QUANDO LA MANSFIELD SI INNAMORÒ DI UNA PRINCIPESSA MAORI di - TopicsExpress



          

QUANDO LA MANSFIELD SI INNAMORÒ DI UNA PRINCIPESSA MAORI di Giuliana Mastrangeli Nuova Zelanda, 1901. Katherine ha tredici anni. Si chiede «Che cosa sono? Come debbo essere?» le domande di sempre. Vive a Wellington, una piccola città di provincia, dove il padre, un uomo molto ricco (e avaro) ha fondato una famiglia. Katherine (che si chiama ancora Kathleen, Kathleen Beauchamp, perché soltanto tra qualche anno adotterà un “nome de plume”) è bruttina, grassottella (fra tre sorelle graziosissime), costretta a inforcare occhiali a stanghetta, ha un carattere difficile, niente affatto remissivo. È attenta, riflessiva, sin troppo; non ha ancora coscienza di sé (a parte il fatto che, da sempre, le piace scrivere) e si limita ad accarezzare l’idea di una vita diversa. Ha un’irrequietezza fatta anche di impulsi sessuali. Sua compagna di scuola è una ragazza maori meticcia, una principessa, Maata Mahupuka. Katherine se ne è innamorata, e la desidera. Non si tratta, semplicemente, di confusione adolescenziale, per cui i ruoli si possono stravolgere e l’attrazione per il proprio sesso diventare una specie di più tranquilla e indolore iniziazione. Katherine rivela sicure tendenze lesbiche che resteranno tali per tutta la sua vita, anche quando le alternerà, e poi le sostituirà, con più infelici relazioni maschili. Le donne nella sua vita, e sin da questa prima storia fra ragazzine, diventeranno un momento di sessualità non delusa, una consolazione dalle dolorose ferite infertele dagli uomini. Perché gli uomini parlano un altro linguaggio. Se è vero che di uno scrittore si scopre, e si ama, quel che già si sapeva, Katherine, di lì a poco, amerà Oscar Wilde, e gli scrittori decadenti, proprio perché si riconoscerà in quel tipo di morale, e di estetica, fondate sul culto della bellezza, e sulla religione dell’arte che tutto permette e da tutto assolve. Katherine sa bene d’infrangere le convenzioni, ma i dubbi iniziali fanno luogo, ben presto, alla solare certezza che è buono soltanto ciò che è naturale, che provoca intensità, che riscatta la vita dal grigio, dal convenzionale, dal passivo. Del suo amore per Maata ci restano frasi lapidarie: «Mi chiedo, quelli della mia età si sentiranno come mi sento io, così totalmente, violentemente lasciva, quasi malata nel corpo?… Voglio Maata, la voglio, e l’ho avuta, in modo tremendo. Questo è impuro lo so, ma vero. Che cosa straordinaria: mi sento ferocemente grezza, e innamorata della bambina quasi con violenza». La relazione durerà circa due anni: ma Katherine ha già tracciato quello che sarà lo stile della sua vita sentimentale. Basata sulla mancanza di inibizioni («Castrare il nostro corpo significa rinnegare e soffocare in pari misura le nostre facoltà spirituali… voglio spingermi su questa strada sin dove potrò») e sulla volontà di amare («sono innamorata dell’amore») anche quando l’oggetto d’amore non lo merita affatto e non la contraccambi in eguale misura. Katherine lotterà, sempre, con la propria natura appassionata e le aspettative che andranno, puntualmente, deluse. Ma resterà a guardare se stessa da un punto di vista privilegiato: riuscendo a sdoppiarsi, a soffrire e a guardarsi soffrire. Per di più l’ironia su se stessa sarà una grande forza. E anche l’ultima risorsa. A una serata musicale Katherine conosce un giovane violoncellista, Arnold Trowell. Arnold viene considerato il genio di Wellington e Katherine crede di aver trovato una direzione alle proprie aspirazioni. E si mette con impegno a suonare il violoncello, e ad amare Arnold. Non dimentica, per suonare lo strumento, d’intonarsi a lui, e di vestirsi di marrone. Comincia a essere posseduta dalla ricerca estetica: dalla consapevolezza che l’accordo tra le persone e gli oggetti è fatto di infinite sfumature, e di suoni, e di colori, e di accostamenti che si possono scegliere, e provocare. Nel 1903 Katherine parte per l’Inghilterra, insieme alle sorelle e alla famiglia Trowell. I ragazzi devono completare gli studi. Londra è per Katherine una rivelazione: «Non è tragico essere innamorata in questo modo? Non innamorata di un uomo… ma d’una città, di Londra. Londra è la vita». Al Queen’s College subisce l’influenza del giovane professore di tedesco, Walter Rippmann, un esteta che l’inizia alla prosa wagneriana di Walter Pater, alle teorie di Wilde, alla falsa ingenuità di Verlaine. Ha nuove, ambigue esperienze amorose e lega a sé, con un legame incrollabile, una compagna di scuola, Ida Baker, che le resterà accanto, come una schiava, rinunciando a ogni aspirazione personale. Diventando, nei lunghi e solitari anni della malattia di Katherine, la sua infermiera, la sua ombra, e, in qualche modo, la sua carceriera. Sono passati tre anni: Katherine deve tornare a casa. Qui l’aspetta la vita di sempre. Gli agi, i rituali borghesi, i balli, i corteggiatori (riceverà ben cinque proposte di matrimonio). Ma gli uomini, per lei, sono soltanto «oggetti di studio»: e per questo li studia così da vicino… Una nuova presenza femminile la sconvolge per breve tempo. Scrive Katherine di una certa Eddie, pittrice di figure