Paul Valéry: per un’estetica della composizione Un - TopicsExpress



          

Paul Valéry: per un’estetica della composizione Un inizio Come avrebbe detto più tardi Maurice Merleau-Ponty, è impossibile comprendere l’opera di Paul Valéry senza tenere conto del lungo periodo in cui «il s’est tu»1. Il celebre mito del “silenzio” di Valéry è senza dubbio un topos della critica letteraria che, all’analisi dei documenti, si rivela illusorio. È pur vero che, grosso modo tra la Introduction à la méthode de Léonard de Vinci e La Jeune Parque, Valéry si eclissa quasi completamente dalla scena letteraria del suo tempo, scena su cui aveva appena mosso i primi passi, non senza un relativo successo e la benedizione del maître Mallarmé. A ben vedere, però, il “silenzio” in questione designa meno il radicale desœuvrement che il personaggio di Monsieur Teste viene a incarnare in quegli stessi anni (e che più tardi tanto sarebbe piaciuto ai Surrealisti), che la messa in opera di un modus scribendi – quei bizzarri “esercizi spirituali” che sono i Cahiers – cui, nel tempo, si sovrappone una imago vitae, fabbricazione letteraria di un autoritratto in posa d’autore. Un’immagine, quest’ultima, che se in un primo momento non è che rappresentazione di sé ad uso tutt’al più di pochi intimi, al momento della raggiunta notorietà di Valéry diverrà pietra d’angolo nella costruzione di una leggenda retrospettiva dell’origine della propria opera2. Se il “silenzio” di Valéry si rivela essere uno di quei miti di cui vive la sezione della «Comédie de l’esprit» che prende il nome di storia della letteratura, l’atto di sottrarsi al commercio della società letteraria del tempo non può essere sbrigativamente liquidato come un rifiuto dei dettami o della configurazione contingente di quest’ultima, ma deve essere letto nella prospettiva delle posizioni teoriche dello stesso Valéry, e più precisamente di quel mosaico di questioni che egli apre sui limiti e la funzione del linguaggio, della letteratura, della filosofia. Tanto più che proprio la persistenza di una scrittura destinata in primo luogo e in un primo momento a se stesso viene a coincidere innegabilmente con la scelta della prosa astratta a discapito del­l’arte dei versi3. Con buona pace dell’etichetta di anti-filosofo che Valéry amerà attribuirsi, la scelta di abbandonare la poesia segna infatti chiaramente una svolta speculativa, come se l’attenzione del giovane autore si spostasse dalla pratica della letteratura al plesso da cui questa stessa è prodotta e che, nonostante l’ossessione del Moi, è lungi dall’assomigliare a una soggettività conchiusa e unitaria. Al contrario, più Valéry indaga la potenza dell’esprit come forza conoscente, senziente e produttiva, più il soggetto che è chiamato a incarnarlo si presenta come un mosaico di funzioni disparate e di piani diversi di percezione, di consapevolezza e di azione. Parallelamente, il discorso che Valéry svilupperà – a partire dagli stessi Cahiers e poi progressivamente nella prosa saggistica degli anni Trenta, fino al tentativo di riordinamento sistematico che prende corpo nel Cours de Poïétique – non smetterà di descrivere la letteratura come un complesso irriducibile ad unità e strutturalmente composito, animato da una fondamentale asimmetria tra il piano della scrittura e quello della ricezione, dal conflitto tra l’intimità in cui ha luogo l’emergere della parola e l’appartenenza del linguaggio a un orizzonte condiviso, o ancora dal suo comporsi di parola e di fiducia insieme. In questa prospettiva, il basso continuo della redazione dei Cahiers, proprio mentre sembra prendere distanza da queste due discipline, tesse in realtà la trama teorica di un tentativo di riforma della letteratura e della filosofia insieme. Un tentativo che si configura al tempo stesso come un’operazione di frammentazione (della scrittura, dei poli costitutivi del mercato letterario, ma anche del soggetto scrivente, della coscienza per come essa è descritta da Valéry...) e di ricomposizione (nella costruzione di un’opera aperta4, nel sodalizio tra le proprie opere e la figura d’autore che Valéry vi crea, nella concezione funzionale e dinamica dell’esprit, nella ricomposizione di una prospettiva filosofica non sistematica ma organica...). La secessione che il mito del “silenzio” rappresenta potrebbe allora essere letta come la volontà di sottrarsi all’imposizione di un’unità fittizia, quella che nella prospettiva critica dell’e­poca prendeva corpo nella figura identitaria dell’autore, percepita come identificabile con un percorso biografico e con un profilo psicologico dati. Questo tipo di concezione dell’autore e del rapporto tra esperienza e produzione dell’opera viene dunque resa percepibile dal gesto di Valéry che in qualche modo la riduce a paradosso. Il doppio movimento che la scrittura dei Cahiers sembra configurare – movimento di parcellizzazione nell’analisi, movimento di ricostruzione per giustapposizione e montaggio – è mosso, infatti, da una logica del paradosso che va ben