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Poi diversi gli incontri e le corrispondenze collaborative. Con «Pelasgi» − introdotta da Valerio Magrelli – un’antologia (Ed. Maggioli, Rimini 1986) dedicata ai poeti romagnoli e da me curata insieme a G. R. Manzoni e alla quale il poeta collaborò con versi inediti, inseguendoci poi per le strade di Romagna, da una presentazione all’altra. I nostri riscontri-incontri poetici e operativi con la poetica e la poesia di Vittorio Sereni, e ricordo soprattutto i suoi libri, la sua poesia. Ed è di questa che qui si parla. La poesia di Ferruccio Benzoni nasce soprattutto durante i turbolenti anni ‘70. Anni di parole viziate, innamorate, vuote di intenti e passioni. Dopo la fine del neorealismo resta ancora viva la parola di P. P. Pasolini e Alfonso Gatto, prende il sopravvento la poesia e la poetica degli strumenti umani di Vittorio Sereni. Ferruccio Benzoni rimane lontano dalla poesia innamorata perché il suo sentire è quello sanguigno e doloroso, introspettivo dell’anima, del sentimento del tempo e della realtà quotidiana. Poesia di solitudine e di ricerca, di profondo ascolto e approfondimento critico. Non sventola parole al vento secondo i movimenti alla moda, ma concentra il proprio pensiero dentro se stesso. O meglio, dentro l’uomo, lontano dai facili fuochi della contestazione incolta, alla moda, che pure potrebbe trascinarlo ancora con i suoi verdi anni di ragazzo alle prese con le prime impronte della vita. Un poeta controvento, controcorrente, che come pochi altri, resterà fedele alle proprie premesse fino alla prematura morte fisica. Nella sua poesia si scopre una dimensione storica ed esistenziale di grande valore stilistico con i segni di quell’antico simbolismo dei gradi poeti francesi, russi, o, perché no, anche di certi ermetismi della poesia italiana della metà del primo novecento. Ferruccio Benzoni ha lasciato un segno indelebile e inconfondibile nel panorama magmatico della poesia italiana contemporanea del ‘900. Nato il 18 febbraio 1949 a Cesenatico, dove ha trascorso la propria vita, è scomparso a Cesena il 16 giugno 1997. Benzoni rappresenta una delle più importanti testimonianze della poesia italiana degli anni settanta-ottanta. Il suo lavoro, apprezzato soprattutto da Vittorio Sereni, Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini e Giovanni Raboni, continua ad avere ascolto e interesse grazie al suo vivo sentimento del tempo e per la sua costante partecipazione intellettuale ai fermenti e ai travagli di un’epoca che lo hanno coinvolto nella maniera più profonda e felice della sua esistenza. Ed ora ecco la parola ad alcune testimonianze vive di amici ed estimatori che lo hanno ben conosciuto e frequentato durante i periodi più felici della sua giovinezza. Ascoltiamo le voci di Daniela Palmas, poetessa e amica fin dai tempi del Liceo; di Massimo Raffaeli, critico, scrittore e amico di lettere; di Walter Valeri, che ora vive in America, docente presso l’Università di Quincy e che, insieme a Stefano Simoncelli e Ferruccio Benzoni, diede vita al ben noto sodalizio della rivista Sul Porto. FERRUCCIO AI TEMPI DEL LICEO di Daniela Palmas XIII Ottobre ’66: ‘Anche quest’anno siamo assieme: più di così si muore. Ferruccio’. Questa frase ritrovo nel “libro dei pensieri” che mi ha accompagnato, con quel sentimentalismo caro a molte adolescenti, per tutti gli anni del Ginnasio e del Liceo. “Siamo assieme” significa semplicemente: siamo ancora a scuola insieme, compagni di scuola. Che non sia cosa di poco conto, lo sanno tutti: un compagno di scuola è un fratello di giovinezza, uno che hai frequentato, per anni, tutti i giorni, con il quale sei cresciuto e quindi uno che, qualsiasi cosa succeda, in qualche modo, resterà sempre assieme a te. A Ferruccio piacevano le frasi ad effetto. Non retoriche, no, ma che suonassero un po’ speciali, che avessero un’eco in chi