Proposta di documento programmatico per il congresso costituente - TopicsExpress



          

Proposta di documento programmatico per il congresso costituente di Fare per Fermare il Declino I. A che punto è la notte Il punto di partenza per capire quali possibilità abbia FARE per Fermare il declino di trovare il senso politico della propria esistenza, prima che della propria azione, è una seria e corretta analisi del risultato elettorale e della situazione politica in cui ci troviamo. La sinistra, raccolta – parzialmente – attorno al PD, non è riuscita a vincere le elezioni, nonostante i disastri economici prodotti dal centro-destra tra il 2008 e il 2011. Un anno di sostegno al governo di Mario Monti, un disegno politico congegnato da altri, ma che richiedeva un concorso parlamentare tra PD e PDL, ha eroso il consenso del PD. La gestione delle primarie e la sconfitta del candidato Renzi hanno indebolito la capacità della sinistra di raccogliere consensi oltre i propri confini tradizionali. La piccola coalizione raccolta intorno a Monti, dalla quale siamo stati esclusi, e che si è progressivamente rivelata un tentativo di raccogliere i voti cattolici – ancora una volta – al centro dello schieramento politico, ha fallito. Priva di un leader convincente e di una classe dirigente coesa, Scelta Civica ha dinanzi a sé un futuro incerto – anche più del nostro – e la prospettiva di una dissoluzione parlamentare rapida e poco dignitosa è più che concreta. Il PDL ha recuperato consensi, contro ogni aspettativa dei propri avversari, semplicemente ripudiando le scelte di politica economica e fiscale sostenute con i propri voti in parlamento fino al giorno dello scioglimento delle camere. Nonostante ciò, la sua capacità politica è compromessa dal legame con il proprio leader e con i suoi interessi. La classe dirigente del centro-destra è – sotto il profilo della competenza, della capacità politica e dell’onestà personale – la peggiore e la più squallida della storia unitaria. La sensazione che accomuna tutti i dirigenti è che la fine di Berlusconi non sia lontana, e con essa il collasso definitivo di un partito personale privo della capacità di emanciparsi dal capo. La vicenda elettorale delle liste prodotte dal PDL dimostra che nessuna è in grado di raccogliere il 2% dei consensi, e quindi nessuna di esse può nutrire la speranza di proporsi come erede di quel vasto elettorato. La Lega Nord, dopo aver ottenuto la presidenza della regione Lombardia, deve trovare le ragioni politiche per continuare ad esistere, dopo aver sostituito il proprio leader storico e parte del proprio trentennale gruppo dirigente, ma la vacuità e il carattere opportunistico del programma politico e degli slogan di questi trent’anni sono ormai evidenti a tutti. L’alleanza con il PDL non può continuare, anche perché, ad un certo punto, verrà meno l’alleato. Ma non è semplice trovare nuove prospettive politiche ed elettorali che siano in grado di tenere in piedi il partito. L’unico vero vantaggio, al momento, è l’assenza di un serio partito concorrente al nord, che sappia rappresentare le categorie produttive colpite dalla crisi economica e oppresse dall’esosa inefficienza dello stato. Il MoVimento 5 Stelle sembra il vero vincitore della campagna elettorale, ma sta già incontrando molte difficoltà a tradurre i propri voti in capacità di azione politica. Il principale problema è la mancanza di una classe dirigente preparata e di una struttura politica che sappia esprimersi anche senza essere imbeccata costantemente da Grillo e Casaleggio. I partiti che si dichiarano espressione della società civile hanno tutti dimostrato un’imperizia politica tale da metterne in dubbio la capacità di governare un paese avanzato. Tuttavia, nessuno di questi si è impegnato a formare una classe dirigente. Tutti sembrano aver fondato le proprie scelte sul falso postulato che la società civile esprima spontaneamente una classe dirigente ovviamente e necessariamente migliore della classe politica in carica. Nel far ciò si dà per scontato che l’attuale classe politica non abbia