ben oltre il semplice gusto dell’aforisma percepibile a tratti in quegli stessi frammenti. Il pensare per paradossi non è soltanto uno stilema tipico di Valéry, ma rappresenta il portato di un’attitudine alla ricomposizione che vuole fare salva l’eterogeneità dei materiali che raccoglie, degli ordini di discorso che combina, delle prospettive che di volta in volta assume. È proprio quest’anti-dialettica del paradosso che conduce specularmente alla costruzione di due “oggetti-mosaico” interrogati da Valéry aldilà delle vulgate e dei luoghi comuni, cercando di rappresentarli indirettamente, senza sottrarli alla loro natura instabile e sfuggente. Mi riferisco da una parte a quel complesso dispositivo del self che propriamente non ha nome nel discorso di Valéry, ma che si compone di tematiche, immagini, modelli riconducibili a una teoria della soggettività in senso lato – dalla conoscenza al corpo, passando per il linguaggio, il sogno o l’attenzione. Dall’altra, a quell’orizzonte culturale in cui prende forma l’umano bisogno di falsificazione e, al tempo stesso, la promessa di una sua possibile redenzione: un orizzonte che con termine vaghissimo possiamo dire letteratura (facendo attenzione a tenere insieme, sotto la medesima etichetta, i fenomeni della scrittura e quelli della ricezione, l’immaginario del pubblico e il “combattimento” col linguaggio, o ancora quella vera e propria sciarada che è per Valéry l’opera di parola). Le pagine che seguono intendono fare segno verso una logica della composizione forse meno appariscente, nelle pagine di Valéry, del desiderio di analisi, ma altrettanto cruciale per il percorso di questo autore. Si cercherà allora di mostrare come entità a loro volta complesse – la coscienza, la letteratura, e prima ancora il linguaggio che è loro interfaccia – siano chiamate dall’impresa stessa dei Cahiers a comporsi in una contiguità di cui la scrittura di Valéry sembra voler fare la propria cifra. Per il momento notiamo come la rinuncia temporanea a prendere parte alla scena letteraria del proprio tempo possa essere letta, in questa prospettiva, non solo o non tanto come una separazione tra la situazione della scrittura e quella del suo contesto ricettivo, ma come la necessità di tenere insieme specularmente l’esperienza interiore che soggiace al gesto creativo e quell’oltre che è il fuori della storia e della letteratura. L’insularità rivendicata dalle pagine di Valéry si mostra, così, meno un isolamento, che il desiderio di collocare la propria scrittura in un mare più ampio di quell’agorà intellettuale che era la Parigi del 1892. Luogo di una pratica conoscitiva del sé e, insieme, di unesplorazione del potenziale della letteratura, i Cahiers possono allora essere compresi come un laboratorio in cui prende forma unidea valéryana di scrittura: quella che ne fa unattività conoscitiva e creativa insieme. Miscellanee del linguaggio, specchi della letteratura Se il paradosso e la contraddizione animano, a ben vedere costantemente, il metodo apparentemente cristallino di Valéry, nessun ossimoro si inscrive più profondamente nel percorso di questo autore di quello che concerne il suo rapporto con il linguaggio: è infatti innanzitutto contro il linguaggio5 – le sue doppiezze, la sua in-consistency, le sue contingenze, il suo appartenere a tutti e a nessuno – che muove l’impresa di Valéry. Per quanto molteplici siano le falle che Valéry indica nel meccanismo linguistico, il peccato originale che inevitabilmente macchia la comunicazione è un dato che fisiologicamente segna il fenomeno verbale, ovvero il suo moltiplicarsi sulle infinite bocche dei soggetti parlanti. Questa infinita ripetizione provoca al tempo stesso ambiguità e coercizione a patterns di significato condivisi: se il linguaggio ci obbliga a pensare secondo configurazioni già e da sempre obsolete, esso ci espone al tempo stesso all’incoerenza delle molteplici istanze di cui è ricettacolo: Les sens des mots comme leurs sons – appartiennent à des âges différents de la pensée générale. Et nous usons, nous, à la fois de ces instruments dont chacun est celui de besoins, de clartés, de problèmes très éloignés les uns des autres. (Valéry [2006]: 109) Tuttavia, è ovvio che proprio l’impresa che Valéry tenta contro il linguaggio, intraprendendo la ricerca dei Cahiers, non potrà farsi che nel linguaggio e attraverso il linguaggio. È così che a margine delle fin troppo note critiche all’impurità dei regimi di parola, che di fatto non bastano a condurre Valéry al silenzio radicale del Signor Teste, trova espressione anche una più pacificata consapevolezza della contiguità innegabile tra opera e linguaggio ordinario. Declinando il linguaggio, esprimendone una possibilità, l’opera diviene implicitamente l’immagine della relazione tra il sistema complessivo della comunicazione verbale e le sue parti. Proprio l’opera, che in tal modo svela allora un funzionamento del linguaggio, non può dunque che manifestarsi anche come discorso sul linguaggio: Pour moi, [...] un ouvrage