Perché la Mafia e la Cia hanno ucciso John Fitzegrald Kennedy di - TopicsExpress



          

Perché la Mafia e la Cia hanno ucciso John Fitzegrald Kennedy di Giorgio Bongiovanni - 22 novembre 2013 “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno”. A pronunciare queste frasi fu il giudice Giovanni Falcone, ucciso da Cosa Nostra, la mafia siciliana, il 23 maggio del 1992. Erano ormai trascorsi 18 anni dalla morte di John Fitzgerald Kennedy e Giovanni, come John, stava imboccando l’arduo sentiero della lotta per la giustizia che lo avrebbe portato a diventare martire. E profeta della sua morte. L’immenso potere della mafia, collegato a poteri occulti e deviati dello stato, lo stesso che lui aveva servito con onestà e fermezza, riuscì ad assassinarlo perché lui era solo. Solo come John Kennedy, il presidente della nazione più potente del mondo che non avendo i necessari appoggi, sostegni, alleanze è rimasto vittima di quei poteri che solo apparentemente erano a lui sottomessi. Il dossier che presentiamo di seguito, già da noi pubblicato sulla rivista Terzomillennio, illustrerà nei dettagli l’implicazione della Cia, della mafia e di altri poteri economici nell’assassinio di Kennedy. Verranno esposte inoltre le motivazioni politiche che hanno portato il presidente alla morte e vedremo come la commissione Stokes o altre fonti autorevoli hanno conferito ufficialità alla tesi del complotto nell’omicidio di Dallas. Un recente sondaggio dimostra che oltre il 60% dell’opinione pubblica americana non crede alle conclusioni presentate dalla Commissione Warren, secondo la quale l’uccisione del presidente è da attribuire al gesto di un individuo isolato, ma pensa si tratti di una cospirazione. Il noto giornalista e autore Gianni Bisiach, del quale ci onora l’amicizia e del quale abbiamo vantato la collaborazione, è stato tra i primi giornalisti italiani ad indagare sulla morte del presidente Kennedy e forse l’unico a spiegare, tramite il film “I due Kennedy” (1969) e il libro “Il Presidente - la lunga storia di una breve vita”, il complotto mafia -Cia - petrolieri - grandi industriali in relazione ad essa. Il lettore scettico potrebbe guardare con diffidenza a tali considerazioni ed è questo il motivo per cui, in conclusione alle indagini presentate, abbiamo riportato il Rapporto finale della commissione Stokes, il Select Committee on Assassination of the U.S. House of Representatives, che conferma quelle che fino al 1979 potevano sembrare solo teorie. Lo stesso ex direttore della Cia William E. Colby, morto in circostanze misteriose, ha ammesso, durante la presentazione del libro di Gianni Bisiach, che la Central Intelligence Agency ha collaborato con la mafia, pur escludendo categoricamente la sua partecipazione nell’assassinio del Presidente. John Fitzgerald Kennedy era figlio di Joseph Kennedy, plurimiliardario, il cui nome appariva nella lista delle 50 persone più ricche d’America. Era pertanto membro di quelle famiglie occulte che gestiscono il potere economico nel mondo e che quindi influenzano i movimenti politici per tutelare gli interessi del potere che rappresentano e continuare ad esercitare il proprio dominio sul mondo. John era figlio di un miliardario che, mentre esercitava la carica di ambasciatore a Londra, non prese mai una netta posizione contro Hitler o Mussolini e si batté affinché l’America non prendesse parte al secondo conflitto mondiale che avrebbe potuto compromettere gli interessi del suo Paese. John era quindi un ragazzo dell’alta società, nato e cresciuto nella ricchezza, lontano dai problemi del mondo e, apparentemente, da quei valori spirituali e altruistici che vanno a scontrarsi con le idee di predominio e di potere assoluto al quale mira il clan delle famiglie economiche. E’ infatti per ragioni di prestigio e di potere che il padre Joe lo spinse a diventare presidente e agevolò, “con ogni mezzo”, la sua carriera politica. Ma una volta conquistato il titolo di capo degli Stati Uniti John tradì le aspettative del padre che sperava in un figlio che governasse l’America allo stesso modo in cui l’avevano governata altri presidenti democratici. Cosa successe a John Kennedy? Come “folgorato sulla strada di Damasco” già prima di assumere la massima carica della politica statunitense, John, detto Jack, iniziò da