Premio Racconti nella Rete 2012 “La storia di Gladys” di - TopicsExpress



          

Premio Racconti nella Rete 2012 “La storia di Gladys” di Giuseppina Canzoneri Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012 Veneris dies. Hora quinta. Suono. Qualche minuto e la porta spalanca un sorriso. Mi viene incontro il profumo di ordine. Il silenzio di una donna che aspetta. – Ciao, buongiorno – mi saluta. Rispondo e muovo dentro la stanza. Il sorriso è breve. La porta si chiude. Esclude il mondo. Gli altri. Le invenzioni e le convenzioni. Sul tavolo del soggiorno brillano pietre colorate. Fili intrecciati. Mi fermo e osservo. Un lavoro interrotto. Qualche domanda. Una breve distrazione. Gladys mi precede sul terrazzo. Un dialogo en plein air. Il nostro. Gioco. Immagino di essere Berthe Morisot, allieva di Corot, artista impressionista più volte ritratta da Manet pronta a trattenere le nuances che il mattino concepisce sugli angoli di un terrazzo che aspetta. Attrezzi stanchi, sparsi là e qua. Le sedie sono tante. Scelgo la prima a sinistra, sul lato più lungo del tavolo, quello che apre lo sguardo sul Parco del ‘Residence Elena’. Ne ho facoltà. Un tavolo rettangolare. Grande. Coperto di stoffa. Ci sediamo. L’estate spiegata trascina un effluvio di Jasminium auriculatum. L’ultimo. Guardo Gladys. E’ inquieta. Vuole raccontarsi. Circostanza che accolgo come si accoglie un regalo. Con gioia e riconoscenza. Vestita di simil modano ‘rosso-opaco di fiore nuovo’ abbottonato sul davanti, Gladys Camal Boudou anzi, Marie-Gladys Camal Boudou sposata Massarella, nasconde i suoi ricordi dietro gli occhiali marronetartaruga. Le faccio qualche domanda con levità, senza né inquisire, né indagare. – Sono nata a Port Louis, il 1 maggio 1946 – sussurra con un abbozzato rotacismo melanconico. Un sospiro. Una pausa. La osservo con impegno. Mi accorgo che indossa orecchini lunghi di avorio e corallo. Intorno al collo una catenina d’oro trattiene il simbolo della sua fede. Alle dita alcuni anelli. Di famiglia. Quelli che si indossano in occasioni particolari. Quelli che si ereditano e si lasciano in eredità. Resto in silenzio. Corre tra noi un’apprensione che solo a distanza di qualche giorno riesco a collocare. - Sono partita dall’aeroporto di Plaisance nel 1972 – continua – Ho viaggiato con Alitalia. Primo volo in linea diretta Mauritius–Italia – . Il suo primo volo. Gladys è arrivata a Roma a 26 anni orfana di tutti. Di sua madre, morta quando ne aveva quattro. Di suo padre e di sua nonna quando ne aveva compiuti appena diciotto. – Dopo la morte di mia madre mio padre mi abbandonò. Non si occupò più di me. Né di me, né di mia sorella Edvige, né di mia sorella Ghislaine -. Era stato bravo il padre di Gladys, non aveva scontentato nessuno. Era andato e basta. Con ragione e senza abbracci. Portandosi dietro la speranza. Lasciando la disperazione. Le tre sorelle Edvige, Ghislaine e Gladys Camal Boudou, avevano continuato a vivere nonostante tutto. Nonostante il lutto. L’assenza. Il vuoto. Gli esperti la chiamano resilienza: ‘la capacità umana di affrontare le avversità della vita, di superarle e di uscirne rinforzato e addirittura trasformato positivamente’ ( Grotberg). - Siamo cresciute, con mia nonna Charlisa, la mamma di mia mamma – . Ogni mattina Charlisa ci portava in chiesa. Alle sei. Dalle sei alle sette. Tuttetuttetutte le mattine della mia vita. Della nostra vita – In chiesa le suore francesi trascrivevano sul registro i nostri nomi. Una sorta di registro delle presenze. Trascorsi sei mesi, se eravamo state sempre presenti ci regalavano qualche metro di stoffa. Rigorosamente a quadretti. Giusto per un vestito -. Nel raccontare la messa, le suore francesi e la stoffa a quadretti Gladys scopre i pantaloncini che indosso e indicandoli mi dice: – ecco la stoffa simile a questa. Una coincidenza. Una casualità. La sua stoffa. I miei pantaloncini. Io amo i quadretti. Gladys no. Per Gladys la stoffa a