littéraire se propose comme une spéculation linguistique. Ce n’est ni une pseudo-réalité, ni une fantaisie. Il m’est devenu impossible de m’y tromper: c’est toujours un cas particulier du système Langage-ordinaire. Et il n’y a pas de cris, de conviction, de chant ni de vraisemblance ni de naïveté ni de force ni de rigueur que je ne doive regarder comme appartenant à ce groupe. Les trouvailles comme les sottises en font partie. (Valéry [1973]: 242) L’opera letteraria sarà dunque al meglio «trouvaille» e non «sottise», ovvero discorso consapevole sul linguaggio e non passiva ripetizione delle sue coercizioni. Da questo punto di vista, e non senza una certa affettazione, i Cahiers non cessano di essere descritti, come è noto, nei termini di un vizio, debolezza cui fa eco la celebre risposta all’inchiesta surrealista Pourquoi écrivez vous?. Lapidaria, la risposta di Valéry rimanda a una falla, a una faiblesse6 che è in fin dei conti quella dell’uomo costitutivamente preso in una situazione di linguaggio. Se, al momento della redazione, ogni autore si trova necessariamente confrontato a uno strumento spurio perché frutto di una sedimentazione storica e dell’assemblaggio di bisogni e necessità diverse, il portato della scrittura, nel suo implicito destinarsi all’entità molteplice del pubblico, di nuovo si riconsegna all’orizzonte eterogeneo e sfuggente del linguaggio. Sebbene la polisemia sia la chiave di volta della fecondità e della longevità che Valéry riconosce alla letteratura, e in fin dei conti il principio fondamentale della sua teoria poetica, la posizione espressa in merito a questo pouvoir del linguaggio sembra a ben vedere meno univoca di quel che si potrebbe ritenere. Per quanto, trent’anni dopo l’inizio della redazione dei Cahiers, Valéry abbia già avuto modo di affidare il senso dei propri versi a chiunque voglia prestarne loro uno, il passare di bocca in bocca delle proprie parole continua ad avere qualcosa di inquietante agli occhi dell’autore. È almeno quanto emerge da uno dei tanti passaggi in cui Valéry, retrospettivamente, appunto, parla dei Cahiers: Je tiens depuis trente ans journal de mes essais. À peine je sors de mon lit, avant le jour, au petit jour, entre la lampe et le soleil, heure pure et profonde, j’ai coutume d’écrire ce qui s’invente de soi-même. L’idée d’un autre, lecteur, est toute absente de ces moments; et cette pièce essentielle d’un mécanisme littéraire rai­sonné manque. Le mot saisi s’inscrit sans débats. Je songe bien vaguement que je destine mon instant perçu à je ne sais quelle composition future de mes vues; et qu’après un temps incertain, une sorte de Jugement Dernier appellera devant leur auteur l’en­semble de ces petites créatures mentales, pour remettre les unes au néant, et construire au moyen des autres l’édifice de ce que j’ai voulu... (Valéry [1960]: 700; corsivo mio) Questo passaggio è tratto dall’Avant-propos alla prima edizione di Analecta, volume che do­veva inaugurare una serie mai realizzata, ma progettata da Valéry per antologizzare frammenti provenienti dal grande laboratorio dei suoi quaderni. Si avrà modo di tornare sui possibili significati del lavoro di riassemblaggio delle proprie note. Per il momento, notiamo l’uso che l’au­tore fa del termine composizione nella citazione appena riportata. Composizione, in primo luogo, viene qui a indicare non un’azione dell’autore, come nell’uso tradizionale del termine, ma un fenomeno di ricezione. Nei termini in cui è descritto, inoltre, questo fenomeno non consta di singole letture, bensì di un effetto di prospettiva dato dal riverberare del testo su una collettività molteplice e diacronica: un’immagine complessa risultante di atti di lettura individuali7. È vero che Valéry fa a più riprese uso del termine composizione in un’accezione non tecnica: per citare alcuni esempi, è questo il caso della «composition d’efforts» (Valéry [1960]: 200) che compare ne L’Idée fixe, della «composition de tendresse» delle Histoires brisées (Valéry [1960]: 455) o ancora della «Composition d’un port» che intitola uno dei suoi Cattivi pensieri (Valéry [1960]: 860). Anche in queste occorrenze, la composition ha a che vedere con un effetto di prospettiva, con un apparire che accoglie in unità apparente una complessità di elementi che momentaneamente fanno senso nella loro irriducibilità. Per come sono presentati nel passaggio introduttivo a Analecta i Cahiers, attraverso la procrastinazione indeterminata della loro pubblicazione, sfuggono a una tale composizione a posteriori, al loro apparire come oggetto unitario dello sguardo del pubblico. Addirittura, essi vengono qui definiti come un’opera che, proprio nella consapevolezza del ruolo cruciale che i fenomeni di ricezione giocano all’interno delle dinamiche letteratura, tenta paradossalmente di disinnescarne il meccanismo. Un tentativo di sospendere, visto che non è possibile farne a meno, quel «Giudizio» (qui ironicamente Universale) che fa precipitare in unità il brulicare effettivo delle «creature mentali» che