legami con la società civile, che pure la vota da decenni, e non la rappresenti. Su questi infondati assiomi si sta costruendo un populismo demagogico che a destra, al centro e a sinistra ambisce a sostituire l’attuale classe politica senza sobbarcarsi l’onere di addestrarne un’altra. Si profila, pertanto, un avvicendamento di incompetenti, gli uni in uscita, gli altri in entrata nelle istituzioni. In questo affresco politico, FARE per Fermare il declino ha ottenuto circa 1% dei voti. Ci diciamo insoddisfatti di questo risultato, perché ne avevamo – a ragione, o, forse, illudendoci – pronosticato uno ben più consistente. Attribuiamo la sconfitta alla nota vicenda che ha compromesso la credibilità del nostro leader e candidato di punta, Oscar Giannino, e con quella la credibilità di tutto il movimento e del suo programma. Nel far ciò, diamo per scontato che – in assenza di un tale infortunio – avremmo saputo interpretare efficacemente la richiesta di rappresentanza politica dei ceti produttivi – in particolare al nord, delle categorie professionali, dei giovani e delle donne sotto-occupate o inoccupate. Questa presunzione è confortata – in chi la sostiene – dai numeri del nostro insuccesso, anziché dal quelli del nostro (mancato) piccolo trionfo. Rimaniamo dunque nell’incertezza: l’amarezza di un risultato deludente viene raffrontata ai presunti numeri di un risultato presunto ma inesistente. II. Cosa sarà la politica nel XXI secolo FARE per Fermare il declino contiene, al proprio interno, troppe aspirazioni contrastanti e concorrenti, che impediscono di definire cosa sia e dove sia collocato il nostro movimento. Aderenti al manifesto, aderenti ai circoli e iscritti al partito, nonché i dirigenti nominati e i fondatori che li hanno nominati, provengono da storie politiche differenti, che coprono tutto lo spettro politico, da destra a sinistra. La definizione di liberali, che ci siamo attribuiti, non rende ragione di questa provenienza così varia, e non dice niente di rilevante sulla nostra collocazione politica attuale o futura. È un termine del XIX secolo con il quale si vorrebbe costruire un movimento vasto e vincente nel XXI secolo: questo è un primo limite da superare. Nelle giornate di grande confusione seguite all’esito elettorale, è stata avanzata l’idea che un partito del XXI secolo sia un partito 2.0, ovvero largamente basato sul web e sulle logiche di funzionamento e di allestimento del consenso che si realizzano sulla rete. Ciò ha prodotto un vivace dibattito su quali piattaforme usare, quali modalità di democrazia web adottare, quali sistemi di interfaccia e condivisione di contenuti attrezzare, quali procedure implementare. In tutto questo, nessuno ha ancora seriamente prodotto i contenuti politici che dovrebbero essere condivisi, dibattuti, votati e diffusi. Un’idea sembra farsi largo: questi contenuti politici nasceranno spontaneamente in rete, lì si svilupperanno e cresceranno. E sempre in rete, se seguiamo il ciclo vitale delle idee, moriranno e verranno sepolti. Tutti noi abbiamo sperimentato la sorprendente dis-percezione che il dibattito in rete genera, e la distanza che separa un’adesione online da una partecipazione fattiva. Nel mondo contemporaneo le due dimensioni coesistono, e non è necessario sceglierne per forza una, escludendo l’altra. Ma credere che la rete generi spontaneamente contenuti politici – e politicamente sensati – è un modo facile di scaricare su qualcun altro – in particolare su un’indefinita comunità di internauti – il lavoro duro che, altrimenti, dovrebbero fare leader e dirigenti. Chi abbia un’idea più competente e meno suggestionata e fideistica della rete, sa che la frontiera su cui si dirige il web nei prossimi decenni è proprio la produzione di contenuti di qualità – economici, con molti livelli differenti di approfondimento dell’informazione, e facilmente condivisibili. Molti di questi contenuti di qualità nascono da conoscenza, studio, fatica e capacità di elaborazione intellettuale che risiedono fuori dalla rete e che si alimentano di strumenti, di informazioni e di