tribù di ormoni esistenti nel suo corpo ! E la Signora se ne era accorta subito, maliziosa e felice per quel nuovo “giocattolo” che gli era capitato in dono ! Comprese subito che il gioco perverso ed eccitante della tentazione poteva costituire per lei, così annoiata da una vita troppo facile, da relazioni così false, un “sano” e naturale diversivo con quel “ mostriciattolo” che sentiva di avere colpito dall’alto della sua Divina Bellezza. A Biagio non poteva capitare di peggio, e non lo sapeva ! Lui era, per lo più, occupato con l’Onorevole, dal mattino alle nove sino alle ventuno, ventidue della sera, tranne le numerose volte in cui questi era impegnato in riunioni serali di partito o in sedute fiume all’Assemblea. Allora si facevano le ore piccole, sino a dover stare svegli al limite dell’alba del giorno successivo. Ma per fortuna in questi casi, l’indomani ci si metteva in moto dal tardo dopo pranzo, tranne che alla Signora non venisse in mente un’uscita per gli acquisti o una visita a qualche amica, allora Biagio non aveva la minima speranza di schiacciare un pisolino ristoratore. Tuttavia, in quest’ultima circostanza, per il giovane Palmisano, iniziava un vero a proprio calvario interiore, una tempesta contro la quale era assolutamente privo di difese. Quelle ore con la Signora Maria Rosa erano un martirio, un terremoto fisico e spirituale. Biagio andava a prendere la Fiat 125 blu nel garage accanto , accostava l’auto vicina all’ingresso e attendeva che la Signora scendesse. L’attesa durava un minimo di trenta minuti, il tempo che Biagio venisse preso totalmente dal panico, che le sue mani divenissero come due spugne madide di sudore freddo. Allora, finalmente, la Signora faceva la sua apparizione sul portone, sempre come una diva del cinema, conturbante e consapevole di esserlo, sempre elegante e con abbigliamento speciale, dove per “speciale” si intendeva il modo di vestire elegante ma sfacciato al tempo stesso. Certe scollature, certe gonne sopra al ginocchio, certi spacchi ai lati della gonna ! La Signora non usava accomodarsi nei sedili posteriori, lei sedeva accanto all’autista, era “democratica” lei ! Allargava le gambe e si sedeva, la gonna andava sempre su e lei a far finta di spingerla giù ! Piegava le gambe e le ginocchia erano sempre rivolte a sinistra, sino a rasentare il pomello della leva del cambio. Biagio non voleva guardare, ma la coda del suo occhio destro non ne voleva sapere ed il battito cardiaco diventava una mitraglia. Quando la mano destra sfiorava il ginocchio, lei si scostava un po’ per poi tornare “distrattamente” al punto di partenza. Lui cercava di cambiare marcia il meno possibile. “Palmisano, che fai ? Guarda che il cambio serve per cambiare ! “ Faceva lei con il solito sorrisetto malizioso. Insomma, per il povero Biagio era un’ autentica tortura ! “ Mille volte meglio le parolacce dell’Onorevole ! “, Pensava con tutta la sincerità possibile. La stanzetta di Biagio era sul terrazzo soprastante il lussuoso appartamento dell’Onorevole. Questi, con la solita arrogante sicurezza di quegli anni, aveva fatto costruire sul terrazzo condominiale un mini,mini appartamento composto da una stanza, un bagnetto, un posto-cottura : freddo umido d’inverno, calura torrida d’estate. Ma per Biagio, figlio di Pollicino Palmisano, quel posto era un vero e proprio “ residence”, niente a che vedere con l’umidità dei boschi, lo scirocco violento, il freddo della terra o il fiato asfissiante del vento meridionale delle notti sui Nebrodi ! Se non fosse stato per quel sogno-incubo della Signora Maria Rosa, tutto sarebbe stato sopportabile, nonostante gli epiteti dell’Onorevole, nonostante tutta la marmellata unta e sgradevole del vivere con Quelli ! Ma la Signora, la Signora….! La Signora si era creato un campanello, che accendeva una luce verde, in contrasto col campanello tutto rosso dell’Onorevole ! Biagio, piccolo e sgraziato, brachiforme, con la testa grossa e il naso lungo, i capelli ispidi come quelli degli “spinoni”. Biagio, Brasuzzu Palmisano , un giocattolo onirico per le notti in cui la Signora strofinava le sue lunghe cosce abbronzate nell’aria profumata della sua stanza da letto. Biagio, piccolo tizzone, sbrodolante