abitano un’opera. Proprio questo gesto di sottrazione, tuttavia, sembra rendere percepibile l’importanza di quello che più tardi si sarebbe chiamato un orizzonte d’attesa. Rinunciando artificialmente a produrre le sue note in un ordine fissato, alludendo ai Cahiers in filigrana delle opere pubblicate, come un sommerso da cui estrae materiale costantemente ricomposto, Valéry rende visibile quanto ordinariamente si dà nelle prassi della circolazione letteraria: la determinazione di una sequenza e di un’unità del testo, ad uso del lettore. Al tempo stesso, dal punto di vista del loro contenuto, questi medesimi frammenti sono presentati da Valéry come la ricomposizione costante di «vues», di istantanee altrettanto disparate: si tratta questa volta degli sguardi gettati sul paesaggio costitutivamente eterogeneo della soggettività che li redige e che vi si descrive al tempo stesso. Le note dei Cahiers si vogliono infatti un esperimento di captazione di vissuti che non può che tradursi in una varietà di toni, soggetti, andamenti. È proprio in questa parcellizzazione che la scrittura si può proporre come l’immagine di un’esperienza di cui, appunto, ciò che sfugge è la legge di composizione, capace di determinarne un momentaneo darsi del senso. Il mosaico della percezione Un luogo comune a molti dei testi introduttivi alle varie antologie che Valéry pubblicò in vita a partire dai materiali dei Cahiers (lasciati in quanto tali inediti), è quello della spontaneità delle note redatte. Lo si è già intravisto: quello che manca all’alba è il “farsi belli” per lo sguardo del lettore. Ancora nella luce indistinta del passaggio dalla notte al giorno, quando chi scrive non ha ancora ritrovato i tratti del proprio viso nello specchio, come si può sapere per chi si scrive? I Cahiers sarebbero allora sottratti allo sguardo del pubblico per poter preservare la loro natura di scrittura di getto, di disordine proprio al mélange della coscienza. Tuttavia, come si è visto, è proprio nel momento in cui queste note sono selezionate e ricomposte che esse vengono presentate come prodotto spontaneo della scrittura, e come immagine del loro autore tel quel, per parafrasare un altro titolo di queste svariate sillogi. Anche in questo caso, pur prendendo in conto il vezzo o il desiderio di costruire un immaginario legato al proprio ego scriptor (quel medesimo che si voleva evitare, procrastinando il Giudizio Universale della ricezione?), traspare un’ambiguità più feconda di quanto non sembri a un primo sguardo. La composizione di queste sillogi è presentata come un mero assemblaggio fattuale, pressoché casuale, che solo a posteriori viene offerto al pubblico. Attraverso di esse, il lettore s’im­batte nell’eterogeneità della coscienza che li ha prodotti – come per la prima volta restituita letterariamente senza costringerla nell’unità insincera dell’affabulazione. Il meccanismo così descritto richiama allora quell’idea di composizione che compariva nell’esempio già citato della «composition d’un port»: la visione animata del porto si apre improvvisamente a chi arriva nelle sue vicinanze, si presenta diversamente a seconda del luogo da cui è contemplata, ma si propone come unità “oggettuale” dell’esperienza, pur rivelandosi all’analisi mero innesto di dati irriducibili tra loro. Poco cambia che questa oggettualità sia il portato spontaneo della percezione o il prodotto massimamente artificiale di un gesto creativo. In effetti, la concezione che Valéry propone del funzionamento diacronico della coscienza è concepita anch’essa secondo meccanismi di selezione e di ricomposizione, di enfasi e di montaggio che determinano, nella massa di stimoli che successivamente sono passibili di attenzione, il costituirsi di un senso, l’orientarsi dell’esperienza. In questa prospettiva, Valéry farà del meccanismo dell’attenzione l’oggetto di uno studio del tutto particolare8, dal momento che esso viene a rappresentare al tempo stesso una dinamica funzionale e la creazione di un contenuto di senso. Ce travail, qui articule en quelque sorte le phénomène, lui substitue un groupement momentané de termes dont le caractère principal est qu’ils peuvent rentrer dans une quantité de combinaisons différentes. [...] Mes impressions éveillent ensemble divers éléments discrets qui se trouvent coordonnés et me procurent un objet de pensée tel que j’aurais pu former de moi seul. Je ne l’ai pas fait; j’aurais pu le faire; et il s’est fait de mes éléments connus. Cet objet est donc, à la fois, formé sans que j’intervienne et identique à ceux que je sais construire. (Valéry [1997]: 233-234) Fonction è, negli stessi anni in cui viene redatto questo passaggio, una delle parole chiave utilizzate da Valéry per pensare qualcosa come un elemento omogeneo della coscienza, “semplice” poiché oggetto di una composizione ulteriore che gli conferisce significatività nell’espe­rienza. Ma questo fattore elementare non è pensato da Valéry come un “dato”, bensì come una “corda” irriducibile della sensibilità. Ogni