esperienze più tradizionali, non sempre digitalizzabili. Quindi non possono generarsi automaticamente sulla base dell’enorme massa di informazioni – molte scadenti, molte false, molte scorrette e superficiali – che sono condivise in rete, a cominciare da Wikipedia. Questo vale anche per i contenuti politici, soprattutto quando devono fornire un’interpretazione del mondo presente per scegliere quale mondo futuro si vuol cercare di costruire. La gravità della situazione in cui versa il paese non ci consente di continuare a baloccarci con i concetti astratti, ma ci convoca a organizzare rapidamente il nucleo di una forza politica che sappia proporre con efficacia soluzioni efficaci. In questo senso, il partito del XXI secolo deve superare il problema di dare rappresentanza alle diverse realtà di una società post-industriale. La società – nelle sue articolazioni (ceti, professioni, gruppi d’interesse culturale, religioso, etnico, sessuale etc.) e nei suoi singoli individui – si rappresenta da sola, e lo fa in molti modi, anche non coerenti e non correlati tra loro. La società non ha più bisogno dei partiti politici per rappresentare se stessa, anche perché è troppo complessa per essere rappresentata da un ristretto numero di partiti politici. Uno dei luoghi organizzativi in cui la società allestisce le immagini e le rappresentazioni di sé è proprio il web. Quando i partiti politici invadono il web per riappropriarsi di queste molteplici rappresentazioni e ridurle alla propria misura e convenienza, falliscono e vengono respinti e disconosciuti. È questa, in ultima analisi, la vera ragione per cui un partito che esista solo sul web è destinato a fallire, perché cerca di svolgere una funzione (autoritativa) di rappresentanza che non gli spetta più e che non gli viene più riconosciuta. Al contrario, i partiti politici devono oggi svolgere altre funzioni, che altrimenti nessuno saprà espletare. III. Tra il partito inafferrabilmente liquido e il partito ottusamente solido c’è il partito intelligente Una società complessa deve essere governata da un’entità pubblica – lo stato – che sappia interpretare l’interesse collettivo. Noi crediamo che questo interesse collettivo sia molto più circoscritto di quanto oggi si dica, e che lo stato debba limitare la propria azione di regolatore agli ambiti che sono strettamente necessari, e debba fornire servizi pubblici solo laddove sia il solo soggetto capace di farlo. Per svolgere questa delicata funzione, lo stato deve incarnarsi in un personale pubblico e – al vertice – in un personale politico che abbia legittimità democratica, competenza tecnica e capacità politica. Se i partiti politici devono saper selezionare e proporre all’approvazione dei cittadini un tale personale politico competente e interprete credibile dell’idea di azione dello stato che ogni partito propone, allora i partiti devono cambiare la propria natura. Superato il problema – novecentesco – di dare voce e rappresentanza ai ceti sociali, i partiti devono oggi saper produrre conoscenza e addestrare classi dirigenti capaci non solo di ottenere consenso – cioè di vincere le elezioni – ma di governare la complessità. Per fare ciò i partiti devono essere organizzazioni “intelligenti”: devono saper raccogliere e analizzare le informazioni e devono saper comprendere la realtà, per produrre conoscenza e, attraverso questa, una capacità di scelta consapevole, informata, conscia delle conseguenze che le decisioni politiche – sotto forma di provvedimenti legislativi – producono nella società, nel mercato e nella vita delle persone. Solo in questa impostazione la meritocrazia, che tanto invochiamo nel nostro movimento, acquista un significato concreto e misurabile. I maggiori fallimenti cui stiamo assistendo, e non solo in termini di politica economica, non nascono tanto da pessime intenzioni e da deliberate manipolazioni, ma da una pessima conoscenza della realtà che si cerca di governare e da un’incredibile incompetenza nell’uso degli strumenti di governo. Un partito intelligente si colloca, dunque, nel mezzo tra i due estremi