le ascoltava. Ferruccio è sempre stato poeta, non solo per quello che scriveva, ma negli atteggiamenti, nella quotidianità, nella pelle. Per noi compagni Ferruccio era il poeta, così, con naturalezza. L’ho conosciuto in V Ginnasio, quando mi trasferii a Cesena, e penso che quella sua immagine di allora cancellerà sempre un poco tutte quelle che seguirono. Molto alto e magro, l’aria da ragazzo di buona famiglia, elegante nei pantaloni grigi e nella giacca blu, gli occhiali cerchiati di scuro, il ciuffo di capelli neri. E poi il sorriso, dolce, ironico, con quel tanto di rassegnazione che ha uno che pensa di saperla lunga sulla vita e quindi non si fa mai troppe illusioni. Questo sorriso io gliel’ho visto sempre, anche in momenti difficili, anche l’ultima volta che ci siamo incontrati, reduce da un ennesimo ricovero in ospedale, pochi mesi prima della fine. Ferruccio, ovviamente, al Liceo era bravissimo in italiano ed era colto: una cultura non solo scolastica, ma cercata e perseguita in proprio, con curiosità ed interesse appassionato. La sua preparazione in letteratura moderna superava decisamente quella degli insegnanti. A volte, e questo è rimasto tra i miti della classe, inventava i temi lì per lì. Poteva capitare quando gli veniva chiesto di leggere il compito fatto a casa. Lui, che se ne era dimenticato o non aveva avuto voglia di farlo, apriva serenamente il quaderno dalle pagine bianche e cominciava a “leggere”. La matematica, c’è bisogno di dirlo?, non gli piaceva molto; in storia moderna era ferratissimo. Con gli anni nasceva anche il suo impegno politico. Il cambiamento fu pure esteriore: smise la giacca elegante a favore di eskimo e sciarpa rossa. (Ricordo un’altra dedica su un biglietto di auguri: “Sempre sensibili ad ogni rossa fioritura¼”). Amava moltissimo la letteratura francese. Anche se la storia della sua poesia è legata soprattutto a nomi di autori italiani contemporanei, grandissima influenza hanno avuto su di lui, direi quasi una sorta di malia, i tre mitici maudits: Baudelaire, Verlaine, Rimbaud. La lingua, le lingue: altro amore. Le poesie di Ferruccio sono costellate di parole e frasi in francese e tedesco: fascino di suoni diversi, bisogno di altre sonorità, gusto di esotismo culturale o, semplicemente, ricerca della parola giusta ovunque si possa raggiungere. In III Liceo, nel 1968, Ferruccio vinse il suo primo premio letterario: il Premio Savignano. La classe partecipò quasi compatta alla cerimonia di premiazione presso un’antica villa di Savignano. E quando un attore lesse la poesia vincitrice, “E sulla scacchiera d’ogni giorno”, fummo tutti commossi e fieri. Ho tra le mani il libretto stampato per l’occasione dall’editrice Forum di Forlì. Costo £. 500. Ritrovo tra i giovanissimi partecipanti di allora altri nomi noti: Simoncelli, Fattori¼ La dedica di Ferruccio in quell’occasione fu stranamente semplice: “A Daniela con amicizia affettuosa”. Per me è la più struggente. E qui mi piace riportare i versi della sua poesia vincitrice del primo premio Savignano 1968: E SULLA SCACCHIERA D’OGNI GIORNO Lascia le strade dove la gente muore accecate dalle vetrine dove le parole cicatrizzano un vuoto dove gli sguardi smussano vivezza di spigoli. Ciò che più azzurro appare un sorriso o un buio gremito di luci – ti prende per mano col tuo mondo di primavera. Lo sai la macchina è più veloce del pensiero il suono più martellante del sospiro e tu non vivi che di vele sazie ma qui sulla scacchiera d’ogni giorno non c’è fiato d’immagini. Non puoi sopravvivere con le tue ali di scricciolo già Icaro infranse il sogno quando si coprì d’infinito. UN GOAL DI JUGOVIC di Massimo Raffaeli Forse conosco meglio la poesia di Benzoni (che ho subito prediletto, fin da La casa sul porto, nel Collettivo di Guanda, 1980) di quanto non abbia conosciuto la persona di Ferruccio. A un’ora di treno l’uno dall’altro, ci siamo veduti solo