quadretti rappresenta un ricordo vincolato. Per me l’estate. La libertà. Continua. A tratti la glottide le si restringe inibendole il respiro e rendendola quasi afona. – Mia nonna con i soldi della sua pensione a volte ci comprava la stoffa bianca. E così anche io, come le altre bambine, potevo indossare il vestito bianco. Solo la domenica. Solo in occasioni particolari -. Il vestito bianco. Il vestito della festa. Il vestito che non si eredita e non si lascia in eredità. Il vestito bianco. La stoffa bianca. Nonna Charlisa. Mentre ascolto osservo. Mentre osservo e ascolto, penso. Mi sta succedendo qualcosa. Gladys parla lentamente e a tratti i ricordi si trasformano in dolore. Il dolore di Gladys – Nel 1960 l’uragano Ophelia ci devastò la casa di legno nella quale abitavamo. Restammo imprigionate per diversi giorni e alcune notti. Ci salvammo grazie a mia nonna la quale arrangiò una protezione con il letto di ferro. Paura. Buio. Ricordi indelebili. Perdemmo la casa e tuttotuttotutto -. Mentre Gladys racconta sento la sua paura. Vedo il suo buio. Leggo la sua disperazione. – Ho potuto frequentare fino alla sesta elementare e poi nel 1957 a undici anni ho cominciato a lavorare in fabbrica. Una fabbrica cinese. Ero la più piccola del gruppo. Incartavo le caramelle. A volte di nascosto mangiavo quelle che non erano riuscite bene. Era proibito. Avevo undici anni. Mi alzavo alle cinque. Alle sei andavo a messa fino alle sette. Dalle sette alle sei di sera lavoravo in fabbrica. A casa non avevamo l’acqua. Mangiavamo riso e legumi -. Si ferma. Tace. Sospira. Gladys oggi vive ad Anzio. Ha due figlie, Consuelo e Letizia. Due generi che l’adorano. Tre nipotini che la chiamano nonna. Nonna Gladys. Ha vissuto a Palermo prima e a Roma dopo. Io di Gladys conoscevo la sua erre moscia. Il colore della sua pelle. I suoi occhiali marronetartaruga. Il suo sorriso spento. Oggi conosco la sua paura. Il suo Buio. Il suo lutto. Il suo vuoto. La sua vita. Grazie Gladys. Premio Racconti nella Rete 2012 “La storia di Gladys” di Giuseppina Canzoneri Categoria: Premio Racconti nella Rete 2012 Veneris dies. Hora quinta. Suono. Qualche minuto e la porta spalanca un sorriso. Mi viene incontro il profumo di ordine. Il silenzio di una donna che aspetta. – Ciao, buongiorno – mi saluta. Rispondo e muovo dentro la stanza. Il sorriso è breve. La porta si chiude. Esclude il mondo. Gli altri. Le invenzioni e le convenzioni. Sul tavolo del soggiorno brillano pietre colorate. Fili intrecciati. Mi fermo e osservo. Un lavoro interrotto. Qualche domanda. Una breve distrazione. Gladys mi precede sul terrazzo. Un dialogo en plein air. Il nostro. Gioco. Immagino di essere Berthe Morisot, allieva di Corot, artista impressionista più volte ritratta da Manet pronta a trattenere le nuances che il mattino concepisce sugli angoli di un terrazzo che aspetta. Attrezzi stanchi, sparsi là e qua. Le sedie sono tante. Scelgo la prima a sinistra, sul lato più lungo del tavolo, quello che apre lo sguardo sul Parco del ‘Residence Elena’. Ne ho facoltà. Un tavolo rettangolare. Grande. Coperto di stoffa. Ci sediamo. L’estate spiegata trascina un effluvio di Jasminium auriculatum. L’ultimo. Guardo Gladys. E’ inquieta. Vuole raccontarsi. Circostanza che accolgo come si accoglie un regalo. Con gioia e riconoscenza. Vestita di simil modano ‘rosso-opaco di fiore nuovo’ abbottonato sul davanti, Gladys Camal Boudou anzi, Marie-Gladys Camal Boudou sposata Massarella, nasconde i suoi ricordi dietro gli occhiali marronetartaruga. Le faccio qualche domanda con levità, senza né inquisire, né indagare. – Sono nata a Port Louis, il 1 maggio 1946 – sussurra con un abbozzato rotacismo melanconico. Un sospiro. Una pausa. La osservo con impegno. Mi accorgo che indossa orecchini lunghi di avorio e corallo. Intorno al collo una catenina d’oro trattiene il simbolo della sua fede. Alle dita alcuni anelli. Di famiglia. Quelli che si indossano in occasioni particolari. Quelli