del partito perfettamente liquido, che si addensa in rete e in rete si scioglie, senza mai trovare una forma stabile che possa essere politicamente funzionale e senza la garanzia di saper individuare, in questi suoi continui passaggi di fase, una classe dirigente, e un partito solido e tradizionale, cioè un partito burocratico e stolido, che riesce solo a trasmette gli ordini dall’alto in basso e a cooptare una classe dirigente fedele e accondiscendente. Il partito intelligente è un partito burocraticamente più leggero, ma non è un partito privo di organizzazione, perché ha per proprio scopo la selezione di una classe dirigente capace, onesta ed efficiente, non semplicemente fedele, o popolare sul web. In questa ottica, il partito intelligente forma e addestra la propria classe dirigente, la prepara ad essere classe dirigente dell’Italia, in uno dei momenti più difficili della sua storia unitaria. Su questa impostazione generale è possibile imbastire un’organizzazione che sappia stimolare la crescita – di numero e di qualità – dei comitati locali, territoriali e non. Ma questi comitati non devono essere associazioni chiuse e gelose titolari della rappresentanza locale. Noi non rappresentiamo, noi produciamo conoscenza e capacità politica di governo. I comitati devono essere laboratori politici e fucine in cui si forgia – nel confronto politico interno e con gli altri partiti, con i ceti produttivi – la classe dirigente italiana del futuro. I comitati devono saper produrre personale politico che sappia convincere ogni nostro interlocutore della bontà e dell’efficacia dei nostri programmi di governo. Il partito deve quindi saper trarre dai comitati informazioni, conoscenze, reti di rapporti e classe dirigente. Deve saper dare loro formazione politica, capacità di comunicare, capacità di negoziare, capacità di analisi delle situazioni politiche locali che consentano poi di agire con efficacia nell’intercettare i consensi e nel costruire accordi politici che consentano di governare. La selezione della classe dirigente deve dunque contemperare due criteri molto diversi: quello democratico, che quantifica il consenso, e quello meritocratico, che quantifica il valore. Un partito intelligente è, e si concepisce, come un partito destinato a governare, quindi non è un partito che ha paura del potere o che non conosce il potere, perché sa che questo è innanzitutto il potere di agire, per il bene del paese. È un partito che associa strettamente il governo e il potere con la responsabilità e la rendicontazione di ciò che si è scelto di fare (accountability). È un partito che misura la forza delle proprie idee sulla propria capacità di convincere gli altri ad adottarle. È, dunque, un partito non introflesso, ma rivolto all’esterno, organizzativamente flessibile e resistente, intellettualmente innovativo e audace, politicamente forte e aggressivo. IV. Chiarezza di analisi – chiarezza di strategia – chiarezza di azione Oggi, FARE per Fermare il declino si colloca nello spazio politico che sta tra Scelta Civica di Monti e il PDL. Quindi, il nostro movimento si trova nello spazio politico del centro-destra. Alcuni lo negheranno e sosterranno che noi abitiamo un empireo extra-politico – di certo extra-parlamentare – che sfugge alla classificazione destra-sinistra: può darsi che sia così, ma di certo i nostri elettori abitano altrove, e continuano a ragionare nei termini di quelle classificazioni, anche se va di moda dire il contrario. È importante completare la transizione dal programma alla proposta, fino all’offerta politica definitiva. E’ necessario andare oltre la mera proposizione di un programma economico, in attesa che l’elettorato lo riconosca automaticamente e passivamente per quel che è, ovvero l’unica ricetta sensata e scientificamente corretta per traghettare il nostro paese al di fuori della crisi e lo porti a crescere nuovamente. Siamo stati capaci di elaborare un programma di altissimo livello, e la sua non negoziabilità ci ha permesso di costruire attorno ad esso un’offerta politica che è stata capace di radicarsi in