intorno al ’92. Cartoline postali (eleganti le sue, d’una grafia minuta), manoscritti e plaquettes facevano da tramite e ritardavano, come nel paradosso freudiano, la impellenza di un incontro. Poi per la complicità di amici (Francesco Scarabicchi e Gabriele Zani, in un chiasmo affettuoso) ci siamo visti cinque o sei volte a Cesenatico, a casa sua con Ilse. Ricordo anche una sua venuta dalle mie parti, a Jesi, per una lettura pubblica: era teso e molto concentrato, quasi temendo gli sfuggisse il verso, che lui accentuava, però senza enfatizzarlo. La sera, all’osteria, bevve un’acqua minerale francese e disse che era quasi (ridendo sul quasi) come lo champagne. Era un ragazzo disponibile, generoso, che mascherava un fondo di tangibile cupezza prodigando ironia e penetranti jeux de mots. Intransigente con gli amici, o meglio per gli amici, li difendeva sempre e, se poeti, (penso a Sereni, ma anche a Fortini, Raboni, Bandini) li amava di un amore assoluto e persino fazioso: né ho mai visto nessun altro custodirne il ricordo, le carte, le foto, con tanta gelosa devozione. Non parlava volentieri di poesia. Preferiva indugiare sugli amori che lo avevano incendiato da ragazzo, la politica, il cinema, il gioco del calcio. Teneva per la Juventus, e il suo tifo era ancora più accanito del mio. La notte di giugno del ’96, quando la Juve vinse a Roma la Coppa dei Campioni contro l’Ajax di Amsterdam, fu Vladimir Jugovic a battere il rigore decisivo, producendosi poi in una capriola liberatoria. (Non so se ora o allora, mi vengono in mente i versi di Saba, teneri e lievitanti... la sua gioia si fa una capriola, si fa baci che manda di lontano¼ i versi di ‘Goal’). Squilla il telefono, è Ferruccio che urla, straparla, forse compone mentalmente mime epiche per l’ex sergente della Stella Rossa, che ha liquidato da un minuto gli olandesi. Ferruccio è commosso, ansimante, perso nel clamore di una Cesenatico che immagino in delirio. Mi dice cose che si dicono a uno sconosciuto, o a un fratello. Quella è l’ultima volta che ci siamo parlati. LE ORIGINI DI «SUL PORTO» di Walter Valeri INVITO NOTTURNO a Ferruccio Benzoni Passata l’ora tarda all’osteria e rese le parole aspre di vinaccia avvolti nelle lane e intorpiditi ci avviamo nella raffica notturna di febbraio verso casa e di già soli. La notte è ancora lunga e buia passarla soli assale – resta! Stanotte in due e a turno un po’ si può dormirla. La rivista «Sul Porto» ha un parente povero. Una cenerentola, un Ur che giocava sul doppio senso del titolo: “fatti di poesia”. Un fascicoletto rumoroso, urlato, come fanno i bambini sul nascere, formato: Gruppo La Comune, Cesenatico 27 marzo 1971. Nell’antifissa di quello stampato, graffettato a mano, in ordine alfabetico i nomi dei fondatori poco più che ventenni: Ferruccio Benzoni, Stefano Simoncelli, Walter Valeri e Mauro Pasolini. Tre poeti e un giovane politico, allora iscritto alla FGCI, che restituì la tessera per solidarietà con quei tre sciamannati che certo non potevano tollerare legami con un partito ancora ‘convintamente stalinista’. Un ciclostilato quasi introvabile oggi. A me stesso in parte misterioso che ogni tanto torno a guardare. Allora riscopro che ‘fatti di poesia’ esiste come lontana radice lievitante, senza una reale dimensione, come capita ai manoscritti che galleggiano tra i filamenti della memoria. Dolorosamente presente tra il buffo, l’irraggiungibile e l’incurabile; come una barchetta dimenticata alla fontana. L’ho conservato assieme a foto di gruppo che ritraggono Ferruccio, Stefano e me stesso. Scattate durante un pellegrinaggio durato tre anni in giro per l’Italia. Durante gli incontri felici con il gotha della poesia italiana: Moretti (unico Montale, che invece non ci ricevette), Pasolini, Fortini, Bertolucci, Gatto, Penna, Raboni, Roversi, Cerami, Giudici, Alberti, Cucchi, ecc. (la Morante, incontrata per ben due volte, non si