funzione, infatti, in quanto qualità dell’espe­rien­za, è la relazione tra un tipo di «domanda» e ciò che si configura come sua «risposta». Se la rappresentazione per funzioni della coscienza permette a Valéry di cercare in direzione di modelli dinamici, energetici ed emancipati da ogni ipostatizzazione della soggettività conoscente, il portato simultaneo dell’attività di questi vettori di continuità è necessariamente complesso e momentaneo. Tuttavia, se funziona come un meccanismo di composizione incessante, l’attenzione fa riferimento a un livello di coscienza che seleziona, ordina e dunque riduce a coerenza. Per quanto intrecci il portato di funzioni diverse, essa si colloca dunque tra i dispositivi della pureté. Tanto che, curiosamente, la nozione di composizione viene talvolta opposta alla lucidità di questo genere di selezione e di strutturazione dei portati. Non a caso, la composizione sembra trovare terreno in quel continente sommerso che è il sogno, luogo in cui i meccanismi dell’esprit si danno puri di ogni volontà di significato e di ogni esigenza di coerenza che non sia puramente formale: Dans l’homme éveillé, en quelque sorte monté au ton du réel, il y a, de même, indépendance, non composition des excitations coexistantes. Dans le rêve, il y a composition automatique de tout, nulle réserve. Si je pense quelque chose de A, ce jugement chasse A, comme lui étant étranger. Un jugement ne suit pas l’impression pour la raccorder à un système net et uniforme qui assure et définit ma réalité, mon ordre. Mais ce jugement succède à mon impression et l’annule entièrement, ou la modifie au lieu de la consolider. On pense comme on se heurte. (Valéry [1957]: 933) Pur caratterizzandosi in termini sostanzialmente analoghi all’attenzione, la composizione si configura come un meccanismo proprio al grado zero della vita della coscienza. Al punto che alla composizione “automatica” del sogno fa eco un passaggio che ricorre addirittura a una nozione poco frequentata da Valéry, quella di inconscio: Le travail de l’inconscient serait donc une combinaison ou composition de circonstances et de conditions qui dans la conscience sont représentées par des notions ou des images qui s’excluent. (Valéry [1960]: 771) Qui, l’idea di composizione si rivela nel suo potenziale di meccanismo riflesso, e viene a prendere una posizione intermedia tra la nozione valeriana di combinatoire, pura articolazione della virtualità del possibile, e la reductio ad unum incarnata dall’attention. In quanto dispositivo inconscio, la composizione tesse per così dire l’aspetto immediato della coscienza, il sensibile inteso come complessità transitoria e polimorfa, rescindendo la soggettività in un dispositivo cieco che assembla, da un lato, e in un osservatore che ne contempla il portato, dall’altro. È chiaro, infatti, che nel passo appena citato conscience non indica lo spazio del vissuto, ma l’attenzione consapevole, la selezione coerente di un orizzonte di comprensione verso cui può piegare l’esperienza: essa è ancora sinonimo di quello che Valéry chiama altrove attention. Di converso, la composizione come grado zero della rappresentazione si fa capace di quanto la riduzione a coerenza espunge. I procedimenti compositivi possono dunque lasciar coesistere elementi che allo sguardo lineare della consapevolezza appaiono incompossibili. In questo la logica della composizione è una logica paradossale. Permettendo il persistere di quanto puramente latente, non voluto, essa ne permette al tempo stesso la sedimentazione diacronica, e dunque una manifestazione quantitativa, a discapito dei procedimenti selettivi della coscienza. Ecco dunque il memento su cui si apre Mauvaises Pensées: N’oublie pas que tout esprit est façonné par les expériences les plus banales. Dire qu’un fait est banal, c’est dire qu’il est de ceux qui ont le plus concouru à la formation de tes idées essentielles. Il entre dans la composition de ta substance mentale plus de 99 % d’images et d’impressions sans valeur. Et ajoute que les vues étranges, les pensées neuves et singulières tirent tout leur prix de ce vulgaire fond qui les fait remarquer. (Valéry [1960]: 785) La composizione, in questa ulteriore accezione, diviene una questione di proporzioni, una quasi-materialità che offre alla consapevolezza della conscience un fuori e uno sfondo. Essa non è dunque semplice compresenza dell’eterogeneo, ma preparazione della possibilità di un senso, di una visione nuova e singolare. La connotazione al tempo stesso quantitativo-spaziale e ritmico-diacronica che il dispositivo della composizione assume, laddove riferito a questo tipo di dinamiche percettive, è messa in evidenza da Valéry attraverso l’immagine del sole: Tout ce que nous voyons est composé par [le soleil], et j’entends par composition un ordre de choses visibles et la transformation lente de cet ordre qui constitue tout le spectacle d’une jour­née. (Valéry [1957]: 1094-5) Siamo così giunti al perfetto rovesciamento dell’idea estetica di composizione: quest’ultima