Pd e Spd fratelli di madri diverse di Giuseppe Mele Mentre ci - TopicsExpress



          

Pd e Spd fratelli di madri diverse di Giuseppe Mele Mentre ci si avvicina alle Europee, ci si può chiedere quale sarà la sorte della rappresentanza del lavoro la cui storia dominò il dibattito sulla democrazia europea del secolo scorso. Il Partito Socialista Europeo, dove imperversano il tedesco Schultz e D’Alema, è impegnato in una grande campagna elettorale. Le primarie del Partito Democratico però, con la probabile vittoria del ganzo Renzi, disaffezionano proprio tra la base militante dei pullman che riempiono le piazze. Dopo Prodi, Chiamparino e Scalfari, il capo della Cgil Susanna Camusso precisa di non voler prendere posizione per non dire di essere contraria al futuro segretario del Pd. Lei che un anno fa sostenne con camionate di voti Bersani, minacciando sciagure in caso di vittoria del fiorentino. In realtà l’antisindacalismo renziano è evidente: con il suo avvento filolabour inglese, se ne andrà o si allontanerà un grosso pezzo del puzzle post Pci, la Cgil, parte notevole delle due grandi realtà sindacali europee, l’italiana e la tedesca, colonne del Pse. Italia e Germania, unite e divise, dal Sacro Romano Impero Germanico alla Triplice Intesa ed all’Asse, sono oggi le più importanti realtà sindacali e del welfare europee. Tredici milioni gli iscritti italiani a 4 grandi sindacati e 10 piccoli (ma 56 le union del settore pubblico). 15 milioni i tedeschi del sindacato unitario Deutscher Gewerkschaft Bund (Dgb, con 16 categorie tra cui IG-Metall, ÖTV dei dipendenti pubblici, IG-Chemie ed altri) ed al Dag impiegatizio, ai 650mila quadri pubblici del Dbb ed ai sindacati confessionali. Secondo il rapporto della Commissione Ue di aprile, negli anni della crisi i lavoratori hanno perso la fiducia nei sindacati perché le politiche di rigore hanno escluso la concertazione. Secondo i dati, di cui non si può non denunciare l’incredibile insufficienza, i sindacati crescono in Belgio, Svezia, Finlandia e Italia mentre calano in Germania e Austria. Il rapporto riconosce all’Italia, Paese di massima frammentazione sindacale, tratti “nordici”, con sindacalizzazione del lavoro “medio-alto”, femminile, impiegatizio pubblico più che privato e molti contratti collettivi. I complimenti ai sindacati hanno dettato la scarsa diffusione di queste parole di Bruxelles. Quel che non dice il rapporto è che i due sindacati dominanti la rappresentanza europea e mondiale sono quello francese e quello inglese, di cui uno ai minimi termini, l’altro pura consulenza e opinione pubblica. Senza scomodare la presidenza Ilo affidata ad un sindacalista Uk, per fare un esempio, l’UniGlobal, sindacato mondiale dei servizi, ha chiamato tra le sue file ultimamente il 38nne Courtney, sindacalista Usa della WashTech di Seattle che da contrattista aveva cercato di sindacalizzare la Microsoft. Ovviamente senza riuscirci. Al contrario, l’importanza italo-tedesca nel sindacato europeo è molto sottovalutata, malgrado che il sindacato italiano abbia il 41% di adesioni sul lavoro e che la Germania sia poco sotto il 40%. Il rapporto non sottolinea che la concertazione si è sviluppata, in modi diversi, solo nei mondi tedesco e italiano dove è finita negli anni 2000 ad opera di Berlusconi e del socialdemocratico Schroeder quando si passò alla consultazione aperta. La Kozetierte Aktion, nata negli anni Settanta, e sempre attaccata dagli ambienti Uk, inclusi quelli sindacali, viene chiusa nel 2003 dalla stessa Spd (Sozialdemokratische Partei Deutschlands) con la sua Agenda 2010 che impose “meno prestazioni dello Stato e maggiori contributi personali”. Italia e Germania hanno economie duali, non omogenee: il sud dell’una non cresce sistematicamente esattamente come l’est dell’altra. Il peso morto dell’ex Ddr è costato a Berlino 1500 miliardi di euro in 10 anni. Il successo odierno tedesco è dovuto in larga parte all’introduzione dei contratti individuali (il 50% di quelli