lasciò fotografare; e la Rosselli era irreperibile). C’era un bisogno fisico, una febbre, un’urgenza personale: attraversare gli Appennini o la Valle Padana per andare a trovare i punti di congiunzione con la tradizione della nostra poesia – saltando a piedi pari la neoavanguardia. Piantato alle spalle, allora poco più che ventenne, quel fascicolo ha oggi per me il fascino e l’ambiguità delle origini. Ne ho qui in America una copia con dedica: “a Walter – già, compagno – per un futuro d’angeli rovinosi e azzardate disperazioni, i ‘fratellini’: Ferruccio e Stefano, Mauro”. La calligrafia è chiaramente di Ferruccio. Gli aggettivi e sostantivi che compongono la dedica hanno tutti un doppio senso. Avevamo ricodificato le parole come una sorta di gergo per iniziati. Tra di noi ci si chiamava “fratellini” non a caso. Si viveva in uno stato di simbiosi vero e proprio; sino a toglierci il respiro. Scrutandoci con cura, autorizzandoci l’un l’altro a commentare senza alcuna discrezione ogni piccolo fatto, episodio, evento esistenziale. Senza sapere che quel chiamarsi “fratellini” era una reincarnazione. Così si chiamavano tra di loro Corazzini, Tarchiani e gli altri crepuscolari romani. Ce lo rivelarono Luzi o Crovi, in occasione di un convegno dedicato a Marino Moretti dove, più che ascoltare le varie relazioni, passammo tutto il tempo a ‘spiare’ Contini, senza per altro avere il coraggio di avvicinarlo. Ma l’aggettivo ‘crepuscolare’ non piacque. Anche se Corazzini aveva scritto dei versi notevoli. Così poco a poco lasciammo cadere il diminutivo. D’altra parte di crepuscolare c’era ben poco nei diciannove fogli graffettati, pieni d’errori. Quel primo documento, testimonianza concreta del nostro sodalizio, sarebbe diventato ben presto il copione per una performance. Una pubblica lettura del 29 aprile, tenuta all’Azienda di Soggiorno di Cesenatico dal titolo: “Amare non è più possibile¼”. Per l’occasione si sarebbe distribuito il ciclostilato rimasto altrimenti invenduto. La ragione del titolo della manifestazione era intrinseca alla natura dei versi, quasi tutti d’amore, contenuti nel fascicoletto e al cinismo dei tempi. Avevamo per altro ottenuto l’uso gratuito della Sala Convegni dell’Associazione Albergatori di Cesenatico grazie all’intercessione di Primo Grassi, ex-sindaco della città, e direttore dell’Azienda Autonoma, nonché nostro generoso mecenate. Tutte le spese cartacee erano state coperte grazie ad una donazione in disegni, ben presto svenduti, di Alberto Sughi e Luciano Caldari. Ci firmavamo Gruppo La Comune perché militavamo nella Nuova Sinistra, vicini alle posizioni della Rossanda e di Pintor, fondatori del «Manifesto»; ed eravamo di fatto una delle prime comuni d’Italia che organizzavano il ‘circuito teatrale alternativo’ di Dario Fo e Franca Rame. Per loro organizzammo una recita alla Casa del Popolo di Cesenatico di Mistero Buffo e Morte accidentale di un anarchico e collaborammo all’organizzazione di una recita di Tutti uniti, tutti assieme, ma scusa, quello non è il padrone?! alla Casa del Popolo di Martorano conclusasi in una vera e propria rissa politica. Poi, dopo un breve silenzio (leggi: lunghe ore e nottate passate all’Osteria da Beppe o al Ristorante Messico) che chiamavamo tra il serio e il faceto: “momenti di interiorizzazione”, a due anni da “fatti di poesia”, nel maggio del 1973 ci separammo dalle Comuni Teatrali e decidemmo all’unanimità per una nuova presa di posizione pubblica con il primo numero di «Sul Porto». Un quadernone dalla copertina rossa, di poche pagine, ma originale nel panorama del tempo, per quella dicitura impugnata con orgoglio, impiegata come sotto titrolo: “del fare cultura in provincia” ispirata a Renato Serra. Con un articolo dal titolo “Verbale di seduta per la nascita di una rivista” attirammo subito l’attenzione di Franco Fortini. Un’altra sorpresa per i lettori l’articolo: “Dante