PAROLE SALVATE DALLE FIAMME Una lettera a Pasternak di Varlam - TopicsExpress



          

PAROLE SALVATE DALLE FIAMME Una lettera a Pasternak di Varlam Šalamov Kjubjuma, 24 dicembre 1952 Caro Boris Leonidovic, Soltanto una settimana fa ho avuto tra le mani la Sua meravigliosa lettera di quest’estate. Per andare a prenderla ho percorso millecinquecento chilometri nel gelo di meno 50° e sono ritornato a casa solo ieri l’altro.1 Grazie per la Sua cordialità, per la Sua bontà, per la delicatezza – insomma per tutto ciò che spira dalla Sua lettera, per me tanto più cara in quanto ero pronto ad accontentarmi di sapere che Lei aveva preso conoscenza dei miei lavori, e in questo vedevo quasi la giustificazione di tutta la mia vita vissuta in maniera così goffa e dolorosa. Avevo tanta paura che rispondesse con vuoti elogi di cui non ho bisogno, e questo per me sarebbe stato il colpo più duro. Io volevo un giudizio severo, senza nessuna concessione di nessun genere su nulla. Anche adesso non so ancora se ci siano delle concessioni oppure no. E neppure mi aspettavo una risposta. Le ho mandato le poesie, perché nella vita c’è sempre una promessa non mantenuta, un’azione non compiuta, un’intenzione non realizzata e la paura di pentirsi di non aver portato a compimento quella promessa, azione, intenzione. Sentivo un dovere verso la mia coscienza, un’inquietudine interiore per non essere in grado, in nessun altro modo che con una semplice lettera che avrebbe potuto sembrare strana, di ringraziarLa per tutto quello che di buono, puro e retto c’era nei Suoi versi e che mi ha illuminato la strada nel corso di molti anni. Io l’ho vista una sola volta in vita mia. Nel 1933 o 1932 a Mosca, al circolo dell’Università, Lei recitava Seconda nascita,2 e-io, rimpiattato in un angolo, seduto nell’oscurità della sala, pensavo che la felicità era proprio lì, in quel momento: poter vedere un vero poeta e un vero uomo – così come me l’ero immaginato da quando avevo fatto conoscenza con la poesia. Solo alcuni anni prima mi avevano sbalordito e sopraffatto i versi «Febbraio. Prender l’inchiostro e piangere. / Scrivere di febbraio a singhiozzi» ecc. Ero agitato e non capivo quale forza e quali occhi si dovessero avere per scrivere simili versi. E da quel tempo ogni Suo verso pubblicato mi ha affascinato e turbato. Scrivo versi da molto tempo, da quando ero bambino, ma mi pare di non aver mai tentato di mostrarli a qualcuno e per la prima volta li ho mostrati a Lei. Tutto quello che ho scritto prima è irrimediabilmente perduto, ma neppure rimpiango quei versi. Rimpiango quelli degli ultimi anni – ne sono andati persi molti e la parte che Le ho mostrato è forse solo un decimo. Più tardi, quando incontrai i versi di Annenskij,3 che per me furono la successiva rivelazione – mi fu chiaro che le idee poetiche di Annenskij erano vicine alle Sue. Lei parla di influenze. In un certo modo ho sempre diffidato di questo concetto. Mi sembrava che in alcuni casi (e anche nel mio) non si trattasse di influenza, ma della professione di una stessa fede. L’influenza è asservimento, mentre la professione della stessa fede è libertà. Sono di tutto cuore d’accordo con Lei che lo scrivere versi fine a se stesso è una stupidaggine. Eppure come è nato, così va avanti: un gioco nel quale percepisci una forza, la voce di antichi maestri che, quando la ascolti, ti toglie il fiato, un martellamento di versi nel cervello – così persistente che ti senti meglio soltanto quando li scrivi, un mondo che di anno in anno sempre più docilmente si è adagiato sulla carta. E poi – fin da quando si è giovani, si pensa a come poter servire gli uomini, essere di qualche utilità, non vivere invano la propria esistenza, fare qualcosa per rendere migliori gli uomini, per rendere la vita più calda e più umana. E se senti dentro di te la forza di fare questo con i versi, nell’arte – allora tutte le altre strade si perdono nella nebbia e tutto diventa insignificante, talvolta anche la vita stessa. Così tante cose sono state smarrite, sprecate, uccise, non raggiunte e soltanto ciò che mi era più caro si è conservato per tutta la vita: l’amore per mia moglie e i versi. Per di più io credo da tempo nella spaventosa forza dell’arte, una forza che non si può misurare con alcun metro e tuttavia una forza possente, non paragonabile a nessun’altra. L’eternità di queste Gioconde e Infante, nelle quali ognuno trova ciò che confusamente, inconsapevolmente lo turba; e l’artista, morto molti secoli fa, con la forza della sua arte educa gli uomini ancora oggi – che cosa ci può essere di più invidiabile di una tale forza e quale felicità deve provare colui che ha collocato la propria pietra in questo edificio eterno. Io non faccio