breve tempo sul territorio. E’ solo un primo passo. Non è possibile cullarsi nell’illusione che basti fornire le giuste spiegazioni e le giuste ricette perché gli elettori le facciano proprie, superando d’un colpo le categorie alle quali per decenni hanno attribuito la soddisfazione dei propri bisogni e dei propri interessi. E’ da queste categorie che invece occorre ripartire, rendendo riconoscibile il posizionamento storico e strategico della nostra proposta, per trasformarla definitivamente in un’offerta politica affidabile e duratura. Nel frattempo, è necessario rassicurarli sul fatto che noi restiamo esattamente dove siamo: nello spazio politico del centro-destra. Restiamo lì perché ci sono almeno tre ottime ragioni per farlo. 1. Innanzitutto, lì si trova la maggioranza dell’elettorato italiano che in questi anni ha accettato, incomprensibilmente ma consapevolmente, di eleggere i propri parlamentari traendoli dalle liste del Polo delle Libertà e poi del PDL, e in ciò assicurando al paese una classe dirigente che nessuno ci invidia. Il nostro compito è indurre questo elettorato a scegliere la classe dirigente che noi proporremo loro, e che, ne siamo fiduciosi, sarà certamente migliore. Il problema che dobbiamo risolvere per indurli a questa scelta è capire perché finora non l’hanno fatta. Visto che gli elettori di centro-destra non si sono preoccupati di scegliere i migliori, è evidente che quei rappresentanti offrivano alla maggioranza elettorale del paese qualcosa di più rilevante della competenza, dell’onestà, dell’efficienza, della cultura, dell’estraneità al crimine organizzato e dell’accountability. Non c’è ragione di credere che la maggioranza del paese abbia scelto simili parlamentari per queste loro esecrabili caratteristiche. Dunque, essi hanno offerto loro un bene politico e una garanzia che, nella visione degli elettori, controbilanciava ampiamente tutti questi limiti individuali e collettivi. Al di là delle promesse elettorali dei pinocchi del centro-destra, questi garantivano di essere alternativi alla sinistra. È in questa logica – forse vecchia, ma certo rivelatrice – che hanno votato e scelto per vent’anni. Se sapremo offrire, in modo altrettanto convincente, la stessa garanzia, forse potremo indurli a scegliere i nostri candidati, nonostante il fatto che questi siano irrimediabilmente competenti, onesti, capaci ed estranei al crimine organizzato. Ben difficilmente potremo offrire questa garanzia, però, se lanciamo appelli a votare alle primarie del PD, o se ci proponiamo di sostenere un dirigente come Renzi, che nel PD sembra voler restare. E a poco serve proclamarsi in attesa di una sua uscita, perché non è molto convincente chi subordina la propria collocazione politica alle scelte – anche personali – di un dirigente di un altro partito. 2. Un secondo motivo per restare nello spazio politico del centro-destra è determinato da una constatazione. La lista Monti è prossima a perdere colui che le ha dato nome e ragion d’essere, e presto il PDL prederà colui che l’ha creato, usato e reinventato, a proprio esclusivo beneficio. Richelieu diceva che in politica servono pazienza e tenacia. Il nostro neonato movimento ha dimostrato molte ottime qualità, ma non ancora queste due, che si manifestano con il tempo e con l’esperienza. Un partito politico che nasce con le nostre ambizioni deve avere la tenacia di mantenere un indirizzo politico coerente con il proprio programma e la pazienza di lavorare su un orizzonte temporale sufficiente a portare a maturazione il nostro progetto. L’aver trasformato la recente campagna elettorale, che avrebbe dovuto essere solo una prima opportunità di farci conoscere, in un giudizio divino definitivo e inappellabile sul senso della nostra proposta politica, è stato un grave errore di strategia. Queste elezioni sono arrivate troppo presto, e in un a situazione troppo confusa, perché accettassimo di caricarle di tanto significato per il nostro futuro. Non eravamo pronti, e non saremmo mai stati in grado di esserlo. 