diviene infatti il dispositivo stesso che tesse lo sfondo dell’esperienza, il rumore di fondo della coscienza nel suo darsi come possibilità e come unità al tempo stesso. Tuttavia, se Valéry sviluppa senz’altro in questo senso la nozione in questione, tanto che «la vie de l’esprit même» è pensata in analogia alla «composition d’un ouvrage» (Valéry [1957]: 1094-5), l’idea tecnica di composizione è senz’altro una categoria intimamente legata alla figura di questo autore. Filosofia della composizione Si è già accennato al fatto che, divenuto celebre molti anni dopo le crisi giovanili degli atteggiamenti à la Rimbaud di sottrazione e silenzio, Valéry si trova a costruire retrospettivamente la propria immagine. In particolare, Valéry rintraccia le origini del proprio percorso in una stagione artistica di tardo Ottocento, per molti aspetti non ancora storicizzata allorché l’ormai celebre poeta viene a farne lo sfondo del proprio apprendistato estetico. È così che, molto dopo essere stato partecipe di quella stagione, Valéry diviene il primo storico del Simbolismo, proprio mentre si dipinge come amico-erede degli Impressionisti, o ancora come spettatore attonito davanti all’imperversare della folie Wagner. Su queste “radici” della propria produzione l’opera di Valéry non smetterà di ritornare, soprattutto negli scritti destinati al pubblico a lui contemporaneo. Si può vedere in questa circostanza il motivo di un’oscillazione che si riscontra sia nell’estetica di Valéry, sia nelle sue rappresentazioni dell’esprit: quella tra paradigma poetico e modello pittorico (allorché la musica verrà ad alimentare una buona parte delle mitologie autobiografiche). Vero è anche che Valéry praticò in prima persona, e durante tutto l’arco della propria carriera, sia il disegno che l’arte dei versi. È facile, a questo punto, riscontrare come proprio la composizione sia un concetto chiave che permea e attraversa queste due (o tre) radici dell’estetica di Valéry. Certo, nel processo di elaborazione della propria teoria , Valéry prende ampiamente congedo da quello che poteva essere il significato tecnico del termine nei rispettivi contesti a cui fa riferimento. Tuttavia, di un’estetica della composizione si trovano tracce in due celebri ritratti d’artista, l’uno poeta l’altro pittore, entrambi immediatamente legati al retaggio culturale che Valéry stesso riconosce come determinante per lo sviluppo del proprio pensiero: Baudelaire e Degas. Mentre, come ci si appresta a vedere, ciascuna di queste due figure sembra mettere in evidenza un aspetto diverso della teoria della composizione di Valéry, non pochi sono i punti di contatto di questi due ritratti. Primo fra tutti il fatto che Valéry ricordi come entrambi gli artisti abbiano dovuto confrontarsi con il peso di un’eredità e di una tradizione da cui urgeva emanciparsi nella costruzione di un proprio metodo e di un proprio stile. Iniziatori di una nuova epoca nelle loro rispettive discipline, Degas e Baudelaire sono agli occhi di Valéry, i campioni di una «classicità» che, emancipandosi dal passato che immediatamente la precede, supera al tempo stesso i dettami contingenti di una “modernità” fine a se stessa che si annuncia come futuro prossimo. Così facendo, Baudelaire e Degas si svincolano dalla necessità di rispondere direttamente alla propria epoca. In tal senso, Degas Danse Dessin restituisce la figura del giovane pittore imbarazzato al contempo dalla grandezza del modello di Ingres e dal fascino dell’insegnamento di Delacroix, e tuttavia consapevole della decadenza che incombe sul destino della pittura. I modi della pittura sembrano improvvisamente dover cambiare nella repentina mutazione dei gusti, al punto che urge l’inventio di una nuova direzione estetica: […] tandis qu’il hésite, l’art de son temps se résout à exploiter le spectacle de la vie moderne. Les compositions et le grand style vieillissent à vue d’œil dans l’opinion. Le paysage […] ruine la notion du sujet, réduit en peu d’années toute la part intellectuelle de l’art à quelques débats sur la matière et la couleur des ombres. (Valéry [1960]: 1179) Di per sé una tale mutazione non è più minacciosa di quanto non sia promettente. Al Degas di Valéry, tuttavia, incombe il compito di fare proprio questo movimento, di renderlo metodo e pratica della pittura. Si sarà notato come nel passaggio appena citato il termine composition prenda il senso tecnico di soggetto del quadro. È proprio in questo senso che la nozione sottolinea l’interdipen­denza tra l’aspetto formale e quello significativo della rappresentazione pittorica: la disposizione è essa stessa soggetto, seleziona e configura, cioè, un oggetto del quadro. La composizione, allora, diviene il nome di una sensibilità architettonica grazie a cui l’occhio supera l’intel­ligenza, facendosi carico di tessere una relazione di interdipendenza tra gli spazi che il quadro implicitamente crea e le figure che il disegno spartisce. L’oggetto che la composizione costituisce non è fissità univoca e chiusa di