del settore metalmeccanico), al 22% dei contratti di lavoro senza contributi, da 500 euro mensili che garantiscono l’occupazione con condizioni peggiori rispetto a quelle dei 3 milioni di precari italiani; è dovuto ad un modello di cassa integrazione meno costosa (12 mesi con il 67% dell’ultima retribuzione, poi 374 euro con affitto pagato della lg. Hartz IV. Modifiche fatte nell’ambito della cogestione, dove non era la prima volta che la Dgb accettava la riduzione dei salari, avvenuta nell’81, nel ’97 e nel 2010, come avvenuto anche da noi negli anni ’90 proprio in applicazione della concertazione. Al Cnel, la Uil si è fatta promotrice di un dibattito sostanziale su “I poteri dei lavoratori nelle aziende” e sui modelli italo-tedeschi, i più importanti sulla scena europea continentale. Il confronto è emblematico di quanto sia politica in Italia divenga concreta praticità per i tedeschi. Da un lato la Fondazione Nenni, dall’altro le Ebert e Bockler; da un lato tanti ex e super ex (Tamburrano, Salvi, Benvenuto, Treu), dall’altro la schiera dei metalmeccanici tedeschi IgMetal (il presidente Huber, Guggemos e Romo); da un lato il giornalista amico dei precari e dei poteri forti De Vico, dall’altro Braun, corrispondente del berlinese Die Tageszeitung e della radio pubblica tedesca ma anche rappresentante a Roma della Ebert, fondazione finanziata dai sindacalizzati Consigli di sorveglianza delle aziende tedesche con più di 2000 dipendenti, gli Aufsichtsrat. Da un lato l’entusiasmo per il modello tedesco che potrebbe costruire quel pilastro sociale oggi inesistente in Europa, dall’altro il cinismo di chi avalla relazioni industriali disfunzionali perché solo i tedeschi sono capaci di fare i “tedeschi”. Da un lato i vertici di Cgil-Cisl-Uil e Confindustria, dall’altro Hemmerich, presidente del comitato aziendale e membro del comitato di sorveglianza della Clariant, che nel malcontento generale con tono didattico puntigliosamente si prende tutto il tempo necessario per raccontare le attività sindacali nell’azienda tedesca. Costituiti dal 1976 con 50% di azionisti e 50% di rappresentanti dei lavoratori (con membri espressi dalla Dgb), i CdS controllano, approvano oppure bocciano le decisioni ed il bilancio del management aziendale. Sono il top del potere sindacale, senza uguali nel mondo, nato nel lontano 1951, quando per legge nacque la democrazia industriale (“Legge sulla codeterrninazione dei lavoratori nei consigli di vigilanza e nei consigli di amministrazione delle industrie minerarie e della produzione del ferro e dell’acciaio” nota come Montan Mitbestimmungsgesetz) allargata poi nel ‘52 con il Betriebsverfassungsgesetz (German Works Constitution Act, emendato nel 2001-04), tutt’oggi base dei diritti di informazione, consultazione e cogestione, nonché indipendenza dei Betriebsrat (comitati aziendali dei lavoratori). I CA assomigliano solo da lontano all’italiana rappresentanza sindacale unitaria (Rsu), sia per la presenza diffusa in tutte le imprese con più di 5 dipendenti, sia per il potere economico gestionale sulla formazione finanziata dall’azienda per legge sia per il potere di vaglio di ogni decisione aziendale. Se si aggiunge che il potere di sciopero in Germania è illimitato (così come non ci sono limiti di velocità sulle autostrade), che la Dgb con le casse di resistenza può pagare il 70% della retribuzione giornaliera ai lavoratori scioperanti, ci si potrebbe meravigliare che un tale modello “cubano” possa costituire un trionfante momento capitalista. Le proteste degli industriali tedeschi ci sono state, eccome: simili a quelle dei Riva che quando venne affidata loro l’ex acciaieria Eko della Ddr, accusarono la cogestione di impedire investimenti esteri. In realtà il metodo legiferato nel ’51-52 poggia su basi antiche: dal lavoro combinato del 1848 di liberali, cattolici e nazionalisti tedeschi culminato nelle parziali attuazioni bismarkiane dell’83-89 (le leggi Krankenversicherungsgesetz, Unfallversicherungsgesetz