3. Un terzo motivo per restare dove siamo è legato alla determinazione delle future alleanze in cui FARE per Fermare il declino potrà essere promotore, protagonista e garante politico. Restare nello spazio politico del centro-destra – e al centro di tale spazio – ci consente di godere di una piccola, almeno per ora, ma importante rendita di posizione. Mentre il PDL si è spostato molto a destra, tanto da togliere ossigeno alle sue liste-civetta di estrema destra, Scelta Civica non ha aggregato il voto cattolico, ma ha solo spostato voti dall’UDC a se stessa. All’interno di Scelta Civica, i componenti di Italia Futura, che tanto avevano sperato e profetizzato a proposito del proprio ruolo nel futuro politico del paese, sono rimasti delusi dal rapporto di forza svantaggioso con le componenti cattoliche. Sia alla nostra destra che alla nostra sinistra, dunque, stanno per muoversi formazioni politiche e flussi di consensi che non hanno trovato adeguata espressione nei partiti che li hanno, per ora, intercettati. Per trasformare questa opportunità di diventare un piccolo ma importante nucleo di riconfigurazione del centro-destra non berlusconiano, è necessario mantenere la nostra posizione politica, senza sbandamenti verso la sinistra e senza che gli umori e le suggestioni personali divengano – tramite un uso improprio dei social media – una vacillante ed estemporanea linea politica. V. Liberiamoci dagli errori Troppo a lungo ci siamo concentrati su problemi in larga misura inesistenti o fuori dalla portata di una soluzione rapida. Continuiamo a invocare una leadership forte come pre-condizione all’esistenza del movimento. Nello stesso tempo invochiamo la democrazia interna come strumento di selezione della classe dirigente. Ma un leader pre-esistente è naturalmente sottratto, al pari dei fondatori, a questo meccanismo democratico. L’uno e gli altri si pongono, infatti, come anteriori e superiori rispetto al movimento. Questa ambiguità dev’essere sciolta con intelligenza e buon senso. Alcuni di noi vogliono un partito che esista prevalentemente sul web e che recepisca dal web i propri contenuti, ma lo vogliono anche soggetto alla verifica democratica e all’accountability. Con ciò, confondiamo la democrazia, che è un sistema di regole neutre per misurare il consenso liberamente raccolto da una proposta, con la popolarità sul web, che è più assimilabile alla demagogia. Rifiutiamo le “vecchie categorie di destra e sinistra”, ma poi oscilliamo tra le diverse proposte politiche (Renzi, Monti, MoVimento 5 Stelle) che le “vecchie categorie” ci sottopongono, quasi fossimo un corpo politico passivo che risponde solo agli stimoli esterni, pronto ad essere utile agli scopi di qualcun altro, perché evidentemente incapace di scegliere i propri. Vagheggiamo di suddividere la società italiana in nuove categorie economiche che artificiosamente carichiamo di valore politico e d’identità collettiva, mentre ancora non abbiamo capito quali siano le tipologie di elettori che ci hanno votato, e da quale precedente affiliazione politica provengano. I dieci punti programmatici e il substrato di idee che li sostengono non hanno incontrato il favore dell’elettorato. Non si tratta di verificare se e in quale misura il messaggio politico non sia stato recepito e/o non capito o interiorizzato dall’elettorato, né di operare pericolose psicanalisi delle masse volte a far emergere un presunto e consistente elettorato cripto-liberista/liberale, soldato della meritocrazia a sua insaputa e celatamente individualista ma incapace di prender coscienza del proprio autentico sistema valoriale e quindi tradurlo scientemente nella scelta elettorale per Fare. Il cluster di mercato elettorale di riferimento così come è stato disegnato, recintato e prospettato dall’offerta politica di FARE non è né egemonico né maggioritario bensì assolutamente minoritario se non residuale. Le categorie sociali indirizzatarie del messaggio di FARE – genericamente indicate come «la società civile», ritenuta esclusa dai processi decisionali, contrapposta e osteggiata dalla società politica – sono state oggetto di un affannoso inseguimento in