Arfelli: un silenzio emblematico”. Una lunga conversazione a più voci sull’autore di Cesenatico Dante Arfelli (ma nativo di Bertinoro, ndr), autore di due romanzi oggi dimenticati I superflui e Quinta generazione, a noi estremamente vicino dal punto di vista umano ed estetico. Quindi, sotto l’entusiasmo di quel primo numero andato a ruba il secondo fu stampato relativamente presto, nel novembre dello stesso anno. Poi il terzo nel giugno del 1974: un numero importante (il migliore a mio avviso – assieme a quello uscito nel gennaio 1978, edito dal Girasole di Ravenna) con collaborazioni significative di Pier Paolo Pasolini, Franco Fortini, Alfonso Gatto, Rafael Alberti, Giorgio Orelli. Per coprire spese e ‘companatico’, alcuni disegni donati da Dario Fo. Da quel momento eravamo diventati: “I ragazzi di Cesenatico”. Bastava annunciarsi al telefono come “uno dei ragazzi di Cesenatico” per essere ascoltati e presi in considerazione. Poi, dopo la pubblicazione di sei numeri di «Sul Porto», siamo nel 1979, il gruppo storico si è sciolto. La separazione è coincisa con la pubblicazione di un volume collettivo nei Quaderni di Poesia edito da Guanda, con interventi di Franco Fortini e Giovanni Raboni. La rivista «Sul Porto» ha proseguito la sua attività editoriale per altri tre numeri, diretta da Ferruccio e Stefano, con il coinvolgimento diretto della Società di Poesia e Vittorio Sereni. Dei primi anni, degli entusiasmi d’esordio, mi piace ricordare alcune righe gioiose dell’editoriale a firma: Il Collettivo. Perché ancora credo profondamente nelle ragioni e nella validità di quelle righe come manifesto per un ‘lavoro d’arte comune’: «Fare una rivista di questo tipo soprattutto ci diverte. Ci piace il lavoro collettivo di redazione e stesura, il nostro affannarci in tipografia fra acidi e piombi, funeree stampatrici Heidelberg, emozionati e vispi come folletti: un errore, un altro, un altro ancora, ‘ma come faccio a vedere le bozze con ‘ste diotrie!’ Ci piace fare la rivista perché nasce a caldo. Parteciparvi è partecipare a una festosa kermesse sia pur febbrile e preoccupata. Ci piace perché ci rispecchia nelle poesie e nelle cronache, nei nostri amori letterari e no. Nella passione politica. Semplicemente non ci vergogniamo di essere intellettuali e di fare la nostra parte». I primi numeri di «Sul Porto» erano pieni di errori, sviste o trascrizioni scorrette, di aggettivi che risentivano pesantemente del clima del momento. Ma noi non si poteva fare meglio o, teorizzandoci sopra, peggio. I motivi vanno forse rintracciati in quello che Roman Jakobson descrive, nella sua introduzione alla «Grammatica della poesia e poesia della grammatica», segnalando l’immenso piacere che prova Chlebnicov di fronte agli errori di stampa. La testarda mutilazione della lingua russa fatta da Nezval ogni volta che la usava. La più o meno cosciente, perenne e laboriosa tentazione che convive in ogni linguaggio, di reagire regredendo o aggredendo come “traccia dell’inesauribile dialettica, mai definitivamente ponderabile, cristallizzabile una volta per sempre, della vita di ogni individuo”. Quelle sviste tipografiche, errori, acerbi versi, erano i calci di un adorabile somaro; che voleva ‘autenticamente’ traslocare messaggi, testi letterari, esperienze politiche circostanti, cronache della realtà, composte per 174 motivati lettori. Tale era la tiratura della prima uscita di «Sul Porto»; poi vertiginosamente salita a 500. Ecco infine, prima di una selezione di testi di Benzoni, un passo critico dalla nota di Giovanni Raboni a Numi di un lessico figliale per meglio comprendere il senso della sua poetica. Infatti scrive Raboni: «Pochissimi, fra i poeti di questi anni, possiedono come Benzoni il dono taumaturgico della malinconia, l’arte delicata e difficile di capitalizzare le ferite e le perdite e di trasformarle, con la pazienza delle correnti sottomarine evocate