nessun paragone tra gli artisti, elimino la nozione delle dimensioni. E per quanto grandiosa sia la forza di un altro poeta – essa non mi costringerà al silenzio. Anche se ciò che ho visto viene espresso in maniera mille volte più debole – comunque viene detto per la prima volta. Io sono felice di comprendere, di percepire come è stato dipinto questo quadro, comprendo il turbamento dell’artista e lo invidio, comprendo la sua anima, comprendo come egli ha parlato con la vita, e come la vita ha parlato con lui. E inoltre: sono profondamente convinto che l’arte sia l’immortalità della vita. Che ciò che l’arte non ha sfiorato – presto o tardi morirà. Forse La fanno ridere queste frasi ingenue. Io non capisco nulla dell’aspetto teorico della faccenda. Le sto semplicemente spiegando – perché scrivo versi. E poi non riesco più a farcela con me stesso – ciò che mi costringe a prendere carta e matita è più forte di me. E oso sperare che tutto quanto ho scritto sia tutto meno che letteratura. Scrivo e non vedo una fine a tutto quello che ho voglia di dirLe e raccontarLe. Vedo in me migliaia di difetti oltre a quelli da Lei indicati, tuttavia quello che ho scritto sono versi, e il mio rapporto con la vita su questa strada – è legittimato. Lei dice molte cose giuste, ma su alcune non posso essere d’accordo con Lei. E prima di tutto – il fatto di cancellare il passato, i Suoi lavori passati. Le Sue ultime raccolte traboccano di questo motivo e, quindi, lo conoscevo anche prima della Sua lettera. Non è eccessivamente crudele questa abiura? Capisco che un maestro rigoroso cresca e viva negando e distruggendo se stesso, ma io ricordo, so anche un’altra cosa. Conosco persone che sono vissute, sopravvissute grazie ai Suoi versi, grazie alla percezione del mondo che i Suoi versi comunicavano – proprio quelli che adesso sono destinati alle fiamme. Ha mai pensato a questo? Agli esseri umani che sono rimasti esseri umani soltanto perché con sé avevano le Sue parole, i Suoi disegni e pensieri? Che i Suoi versi venivano letti come preghiere? Qui non si tratta di «discepoli» che sono stati abbandonati. I versi continuano a vivere anche senza di Lei. E poi quelli non sono neanche discepoli. Ma in quei versi c’erano una vita e una forza che, lo ripeto, hanno mantenuto umani degli esseri umani. […] Grazie a Sua moglie per il cordiale giudizio sui miei scritti. Ella tuttavia si sbaglia, giacché io non cerco approvazione. So per primo di trovarmi sulla soglia della poesia e per quanto questo passo decisivo sia difficile – lo farò. […] alla metà degli anni venti, che nella biblioteca Rumjancev ho incontrato per la prima volta i Suoi versi. Non starò qui a scriverLe perché i modi di dire da Lei condannati in quanto gioco di parole mi sono sembrati necessari. Lei li ha sentiti, nella maggioranza dei casi, come una forzatura, una nota falsa. Per quanto a me potessero sembrare giustificati e addirittura indispensabili, se ciò pare soltanto a me, vuol già dire che non vanno bene e devono essere eliminati. Sono comunque profondamente commosso e orgoglioso del fatto che Lei abbia trovato il tempo e la pazienza di leggere attentamente quei due libri – certo, non sono dei libri, ma dei brogliacci. Perché diventino libri, bisogna lavorare ancora molto su ogni verso. Ho ricopiato per Lei le poesie una dopo l’altra e solo poi ho rimpianto di non averne incluse molte altre invece di quelle che ho mandato. Io non posso, non sono abituato a scrivere in presenza di qualcuno, ma nel gelo, d’inverno, non si sa dove andare a nascondersi. Grazie per le cinque meravigliose poesie inviatemi. Si potrebbe parlare molto di ciascuna di esse, più esattamente, a ciascuna di esse, perché – forse che si deve parlare di una poesia? […] Ancora una volta La ringrazio calorosamente per la lettera. Lei mi pone di fronte grandi e alti compiti. Dio sa se saprò vincere questa battaglia, ma ho l’impressione di aver compreso la verità e l’anima della poesia, e la coscienza di questa forza mi costringerà a restare attaccato alla carta e all’inchiostro. […] V. Šalamov Note 1 Šalamov raccontò questo episodio nel racconto ‘La lettera’ in Kolyma. Trenta racconti dai lager staliniani, Roma 1976, pag. 226. 2 Raccolta di versi di Pasternak pubblicata nel 1932. 3 I. F. Annenskij (1856-1909) poeta, traduttore e critico letterario russo, influenzò l’acmeismo e il futurismo. Da Varlam Šalamov – Boris Pasternak, Parole salvate dalle fiamme, Archinto, Milano 1993. Dell’autore sono disponibili in commercio i volumi: I racconti di Kolyma, (Einaudi e Adelphi), La quarta Vologda (Adelphi) e Destino di poeta (La Casa di Matriona).
Posted on: Wed, 23 Oct 2013 07:42:32 +0000

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