campagna elettorale, che è terminato violentemente contro il muro del responso delle urne. Da qui la necessità del superamento del mito (elettorale) della società civile. La società civile italiana non è aliena al potere politico costituito, gode di canali di mediazione dei propri interessi ed è parte integrante di quell’enorme blocco sociale che, trasversale a tutte le rappresentanze politiche, diffuso in tutti i ceti sociali, avversa qualsiasi tentativo di cambiamento dello status quo. Abbiamo bisogno di una nuova rappresentazione dei 10 punti che superino così la condizione di fredda e amara medicina contabile per il riassetto di uno Stato scassato e siano volano di un nuovo paradigma per andare oltre gli angusti corridoi del tecnicismo. Una nuova offerta politica che, senza sfociare nel supermarket dei valori e degli -ismi prêt-à-porter, faccia da fondamento per la creazione di un nuovo rapporto tra governati e governanti. Anziché di incalzare l’attuale classe politica per i suoi clamorosi fallimenti – e nel fare ciò avremmo dato seguito alla premessa del nostro Manifesto, che dal quel totale fallimento collettivo trae l’origine della propria premessa e la ragione per la quale è stato scritto – ci siamo invece rivolti contro noi stessi, forse perché nel limitato spazio delle nostre contese interne, le dimensioni e le capacità di ciascuno sembrano più adeguate, rispetto a quelle necessarie alla missione, ben più cospicua, di salvare il paese. L’ambiguità del nostro posizionamento politico nell’asse destra-sinistra si traduce in un’ambiguità di analisi delle nostre possibilità di azione, in un’ambiguità di linguaggio che ci impedisce di parlare in modo convincente ai nostri naturali destinatari. Ciò, infine, ci condurrà ad una progressiva, e progressivamente esiziale, ambiguità del nostro messaggio politico e del programma che lo sorregge. Già altri, in questi ultimi anni, hanno fatto lo stesso percorso di estraniazione dal proprio naturale spazio di riferimento, e sono scomparsi dal sistema politico. Dobbiamo emendare la nostra azione politica da questi errori, e farlo nel congresso di costituzione di questo movimento, attraverso un confronto che risponda alle domande vere che ci dobbiamo porre, non alle false appartenenze di fazione che ci vengono suggerite. Chi è conscio di avere buone soluzioni per i mali di un paese sull’orlo del precipizio, ha la responsabilità politica di fare tutto ciò che è possibile e necessario per salvare la situazione. VI. Conclusione Dobbiamo sempre tenere a mente che noi agiamo in stato di necessità politica, perché il nostro eventuale fallimento toglierà all’Italia l’ultima speranza di entrare nel XXI secolo senza passare per un lungo e drammatico periodo di caos economico, sociale e politico. Non ci saranno buone scuse per giustificare la dissoluzione di un movimento che ha ancora la possibilità di cambiare l’Italia. È il momento di scegliere che strada imboccare. Per farlo con saggezza e con consapevolezza, è indispensabile cominciare a guardare fuori di noi, perché lì fuori sta il mondo le cui strade vogliamo percorrere. La politica non è un processo di autocoscienza personale o collettiva, è un impegno di confronto con ciò che sta fuori di noi, con ciò che è altro da noi. Stabilire, una volta per tutte, che siamo il nucleo del partito liberal-conservatore, se vogliamo chiamarlo così, su cui si incardinerà il sistema politico italiano dei prossimi decenni potrà solo darci la forza politica e la chiarezza d’intenti di cui il nostro programma ha bisogno per essere compiutamente realizzato. Nel momento in cui, attorno a noi, tante aggregazioni politiche si sfasciano perché consumate dal tempo o smentite dalle proprie inadempienze, noi possiamo, semplicemente consolidando e accrescendo il patrimonio politico costruito in così poco tempo, attrarre a noi ciò che in esse c’è di buono e utile, e aggiungerlo ad un progetto politico ambizioso. Daniele Zotti, Giordano Masini, Gherardo Magnini
Posted on: Sat, 22 Jun 2013 16:14:39 +0000

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