che si ereditano e si lasciano in eredità. Resto in silenzio. Corre tra noi un’apprensione che solo a distanza di qualche giorno riesco a collocare. - Sono partita dall’aeroporto di Plaisance nel 1972 – continua – Ho viaggiato con Alitalia. Primo volo in linea diretta Mauritius–Italia – . Il suo primo volo. Gladys è arrivata a Roma a 26 anni orfana di tutti. Di sua madre, morta quando ne aveva quattro. Di suo padre e di sua nonna quando ne aveva compiuti appena diciotto. – Dopo la morte di mia madre mio padre mi abbandonò. Non si occupò più di me. Né di me, né di mia sorella Edvige, né di mia sorella Ghislaine -. Era stato bravo il padre di Gladys, non aveva scontentato nessuno. Era andato e basta. Con ragione e senza abbracci. Portandosi dietro la speranza. Lasciando la disperazione. Le tre sorelle Edvige, Ghislaine e Gladys Camal Boudou, avevano continuato a vivere nonostante tutto. Nonostante il lutto. L’assenza. Il vuoto. Gli esperti la chiamano resilienza: ‘la capacità umana di affrontare le avversità della vita, di superarle e di uscirne rinforzato e addirittura trasformato positivamente’ ( Grotberg). - Siamo cresciute, con mia nonna Charlisa, la mamma di mia mamma – . Ogni mattina Charlisa ci portava in chiesa. Alle sei. Dalle sei alle sette. Tuttetuttetutte le mattine della mia vita. Della nostra vita – In chiesa le suore francesi trascrivevano sul registro i nostri nomi. Una sorta di registro delle presenze. Trascorsi sei mesi, se eravamo state sempre presenti ci regalavano qualche metro di stoffa. Rigorosamente a quadretti. Giusto per un vestito -. Nel raccontare la messa, le suore francesi e la stoffa a quadretti Gladys scopre i pantaloncini che indosso e indicandoli mi dice: – ecco la stoffa simile a questa. Una coincidenza. Una casualità. La sua stoffa. I miei pantaloncini. Io amo i quadretti. Gladys no. Per Gladys la stoffa a quadretti rappresenta un ricordo vincolato. Per me l’estate. La libertà. Continua. A tratti la glottide le si restringe inibendole il respiro e rendendola quasi afona. – Mia nonna con i soldi della sua pensione a volte ci comprava la stoffa bianca. E così anche io, come le altre bambine, potevo indossare il vestito bianco. Solo la domenica. Solo in occasioni particolari -. Il vestito bianco. Il vestito della festa. Il vestito che non si eredita e non si lascia in eredità. Il vestito bianco. La stoffa bianca. Nonna Charlisa. Mentre ascolto osservo. Mentre osservo e ascolto, penso. Mi sta succedendo qualcosa. Gladys parla lentamente e a tratti i ricordi si trasformano in dolore. Il dolore di Gladys – Nel 1960 l’uragano Ophelia ci devastò la casa di legno nella quale abitavamo. Restammo imprigionate per diversi giorni e alcune notti. Ci salvammo grazie a mia nonna la quale arrangiò una protezione con il letto di ferro. Paura. Buio. Ricordi indelebili. Perdemmo la casa e tuttotuttotutto -. Mentre Gladys racconta sento la sua paura. Vedo il suo buio. Leggo la sua disperazione. – Ho potuto frequentare fino alla sesta elementare e poi nel 1957 a undici anni ho cominciato a lavorare in fabbrica. Una fabbrica cinese. Ero la più piccola del gruppo. Incartavo le caramelle. A volte di nascosto mangiavo quelle che non erano riuscite bene. Era proibito. Avevo undici anni. Mi alzavo alle cinque. Alle sei andavo a messa fino alle sette. Dalle sette alle sei di sera lavoravo in fabbrica. A casa non avevamo l’acqua. Mangiavamo riso e legumi -. Si ferma. Tace. Sospira. Gladys oggi vive ad Anzio. Ha due figlie, Consuelo e Letizia. Due generi che l’adorano. Tre nipotini che la chiamano nonna. Nonna Gladys. Ha vissuto a Palermo prima e a Roma dopo. Io di Gladys conoscevo la sua erre moscia. Il colore della sua pelle. I suoi occhiali marronetartaruga. Il suo sorriso spento. Oggi conosco la sua paura. Il suo Buio. Il suo lutto. Il suo vuoto. La sua vita. Grazie Gladys.
Posted on: Sat, 13 Jul 2013 19:54:54 +0000

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