senatore la sua battaglia contro la criminalità organizzata, affiancato dal fratello Robert. Una volta raggiunta la Casa Bianca e consolidato il suo potere decise di intraprendere una politica pacifista basata sull’uguaglianza sociale e sulla cooperazione con gli altri governi della Terra. Per quanto riguarda la vita privata, non abbandonò mai il lusso e, nonostante amasse la moglie e i figli, ebbe più d’una relazione extraconiugale. La più conosciuta è sicuramente quella con Marilyn Monroe basata, a nostro avviso, su un sentimento profondo e misterioso. Non è certo un caso che la Monroe sia morta in condizioni sconosciute e in molti si sono chiesti quali segreti potesse nascondere l’amante del presidente degli Stati Uniti e di suo fratello Bob. Era a conoscenza di informazioni occultate dal governo americano? Ma, nonostante i suoi difetti umani, nella vita politica, in quella che lui considerava una missione, John cercò di mantenersi sempre coerente. L’errore commesso a Cuba gli fece comprendere l’importanza di evitare qualsiasi compromesso diplomatico edi agire secondo i piani da lui stabiliti. E’ in questo momento che il suo spirito scelse di mettere in atto un programma superiore e Jack diede una svolta decisiva alla sua politica. Dichiarò di voler porre fine alla guerra nel Vietnam, appoggiò attivamente la battaglia di Martin Luther King a favore dell’uguaglianza sociale, impose nuove tasse agli industriali e, affiancando la battaglia del fratello Bob, ministro della giustizia, sferrò uno dei più potenti attacchi governativi mai registrati nel corso della storia contro Cosa Nostra. E’ da sottolineare che negli anni ‘60 e ‘70, la mafia americana possedeva un potere immenso, paragonabile a quello dell’odierna mafia siciliana. Fu in seguito alla politica di Kennedy che la Cia e l’Fbi si impegnarono nella lotta contro la criminalità organizzata diminuendone fortemente il potere ma senza mai riuscire a distruggerla. Le cinque famiglie mafiose americane esistono tutt’oggi. John Fitzgerald Kennedy intraprese quindi una politica basata sulla vera giustizia, sulla vera democrazia, sull’unione tra i popoli partendo da un’operazione di “pulizia” all’interno degli organismi governativi posti sotto la sua diretta responsabilità. Certamente né lui né Bob avrebbero mai potuto immaginare che la malavita organizzata sarebbe riuscita ad infiltrarsi fino ai più alti vertici della struttura governativa e che sarebbe riuscita a corrompere anche alcuni dei loro più stretti collaboratori, tra i quali lo stesso Johnson. Kennedy lottò per il miglioramento dell’attuale società e sacrificò la propria vita per un ideale di giustizia. Nello stesso periodo, anche Papa Giovanni XXIII si impegnò in una battaglia per gli stessi ideali e, durante la crisi di Cuba, risultò determinante nella risoluzione tra lo stesso Kennedy e Krusciov. Un passo che nel 1963 portò l’umanità intera di fronte alla straordinaria possibilità di instaurare nel mondo un nuovo governo di pace e di solidarietà tra i popoli e di lasciarsi finalmente alle spalle un passato fatto di guerre, ingiustizie, sofferenza e paura. Ma il 22 novembre di quell’anno gli spari che echeggiarono a Dallas fecero crollare il sogno di un futuro migliore e il mondo ritornò nell’abisso dal quale, per un attimo, era riemerso. Il cammino si fa sempre più difficile ma l’esempio di chi continua a lottare a favore della vita deve far riscoprire in noi la speranza di poter raggiungere la Nuova Frontiera in cui Kennedy aveva così fermamente creduto come scritto nel discorso che avrebbe dovuto pronunciare proprio quel 22 novembre, “In questi giorni riuniamoci nei templi dedicati al culto e nelle case illuminate dagli affetti familiari per esprimere la nostra gratitudine per i gloriosi doni di Dio, e preghiamo con fervore e umiltà affinché Egli continui a guidarci e sostenerci nelle grandi opere incompiute di conseguire la pace, la giustizia e la comprensione fra tutti gli uomini e le nazioni, e di porre fine alla miseria e alle sofferenze dell’umanità”. Per questo motivo possiamo considerare Jfk un “pentito vero” che ha trasformato la sua vita da capitalista miliardario, con alleati mafiosi, a capitalista democratico, generoso ed onesto che ha imbracciato una missione di Pace nel mondo. Unevoluzione che lo ha visto