un oggetto da contemplare, ma interrogazione e ridefinizione dei contorni della percezione. Altrove Valéry scriverà sempre in merito alla pittura come «art de disposer»: nous recevons toutefois l’action sourde, et comme latérale, des taches et des zones du clair-obscur. Cette géographie de l’ombre et de la lumière est insignifiante pour l’intellect; elle est informe pour lui, comme lui sont informes les images des continents et des mers sur la carte; mais l’œil perçoit ce que l’esprit ne sait définir; et l’artiste, qui est dans le secret de cette perception incomplète, peut spéculer sur elle, donner à l’ensemble des lumières et des ombres quelque figure qui serve quelque dessein, et en somme une fonction cachée, dans l’effet de l’œuvre. Le même tableau porterait ainsi deux compositions simultanées, l’une des corps et des objets représentés, l’autre des lieux de la lumière. [...] C’est là construire un art à plusieurs dimensions, ou organiser, en quelque sorte, les environs et les profondeurs des choses explicitement dites. (Valéry [1957]: 852-53) Il difetto dell’«art moderne» contemporanea a Valéry, è proprio quello di aver fatto della composizione un mero «arrangement» (Valéry [1960]: 1205), dimenticando così che la tessitura dello spazio complesso della tela lascia aperta la possibilità di una continua ri-composizione da parte dell’occhio dell’osservatore. Preso tra questi due momenti di decadenza, Degas cerca traccia la propria traiettoria pittorica. La troverà nel suo saper guardare al mondo con il pennello in mano, ovvero, nella prospettiva di Valéry, convogliando nell’esercizio la capacità inventiva che è già dell’occhio: combien la perception élabore tout ce qu’elle nous donne comme résultat impersonnel et certain de l’observation. Toute une série d’opérations mystérieuses entre l’état de taches et l’état de choses ou d’objets interviennent, coordonnent de leur mieux des données brutes incohérentes, [...] introduisent des jugements. (Valéry [1960]: 1191) Lo sforzo di Degas, il suo fare della linea del disegno il portato unitario dell’occhio e della mano, del vedere e dell’interrogare, incarna senza dubbio i modelli astratti che Valéry aveva anni prima costruito intorno alla nozione di attenzione. E, tuttavia, è alla percezione come potenziale di composizione incessantemente rinnovantensi che fa segno la sua figura. In tal senso, la trasposizione in immagine “pura” dell’esperienza sembra, paradossalmente, non poter emergere che nel linguaggio. È proprio nel saggio su Baudelaire, apparso in origine come prefazione a Les Fleurs du mal, che Valéry esprime l’idea di una distinzione di grado tra composizione e pureté. In questo saggio, come si anticipava, Valéry ritrae il giovane poeta nel suo difficile confronto con la «situazione» della letteratura francese del 1840: come Degas (come Valéry) Baudelaire è colto nella ricerca di un il segno specifico da imporre alla propria arte, in modo da liberare quest’ultima dalla tentazione di assoggettarsi al proliferare della produzione coeva. Se Baudelaire deve, insomma, riuscire a fare «autre chose», questo fare diversamente prende i tratti della ricerca di una forma più solida e più pura (Valéry [1957], 600-601). A sua volta, la purezza in questione si traduce in una reazione al Romanticismo che Valéry descrive come la sostituzione di una «action réfléchie à une action spontanée» (ibidem). Sulla via di questa ricerca, Baudelaire distoglie lo sguardo dalla propria tradizione e sceglie altri maestri: come sappiamo è in particolare verso Poe che si rivolge, ed è proprio la traduzione de The Philosophy of composition che, oltre a segnare la storia della letteratura, traccerà una genealogia poetica destinata ad arricchirsi dei nomi di Mallarmé e, successivamente, proprio di quello di Valéry. Una nuova tradizione che pone appunto la composizione al centro dell’atto poe­tico e che vuole sostituire il lavoro dell’azione ponderata all’illusoria spontaneità dell’e­spressione. Nel saggio di Valéry – ancora una volta con innegabile gusto del paradosso – questa posizione di Baudelaire viene definita «classica» proprio perché viene dopo l’epoca Romantica. Analogamente, la poesia di Baudelaire, ponendosi in continuità con Poe, ne incarna uno sviluppo successivo. La categoria in cui si identifica la sua poesia non è più, dunque, la composizione, ma rappresenta lo stadio ulteriore della pureté. La sua classicità diviene infatti figura di quella ricerca di un linguaggio puro verso cui muove l’opera stessa di Valéry: L’essence du classici­sme est de venir après. L’ordre suppose un certain désordre qu’il vient réduire. La composition, qui est artifice, succède à quelque chaos primitif d’intuitions et de développements naturels. La pureté est le résultat d’opérations infinies sur le langage, et le soin de la forme n’est autre chose que la réorganisation méditée des moyens d’expression. (Valéry [1957]: 604) Mentre la nozione di composizione attraversa mezzi d’espressione diversi e si applica ad ambiti disparati – dalla percezione alla musica passando per le arti visive – Valéry, dunque, associa la nozione di pureté unicamente all’idea di un compito della letteratura e, dunque, a un orizzonte di linguaggio. Tuttavia, come si è cercato di mostrare, il fine che si danno i Cahiers, ovvero la ricerca di un «linguaggio puro» non sembra potersi ridurre all’illusione di una univocità pseudo-matematica della notazione, vagheggiata dalle pagine giovanili. Questo si configura, piuttosto, come la creazione di un regime di parola capace di associare la precisione dell’attenzione (emendata però di un oggetto preciso, di un voler significare individuabile) alla potenza di sintesi che la composizione dischiude. In questa prospettiva, la pureté prolunga e rende costantemente pregnante un meccanismo come quello della composizione, latente già nel grado zero della creazione che è la percezione. E se questo dispositivo rimane, nelle formulazioni di Valéry, legato alla visione, alla questione prospettiva, all’istantanea della vue, esso non trova suo pieno compimento che in quell’immagine dell’esperienza che è – per come la vuole Valéry – la parola della letteratura. Una parola che, non a caso, non cessa di pensare nuove forme capaci di rendere sensibile proprio quel meccanismo della composizione che sembra aiutare a pensare tutti gli ambiti del sentire e dell’agire («En fait de littérature, je ne regarde guère qu’aux formes et à la composition: le reste ne me paraît jamais “sérieux”»; Valéry [1960]: 1511). A partire dal 1908, nel periodo in cui dunque si precisano le teorie dell’attenzione e della funzione cui si faceva riferimento in precedenza, Valéry comincia a trascrivere a macchina i frammenti dei Cahiers, riportando ciascuna nota su un foglio indipendente e libero di essere ri­classificato ulteriormente, secondo una lista di etichette che rimarranno anch’esse in incessante ridefinizione. Più tardi comincerà la pubblicazione delle diverse antologie, estratti, riproduzioni, sillogi. In attesa di rassegnarsi alla postuma ricomposizione dello sguardo di un lettore. Bibliografia Eco, U., 1961: Il problema dell’opera aperta, in Aa.Vv., Atti del XII Congresso Internazionale di Filoso­fia, Firenze, Sansoni. Jarrety, M., 2008: Paul Valéry, Fayard, Paris. Merleau-Ponty, M., 1968: Résumés de cours, Gallimard, Paris. Valéry, P., 1957: Œuvres, vol. I, a cura di J. Hytier, Gallimard, Paris. Valéry, P., 1960: Œuvres, vol. II, a cura di J. Hytier, Gallimard, Paris. Valéry, P., 1973: Cahiers, vol. I, a cura di J. Robinson, Gallimard, Paris. Valéry, P., 1997: Cahiers 1894-1914, vol. VI, Gallimard, Paris. Zaccarello, B., 2010: Piccoli poemi astratti: i Cahiers come progetto filosofico, Fiorini, Verona. 1 Merleau-Ponty (1968): 24. 2 Michel Jarrety, ricostruendo gli aspetti letterari e sentimentali della cosiddetta “notte di Genova” sottolinea bene il rimaneggiamento operato negli anni Trenta di questa vera e propria leggenda di sé. Si veda in proposito Jarrety (2008): 116-117. 3 Altrove, si è tentato di ricostruire quest’articolazione delle finalità della scrittura di Valéry. Mi per­met­to dunque di rimandare a Zaccarello (2010): 89-105. 4 L’ascendente di Valéry, attraverso Pareyson, nell’elaborazione della nozione resa celebre da Umberto Eco è del resto esplicito. Si veda in particolare il primo abbozzo di questa teoria in Eco (1961). 5 Già in epoca precocissima la posizione di Valéry in merito al linguaggio appare contraddittoria: esso è al tempo stesso elemento costitutivo dell’esperienza, problema da sormontare e unico strumento pos­sibile per il superamento dei problemiche pone. Tra le tante occorrenze, eccone due giovanili e pra­ti­ca­mente coeve: «Ce qui obscurcit presque tout c’est le langage – parce qu’il oblige à fixer et qu’il géné­ra­lise sans qu’on le veuille» (Valéry [1973]: 382). E, d’altra parte, «Les mots font partie de nous plus que les nerfs. Nous ne connaissons notre cerveau que par ouï-dire» (Valéry [1988]: 30). 6 Cfr. Valéry (1960): 1487. 7 L’idea della ricezione del testo come composizione è testimoniata in Valéry anche per quello che ri­guarda propriamente il fenomeno della lettura. A proposito del meccanismo tipografico proprio al Coup de dès, Valéry nota ad esempio come «une page [...] doit, s’adressant au coup d’œil qui précède et enveloppe la lecture, “intimer” le mouvement de la composition, faire pressentir, par une sorte d’in­tui­tion matérielle, par une harmonie préétablie entre nos divers modes de per­ception, ou entre les diffé­rences de marche de nos sens, – ce qui va se produire à l’intelligence» (Valéry [1957]: 627). Anche qui, dunque, la composizione è fenomeno sinestetico, insieme verbale e visivo, e la preparazione di un inter­vento dell’intelligenza. 8 Mi riferisco in particolare al Mémoire sur l’attention, redatto nel 1905, rimasto incompiuto pubblicato postumo in Valéry (1997): 225-241. Di qui traggo la citazione che segue. (fupress.net)
Posted on: Thu, 31 Oct 2013 14:32:20 +0000

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