una volta per tutte da Shakespeare, in ‘qualcosa di ricco e strano’. Sfuocate immagini in bianco e nero e vampate di quasi insostenibile nitore, l’infinita prossimità dei morti e la lontananza vertiginosa dei vivi, ciò che affetti, storie e paesaggi suggeriscono al cuore e le figure, i geroglifici, gli enigmi che il cuore traccia sulla disastrata e meravigliosa superficie del mondo, tutto, in questo diario-canzoniere di un figlio che mai sarà, che mai vorrà essere padre, cerca e riceve la sola giustizia possibile – la giustizia, appunto, del lessico dovuto dai figli ai padri, della parola che consacra nel distacco e preserva mutando». SCRICCIOLI Un meriggio ebbro a cadenze di nuvoli e chiarità scompaginanti. Come non udirlo il tetro squittio di ciò che fummo, o usignolo svociato a morte. Quanti, quali amici stormirono la voliera umidastra: la nostra, anzi, la tua casa smangiata da congedi imperfettibili, stranezze. A costo di bere lagrime non ne parlerò più, impareggiabile cornacchia di frivolezze. Oh, ecco, vedi?, stefano rispunta... viene a dire saremo perdonati d’un viaggio impossibile se non traverso quei terrei viottoli oblianti obliati tra fiori caduchi, marmi... Qui dove un tempo trillavi le canzoncine di gioventù mi sarà caro morire – scusa – viaggiare altrove. Da «Almanacco dello Specchio», n. 11, 1983, a cura di Marco Forti, Mondadori Editore. I GIORNI RICONTATI La gioventù che riarde qui svuotata non travolta in un sole di novembre attardatosi dalla casa ventosa ai crocicchi diramantisi al mare. Al mio “ti amo” vorrei rispondessi anch’io mille volte – da rammemorare ogni volta che si muore blandamente per pigrizia, noia. Vetroso il fogliame ai passi. E non è solitudine – non solo desolazione vuoto. “Hai l’età di un padre morto per un eccesso di narciso”. Non altrimenti un dileggiante passato prossimo e Où t’es-tu glissée tendre jeunesse? Mai vissuta – potrei ribattere – intravista patita forse da un perplesso voyeur. “Nascondile queste cose” luciferino sibila il poeta – altrove mettano radici spiritate in carte purgatoriali tra piccole spoglie lapidate. Il mare (controluce) un fruscio che agli svolti, allo squero risale, alle falene dei lumi per una stretta del cuore. Del resto la gioia cos’era se non una falsa partenza per sprintare bruciando bellezza, amore? Ma basta. Non barattare la tenerezza con il compianto della carne, stanco di parvenze il non distrutto cuore. Da Sguardo dalla finestra d’inverno (All’Insegna del Pesce d’Oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1998). A MIO PADRE Neanche con te che ora mi sorridi con occhi nuovi in sogno tra il viola delle nubi il giallo asfissiante dei crisantemi – lo slancio d’un volo ch’è finito, neanche con te troverebbe ali. E mentre t’allontani (rimuori) timido come da una riva ti guardo, ti sorrido, dopo quanti anni? Da Sguardo dalla finestra d’inverno (All’Insegna del Pesce d’Oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1998). INCONTRO COL PADRE E infine a noi due percossi da uno stesso male: tu con la tua sepoltura tacita in un’alba attonita − e io che per vincere (per vivere!) dovrò sprintare bruciandoti in un fotofinish di gregari svuotati. Da Numi di un lessico famigliare, Marsilio, Venezia 1995. (A FORTINI) Liberarmi della letteratura è la mia voglia – potessi svegliarmi dov’è più verde il grano e (pianissimo piano) desolata un’epopea dei volti. Da Per Ferruccio Benzoni – studi e testi a cura di Simonetta Santucci, xilografie di Luigi Berardi, Biblioteca Comunale, Cesenatico 23 novembre 1991, Edizioni Il Bradipo Lugo 1995). LA CERIMONIA Sento un canto lontano che muore e rimuore. Scostati da me madre mia. E tu, sorella, porta via ogni residuo d’inchiostro. Non la bianca pagina dolente, dolcissima. Implume. Per una volta genuflessa; mai caritatevole. Eccomi. Giacendo nel sonno ascolterò la neve. Da Numi di un lessico famigliare, Marsilio, Venezia 