orrida attrattiva, guizzante simbolo fallico in un universo sessuale dove l’Onorevole era soltanto tutto ! Persino tutto ! Fofò le veniva addosso come una valanga di carne, le opprimeva lo sterno, le mozzava il fiato, la schiantava tutta, privandola della fantasia, dell’attesa, del “magone”, della lascivia ! Fofò le diceva parolacce, come a una puttana, , …..se la faceva ! E basta ! Allora il circuito doveva essere dei sogni ,delle carezze indicibili ,della tempesta dei desideri e di….tutto quanto doveva avere uno sfogo, minimo, seppure onirico ! Ecco perché Biagio: piccolo Biagio, tutto tremori e timori, vergine esistenza quasi deforme, eccitante, lussuriosa ! Tormentare quel piccolo essere balbettante, divenne il passatempo preferito della Signora. Un giorno si confidò con Palma, la sua amica del cuore, moglie del Cavalier Ramitta, considerato a Palermo come il re del caffè, proprietario di una industria e di numerose torrefazioni. “……poco fa è venuto a portare la spesa, io ho fatto finta di non averlo visto e mi sono tolta la vestaglia, è scappato via come se avesse visto il diavolo in persona…., mischino, ora è sopra, nella sua stanza….secondo te che sta facendo ?….” E giù risate ! Risate a non finire. E quelle risate giungevano addosso a Biagio anche in sua presenza, e siccome il ragazzo era mite si, piccolo e goffo si, ma non certo un cretino, veniva colpito da quelle risate e risatine come fossero coltellate. Le parolacce dell’Onorevole, a confronto, erano come piccoli scappellotti . Una sera di settembre Biagio andò a prendere l’Onorevole in aeroporto, tornava da Roma dove aveva partecipato al congresso del suo partito. “ Domani non vado né in studio, né in assemblea…domani mi voglio prendere una bella vacanza, si va alle case di Miridduzza, sopra Santo Stefano, questo è tempo di colombacci, spariamo ai colombacci ! E siccome non si deve camminare ci porto pure mia moglie…così facciamo una scampagnata, domani ti do il ventidue e così spari pure tu ! Col dodici, così mezza sega come sei,…capace che il rinculo ti sbatte a terra ! “, disse Gratteri appena salito in macchina, insolitamente allegro. “Non c’è bisogno che avvertiamo tuo padre, per i colombacci non c’è bisogno !”, aggiunse. Partirono l’indomani mattina di buon’ora, aveva appena albeggiato. Biagio aveva sistemato i fucili, il tavolino e le sedie da picnic, unitamente alla borsa con il cibo, nel portabagagli. La Signora, notò il ragazzo, era più bella ed attraente che mai. Nonostante la levataccia, aveva un viso splendido e gli occhi da pantera le luccicavano come le stelle che s’appressavano a dare il benvenuto al sole nascente. Portava i capelli bruni appuntati alla nuca, lasciando scoperto il bel collo lungo da cigno, indossava una camicetta di seta bianca trasparente che lasciava intravedere un reggiseno nero, sulle spalle un leggero golf di lana per via dell’umido del mattino, ed una gonna jeans che arrivava appena sopra le belle ginocchia tonde, sotto le lunghe gambe ben tornite e abbronzate, calzava due nuove scarpette da tennis che la facevano apparire una ragazzina. Portava i suoi quarant’anni che era una bellezza ed il suo corpo sinuoso e slanciato sembrava quello d’una donna molto più giovane; non aveva avuto figli e questo fatto non aveva minimamente inaridito il suo aspetto. Quanto leggiadra era la sua figura, quanto possente e massiccio era l’aspetto di suo marito. L’onorevole, sopra una camicia a quadri, portava il giubbetto senza maniche da cacciatore e sotto l’enorme pancia, pantaloni color militare e stivaletti da campagna, in testa un cappello a falde abbassate che, su quel faccione sempre rosso, appariva come marmellata sulla pasta col sugo di pomodoro. L’insolita allegria della sera prima si era dileguata e Gratteri pareva non dover affrontare una giornata di relax e di divertimento : l’arroganza e il nervosismo si palpavano concretamente. La Signora si accomodò assieme al marito nel sedile posteriore, quando c’era l’Onorevole non faceva la “democratica”. La “musica” cominciò subito: “cretino, sta attento agli incroci…!”, sulla circonvallazione che portava all’autostrada. “ Deficiente , quando si sorpassa non si rallenta…!.”, all’altezza dell’uscita