impegnarsi, assieme al fratello, per estirpare il potere di Cosa nostra americana. Non solo. Si oppose con forza al potere della Cia e a quello dei capitalisti fascisti americani. Un “triunvirato” che contrastava con il desiderio di rinnovamento del movimento giovanile americano, bianco e nero, che lottava per la libertà e luguaglianza tra i popoli che vedeva come figure simbolo proprio i Kennedy e Martin Luther King. Individuati gli ostacoli ecco che Mafia, Cia e Capitalismo si sono impegnati per leliminazione degli stessi. Omicidi diversi, modalità desecuzione diverse, stessi mandanti. E per questo che possiamo paragonare lassassinio del presidente Kennedy, pur rispettando le storie, i ruoli e le vicende diverse, con le Stragi italiane di Capaci e via dAmelio. Sono tutti degli omicidi di Stato. Dossier Kennedy: intervista a Gianni Bisiach Nella fierezza del suo sguardo e nelle sue parole, abbiamo compreso che questuomo non aveva mai avuto paura della morte... di Giorgio Bongiovanni Come è possibile convivere per anni con il pensiero di venire ammazzati…? Recarsi in luoghi dove si sa che i possibili assassini sono in agguato, apposta per far vedere che non si è perduta la dignità e che si è pronti a morire per quello in cui si è creduto…?! Probabilmente non esiste una risposta razionale, o forse c’è ma non è facile da comprendere… In una calda giornata d’autunno abbiamo incontrato un uomo che si è dato “quella” risposta, accettando tutti i rischi che un atteggiamento del genere comportava, con grande determinazione ed umiltà. Quest’uomo è Gianni Bisiach. Al di là del suo noto trascorso radio televisivo, Bisiach ha parlato del suo passato “a rischio” con grande lucidità e senza alcuna retorica. Al termine dell’intervista, si è intrattenuto ulteriormente con Giorgio Bongiovanni pranzando insieme a lui. E proprio in quel lasso di tempo, a microfoni spenti, il giornalista, lo scrittore e l’inviato… ha lasciato posto all’uomo, alle sue battaglie, alle sue sconfitte… alle sue aspirazioni e alle sue paure… La paura vissuta sulla propria pelle, respirata fino in fondo… quel senso di solitudine che non muore mai e che accompagna ogni uomo che cerca la verità, sfidando se stesso e tutte le avversità. E poi… la vittoria sulla morte… il suo “distacco” da questo evento così “naturale” ma ugualmente “contro natura” quando avviene nella sua manifestazione più brutale quale è l’omicidio. Nella fierezza del suo sguardo e nelle sue parole, abbiamo compreso che quest’uomo non aveva mai avuto paura della morte… Un sentimento di “devozione” nei confronti del Presidente Kennedy traspariva anche nelle espressioni più semplici da lui usate per commentare le foto che ritraevano John Kennedy durante i comizi, con i suoi figli, fino all’ultima, sul banco della camera mortuaria… Mentre nei confronti della mafia, degli sporchi giochi politici della CIA e di tutta la cospirazione creata per eliminare il Presidente, ha sempre mantenuto un atteggiamento di dispregio, deplorando apertamente le connivenze criminali e i depistaggi voluti dagli ‘alti vertici’. A mano a mano che passava il tempo, Bisiach ci ha fatto rivivere il suo excursus nella ‘trincea’ della lotta alla mafia. Il suo primo reportage per la RAI a Corleone, nel 1963, i “segnali in codice” dei mafiosi, quel linguaggio fatto di silenzi e di ammiccamenti… L’incontro con l’avvocato del mafioso Luciano Liggio e quella sua intimidazione , quello stesso avvocato che lo farà incontrare con Luciano Liggio (che all’epoca era latitante e si nascondeva in una clinica psichiatrica ndr), con Totò Riina e con Bernardo Provenzano (un incontro storico per l’unico giornalista che è riuscito ad incontrare l’attuale latitante numero uno). Ricordando i tanti nemici che aveva in RAI e che dopo il suo reportage sulla mafia gli hanno impedito di svolgere bene il suo lavoro, non si è mai espresso con rancore, ma con il sorriso di chi sa che alla fine è la storia che condanna o assolve. Al momento dei saluti, un abbraccio spontaneo ha racchiuso l’essenza dell’incontro con un uomo sereno, che ha portato a termine il compito che si era prefisso, felice di aver trovato un amico per continuare una battaglia piena di insidie e non ancora vinta.
Posted on: Fri, 22 Nov 2013 11:28:17 +0000

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