1995. Ferruccio Benzoni è nato a Cesenatico nel 1949 dov’è sempre vissuto e dov’è scomparso prematuramente nel 1997. Benzoni è stato uno dei promotori della rivista «Sul Porto» insieme a Walter Valeri e Stefano Simoncelli. Ha pubblicato: La casa sul porto (Guanda, Parma 1980); nel 1983 Vittorio Sereni gli dedica una rassegna della sua opera su Almanacco dello Specchio curato da Marco Forti e con la presentazione di Franco Fortini; Notizie dalla solitudine (S. Marco dei Giustiniani, Genova 1986); Fedi Nuziali (Scheiwiller, Milano 1991); Per Ferruccio Benzoni, Edizioni del Bradipo, Lugo 1995 (raccoglie gli atti del convegno a lui dedicati dal Comune di Cesenatico a cura di Simonetta Santucci e xilografie di Luigi Berardi, relatori Renzo Cremante, Franco Contorbia, Fernando Bandini, Alberto Bertoni e Rodolfo Zucco); Numi di un lessico figliale (Marsilio, Venezia 1995); Sguardo dalla finestra d’inverno, postumo, (All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1998). Notizie sugli autori/collaboratori: Davide Argnani è nato il 4 giugno 1939 a S. Maria Nuova di Bertinoro. Dal 1953 vive e lavora a Forlì. Opere pubblicate: Ogni canto è finito (Todariana, Milano 1972), La città mugolante (Forum, Forlì 1975), Nulla su tutto meno uno, con Erio Sughi (MDM, Forlì 1978), I lager fra noi (1978), Passante (Nuovo Ruolo, Forlì 1987), La casa delle parole (Ellemme, Roma 1988), La festa degli alberi, con D. Palmas (Pagine Lepine, Frosinone 1997); Stari Most (testimonianza di P. Matvejevic, illustrazioni di D. Glibo (Campanotto, Udine, 1998/1999). Si interessa di poesia visiva e ha pubblicato: Pianeta spaccato (Campanotto, Udine 1982), Diàclasi beante (id. 1983). Negli anni 70/80 ha partecipato a numerose mostre e rassegne di poesia-visiva. Sue opere sono riprodotte in molti cataloghi d’arte visiva e sono presenti in numerosi musei e centri di documentazione d’arte multimediale in Italia e all’estero. Vari testi della sua opera sono stati tradotti in ungherese, inglese, tedesco, croato e francese. Daniela Palmas è nata a Milano nel 1949 da genitori cesenati. Ha trascorso la sua infanzia a Roma e da alcuni decenni vive e lavora a Cesena. Ha insegnato lingua francese presso le scuole superiori. Scrive poesie fin dall’adolescenza, nel 1994, presso le Edizioni il Ponte Vecchio di Cesena, ha pubblicato la sua prima opera: Il bacio verde e nel 1998 il poema Nessuno in particolare, (L’Autore Libri Firenze), con dedica al poeta Ferruccio Benzoni, al quale fu legata da una salda amicizia fin dai tempi del Liceo. Massimo Raffaeli è nato nel 1957. Filologo e critico letterario, scrive sul quotidiano «Il Manifesto», «Tuttolibri-La Stampa» e su numerose riviste specializzate. Ha curato testi di autori italiani (Betocchi, Savinio, Ferretti, Levi) e versioni di scrittori francesi (fra cui Zola, Artaud, Céline, Crevel, Genet, Duvert). Parte della sua produzione è raccolta nei volumi El vive d’omo (Scritti su Franco Scataglini), Transeuropa, 1998, Appunti su Fortini (L’Obliquo, 2000) e Questa siepe (Il Lavoro Editoriale, 2000), Don Chisciotte e le macchine. Scritti su Paolo Volponi (peQuod, 2007). Walter Valeri è nato a Forlì nel 1949. A quattro anni, con la famiglia si trasferisce a Cesenatico. Laureato all’Università di Bologna in Sociologia dell’arte e letteratura, è fra i fondatori della rivista «Sul Porto», Cesenatico 1979. Fra le sue opere di poesia si ricordano: Ora settima (Edizioni Corpo 10, 1992) e Deliri fragili (Edizioni Besa 2006). Dal 1995 vive negli USA. Dal 2000 coordina la manifestazione ‘Cantiere Internazionale Teatro Giovani’ presso il Comune di Forlì. È professore assistente al Dipartimento di Lingua e Letteratura romanza alla Harvard University. I contributi, bellissimi, su Benzoni sono apparsi sul Foglio Clandestino, n. 66/67, 2008.
Posted on: Wed, 04 Dec 2013 07:26:50 +0000

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