di Trabia. “ Coglione, vai un po’ più piano…!”, sul rettilineo di Buonfornello. “Palmisano, bestia, che cazzo fai, sorpassi ?” , sull’unico rettilineo dopo Cefalù. La Signora stava zitta e guardava fuori dal finestrino, sembrava distratta , non curante dell’arroganza del marito, ma ogni tanto guardava la faccia avvilita di Biagio attraverso lo specchietto retrovisore, e sorrideva sarcastica. Il giovane, all’ennesimo epiteto lanciatogli contro dall’Onorevole, cominciò a sentire dentro di se qualcosa che non aveva mai provato in vita sua. Come un ruggito insistente, qualcosa di solido piantata nel petto, una sensazione che gli fece sudare le mani sul volante e contrarre la mascella : era astio ! Per la prima volta, Biagio Palmisano, provava senso di rivolta ! Ma, come per istinto di difesa, cominciò a lottare con quella spiacevole nuova sensazione, e per il momento riuscì a vincere la battaglia. Giunsero a Santo Stefano verso le otto del mattino, uno splendido mattino di settembre, il mare calmo e azzurro si vedeva a una certa distanza, l’aria fresca e tersa rendeva tutto più bello. Passarono davanti l’ingresso della villa dell’Onorevole. “Non ti fermare, a quest’ora mammina dorme, andiamo a salutarla al ritorno ! Prosegui per Miridduzza…e mi raccomando…senza scossoni !” L’auto svoltò sulla destra, subito dopo il ponte sul fiume asciutto, e si accinse ad affrontare la tortuosa salita che portava alle case di Miridduzza, antica proprietà della famiglia De Crescenti, un tempo masseria viva nel cuore di una quarantina di ettari di bosco e pascolo e ora completamente abbandonata. Arrivarono alle case dopo una mezza dozzina di chilometri di curve tortuose su una strada polverosa e sconnessa. L’auto si fermò nel grande spazio che un tempo costituiva l’aia , intorno le “ Case”, vecchi edifici in pietra, abbandonati, con i tetti sfondati e circondati da rigogliosi e fitti roveti. La Signora fu la prima a scendere, appena messi i piedi a terra si allungò stiracchiandosi e sbadigliando, “ Finalmente, non ce la facevo più….Fofò…che bello ! Senti che aria ! “ Disse emettendo gridolini di piacere. L’Onorevole guardò tutto intorno, con un’aria malinconica e quasi commossa ma che ostentava l’idea del possesso e del rimpianto di un tempo che non c’è più ! Biagio, mentre tirava fuori le cose dal porta bagagli, rivolse un pensiero alle famiglie di poveri contadini che avevano abitate quelle case. “Quanta povertà, quanto lavoro, quante angherie da parte dei padroni !” E cercò di immaginare l’aspetto del padre o del nonno dell’Onorevole, e gli parve di udire l’arroganza delle loro voci, gli ordini secchi, le bestemmie ! “Noi ci sistemiamo qui, …tu dall’altra parte, dietro l’ultima casa, prendi il ventidue e il cinturone piccolo, ci saranno dieci colpi…e non fare il coglione, non spararteli tutti in una volta, aspetta che i colombacci s’avvicinino e se sei sicuro…spara !…E non ti fare cacare in testa…!” Disse Gratteri, ignorando quante di quelle volte Biagio aveva accompagnato il padre a caccia. La Signora emise una breve risatina ed il ragazzo, di nuovo, ebbe una contrazione della mascella. Appena giunto nel posto a lui assegnato, Biagio si sentì meglio, i due erano fuori la portata della sua vista, le case e la macchia selvatica lo separavano da quei due. Sedette su una grossa pietra, il fucile di traverso sulle ginocchia, emise un grosso sospiro e cominciò a guardarsi attorno. La campagna, collinosa e boscosa splendeva di colori che tendevano all’autunno, mille richiami di uccelli riempivano l’aria e le cicale intonavano i loro ultimi canti. Due grosse colombe selvatiche spiccarono il volo e, provenienti dal bosco vicino, si diressero verso le case. Biagio vide che gli passavano sulla testa, “ Che gli spari lui !”, pensò. Dopo qualche secondo udì due colpi, guardò dalla parte degli uccelli. Niente…li aveva mancati, questi continuarono il loro volo sino a scomparire nella parte opposta della boscaglia. Biagio provò un piacere acuto e sentì, senza comprenderle, delle stridule parole provenienti dalla parte di Gratteri. “ Sarà incazzato nero !”, pensò con somma gioia. Trascorse una decina di minuti e Biagio sentì un fruscio e dei passi felpati provenire