e Invalidität und Alterversicherungsgesetz) ai provvedimenti di Weimar (art. 165 Costit. e le leggi Arbeitsgemeinschaft, Betriebsrätegesetz del ’20, Aufsichtratgesetz del ’22) fino al rafforzamento statale dei CdS operato dai nazisti (il ministro dell’economia Schmitt fu dal ’35 presidente del CdS della Allianz e della Deutsche Continental Gasgesellschaft). Gli anni delle leggi della cogestione tedesca sono quelli in cui in Italia il sindacato si spacca in tre. La cogestione si sviluppa nel clima delle decisioni anticomuniste del novembre ‘59 di Bad Godesberg, quando 340 delegati Spd guidati da Wehner, Ollenahuer, Brandt, Schmidt, Schiller decisero a l’adesione alla libertà ed “al mercato libero in cui regna sempre una concorrenza effettiva”. Le frasi dell’epoca non lasciano dubbi. “Il socialismo democratico ha radici nell’etica cristiana, nell’umanesimo e nella filosofia classica... è il partito della libertà di spirito. I comunisti soffocano in modo radicale la libertà. Un’economia coercitiva di tipo totalitario distrugge la libertà”. Parole che in Italia arrivano solo nel ’78 nella sinistra minoritaria di Craxi e, senza una vera adesione convinta, nel ’91 nel maggiore partito di sinistra italiano. Secondo la Fondazione Ebert, la Mitbestimmung, coderminazione dei lavoratori, realizza la democrazia economica, in modo alternativo al modello dell’azionariato diffuso Usa (l’amata public company di D’Alema) mettendo il Vorstand (CdA) sotto lavoratori e azionisti. Questo pilastro della Sozialpartnerschaft (partenariato sociale) mette indubbiamente la programmazione politica sopra la finanza; non per questo eludendo la necessaria libertà. Il dibattito sulla cogestione invita ad abbandonare la demagogia dei temi etici per tornare all’idea di destino e lavoro comuni; vitale oggi che i produttori europei sono sotto scacco della finanza mondiale. La cogestione tedesca crea due volti del medesimo settore del Personale. Il sindacato tedesco guarda al profitto, alla salute aziendale, licenzia in prima persona, deve avere il 75% di adesione dei lavoratori prima di fare uno sciopero. Ha un enorme potere, gestito con moderazione che non corre demagogicamente dietro ogni reclamo di diritti improbabili. Con Pirani, “la partecipazione in Germania fa parte di un modello economico complessivo, che rafforza sviluppo e tenuta sociale”. L’anonimo sottosegretario al lavoro, Dell’Aringa, è poco credibile quando sostiene più partecipazione dei lavoratori in cambio di maggiore produttività. Cgil e Pd ancora dimostrano, nel parziale abbandono del marxismo, l’animo anticapitalista, piuttosto disposto a sposare la carità cristiana pur di rifuggire dalla modernità. L’animosità verso le Pmi fa il paio con l’opposizione all’art. 46 della Costituzione (la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende). A brutto muso Huber ricorda che i sindacati si devono occupare dei problemi dei lavoratori e meno dei grandi sistemi economici, stigmatizzando la divisione dei sindacati italiani, relitto della guerra fredda. Le stesse parole usate da un Tamburrano, che però parla coi tempi, i motti ed i ricordi di un Nenni. L’unità, che affida alla Dgb grande potere, resta per noi un miraggio. La cogestione, primaria garanzia contro i licenziamenti indiscriminati, darebbe nuovo slancio e idee ai lavoratori, i grandi esclusi dalla politica di oggi. È chiaro che per arrivare alla cogestione europea, prima i sindacati italiani devono importare il modello tedesco. Poi insieme devono dare l’assalto al vertice del sindacalismo anglofrancese. Infine tutti devono farlo accettare a Bruxelles, con tutte le ricadute sul liberalscambismo assoluto. Nel frattempo la Spd dovrebbe accorgersi ed ammettere che con lei il Pd non ha molto a che spartire. Un percorso sufficiente a farne comprendere l’improbabilità e l’incitamento all’astensione anche i votanti del Pse.
Posted on: Mon, 25 Nov 2013 09:05:01 +0000

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