dalla casa più vicina. Era lei, la Signora. “ Che fai, Palmisano…ti riposi ? “ Fece lei tutta sorridente e ammiccante, muovendosi come una adolescente maliziosa. “ Mmi…ppiace…gg guardare la campagna, è bb bellissima…” Balbettò lui senza guardarla negli occhi. La Signora rimase lì in piedi per qualche istante, poi, di scatto disse a bassa voce : “ Palmisano, girati dall’altra parte, che mi scappa la pipì…non fare il monello e non guardare !”, disse queste ultime parole rotte da un singulto di ilarità. Fece due passi e andò dietro una fitta siepe non tanto alta da evitare che Biagio notasse i movimenti della parte superiore del corpo della donna. Biagio vide l’atteggiamento delle spalle e intuì l’abbassare delle mutandine e il sollevarsi della gonna, ma soprattutto, vide quel sorrisetto malizioso prima che lei scomparisse dietro la siepe. Biagio sentì un ruggito squassargli il petto, impetuoso e irrefrenabile, come un velo di nebbia calargli sugli occhi, il sangue pompare come magma incandescente. La Signora, china in quel modo, intenta a svuotare la vescica, udì i passi scattanti di Biagio allontanarsi velocemente. “ ….Sarà andato a spararsi una sega da qualche parte…” Pensò tutta compiaciuta ed eccitata, in fondo, quello era il suo scopo ! Quando si rialzò, sentì le due fucilate. “Domani i piccioni me li faccio fare “ammuttunati”, pensò tra se, ricordando l’abilità della sua cuoca-cameriera Rosetta a fare i piccioni imbottiti: una vera squisitezza ! Gli arrivò vicino senza farsi sentire. L’Onorevole aveva poggiato il fucile alla base d’un albero e si grattava il grosso polpaccio della gamba destra, in testa quel buffo cappello. Quando Gratteri vide le due canne nere vicine al naso, ebbe un’espressione meravigliata, a bocca aperta. I colpi partirono a bruciapelo, uno dopo l’altro. Il suo corpo venne proiettato all’indietro e fece carambola con il tronco dell’albero. “ Ora si, ora si che sembra marmellata sulla pasta col pomodoro !” Pensò Biagio freddamente, con una freddezza strana, infinita, frutto di quel tremendo ruggito. Lo guardò per un attimo : “A chi sputi addosso ora ?”, disse Biagio senza balbettare, fissando lo scempio sul volto dell’Onorevole. Poi , lentamente, tornò sui suoi passi, verso la Signora. Lei s’era distesa sull’erba, sotto i raggi del sole del mattino, girovagando col pensiero sui sentieri delle sue cose futili, capricciose. Quando s’accorse della presenza di Biagio, girò la testa verso di lui. Quello che la fece restare attonita non furono le canne del fucile puntate contro di lei, ma la grossa carota di carne che fuoriusciva dalla granatiera sbottonata di quel piccolo uomo. Aveva il volto alterato, sembrava una iena con la bava alla bocca. “ In ginocchio, in ginocchio mettiti…buttana !” Le grugnì contro sempre con il fucile minaccioso. “ In ginocchio !!”, gridò assatanato. Lei obbedì ponendosi carponi per terra. La gonna salì sopra la vita e con uno strappo netto le nere mutandine di pizzo volarono via. La prese come i montoni prendono le pecore, con violenza, le mani come due tenaglie sui fianchi di lei. Ogni spinta del suo bacino era un fendente cieco, selvaggio, estremo. Lei annaspava con le mani avanti, prima quasi mugolando, poi gemendo, gemendo. Non era così che voleva essere presa ? Non era così , che non osava neanche pensarlo ? Al momento del culmine, Biagio emise un verso inumano, non era un urlo ma quasi l’ululato terribile d’un lupo ferito, l’ultimo morso. Dalla tasca dei pantaloni prese il coltello, quello per la caccia. Dietro segnalazione d’un pastore che con il suo gregge di capre era passato dalle case, i carabinieri di Santo Stefano di Camastra trovarono i tre cadaveri. L’Onorevole con il volto spappolato, più a monte il corpo di sua moglie, nudo nella parte inferiore, con la gola squarciata da una sola tremenda coltellata, e vicino, con il fucile accanto, quello di Biagio Palmisano che s’era sparato in bocca. Se ne parlò per tanto tempo, e tra la gente che conosceva Biagio non si smetteva mai di dire: “Era così buono, calmo, pareva puru fissa….” ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Posted on: Sat, 14 Sep 2013 10:07:32 +0000

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