infantili: «Sento più potentemente i cosiddetti impulsi sessuali con lei che con qualsiasi… la sua individualità, il suo corpo perfetto, ecco ciò che adoro…». Questo però non le impedisce, qualche settimana più tardi, di riprendere a scrivere lettere appassionate al suo violoncellista, con cui, in Inghilterra, ha mantenuto un casto rapporto: «Tu sei per me l’uomo, l’amante, l’artista, il marito, l’amico: tutto mi dai ed io tutta a te m’abbandono». Katherine ha bisogno, sempre e comunque, d’essere innamorata, ha desiderio d’assoluto e quel che non le viene dato se lo crea da sola. Gioca, a proprio piacimento, ruoli maschili e ruoli femminili. E lo scegliere atteggiamenti le permette di rafforzare l’opinione che ha di se stessa. Katherine si limiterà, in ogni circostanza, a essere quel che avrà deciso di essere. E fra lei e le cose, fra lei e se stessa, resterà comunque una frattura, una “lastra di cristallo”. Ma sarà proprio questo uno degli elementi di fascino della sua scrittura. Aver scelto un’ottica particolare, un certo tipo di visuale. Quasi decentrato, appartato. Quello di chi spiasse le vicende in una stanza, no, non dal buco della serratura, ma da più lontano, come nascosto da un cespuglio, e della realtà percepisse frasi smozzicate, quelle che gli porta il vento, quasi il suono d’un pianoforte in un immobile pomeriggio d’estate. Brandelli di vita quotidiana, a volte sereni, a volte affannati, ma comunque immersi in un’atmosfera trasognata («Vorrei fare un libro che sia irreale e al tempo stesso perfettamente verosimile»). La realtà, proprio come le persone, è piena di sfumature, e ognuna, con un colore più forte, sconfigge la precedente. Scriverà nel suo ultimo racconto ‘Il canarino’: «Devo confessare che mi sembra che ci sia qualcosa di triste nella vita. È difficile dire cosa. E non sto parlando di quei dolori che tutti conosciamo, come le malattie e la miseria e la morte. No, è qualcosa di diverso. È qui, dentro, nel profondo, fa parte di noi come il nostro respiro. Per quanto io lavori e mi stanchi, appena mi fermo un attimo sento che è lì. Che mi aspetta». Katherine, dunque, si rappresenta: ottiene grande successo ma, sospetto, qualche ostilità. La stessa cosa le succederà di lì a poco, quando riuscirà ad ottenere dal padre il permesso di tornare definitivamente a Londra. È il 1908, Katherine ha soltanto vent’anni. È piena di forze e di entusiasmo. Vivrà, sino a quando non riuscirà a pubblicare i suoi scritti, con il modesto assegno paterno. Arnold sta dando una serie di concerti in Inghilterra e Katherine, niente affatto frastornata dalla sua nuova vita, vorrebbe proseguire la loro relazione. Gli sbocchi reali che lei gli chiede sono per lui insostenibili: insomma non la vuole sposare. Allora Katherine, che non si era innamorata di un uomo, bensì dell’idea che si era fatta di lui, perché in lui identificava l’arte, e la bellezza (anche perché aveva lunghi capelli quasi rossi, portava grandi cappelli neri e fumava le più lunghe sigarette mai viste), trasferisce la propria infatuazione suill’essere che più di ogni altro partecipa di quella stessa atmosfera e di quegli stessi atteggiamenti: Garnet. Il fratello gemello di Arnold, anche lui musicista. E con Garnet l’amore sublime diventa sin troppo prosaico: Katherine resta incinta (probabilmente nel periodo in cui, per restargli vicino, si esibisce come corista in una tournée), ma nemmeno Garnet vuole sposarla. Katherine si è resa conto di quanto sia difficile la vita quotidiana con tutte le sue infinite esigenze. Soprattutto economiche. S’illude che un marito (non importa chi) le procuri quello di cui, in questo frangente, ha davvero bisogno. La scelta cade su un cantante, George Bawden, innamorato di lei e di una decina di anni più vecchio. Il matrimonio viene celebrato in gran fretta. Ma Katherine, incinta di tre mesi, non dimentica le sue adorate esibizioni estetiche. E come si recasse a un funerale si ammanta tutta di nero: dal vestito al cappello. Imponendosi di essere ragionevole, non ha fatto i conti con i suoi istinti più profondi. Quelli alla cui legge non può fare a meno di obbedire. Il matrimonio resta non consumato e il giorno dopo Katherine, abbandonando un allibito George, ha nuovamente raggiunto Garnet. Passeranno insieme un altro mese. Soltanto l’arrivo della madre salverà Katherine dallo “scandalo”. La porterà a terminare la gravidanza in un convento della Germania. Katherine partorirà, prima del tempo, un bambino già morto. La donna che torna in Inghilterra (durante il suo soggiorno in Germania non ha voluto cambiare il proprio stile di vita e ha avuto due altri amanti, un giornalista e un critico polacco) è una donna più forte. Un po’ più cinica. E visto che non ha altre risorse, per qualche mese si rassegna a vivere con il marito (che è ancora innamorato di lei), consuma il matrimonio, ma, come si era ripromessa, lo abbandona subito dopo aver pubblicato il suo libro. Prosegue la sarabanda degli amanti. Nel 1911 ha una storia con il nipote dell’editore di David H. Lawrence (la famiglia di lui si oppone al matrimonio, Katherine resta nuovamente incinta, ma questa volta decide di abortire), e con il romanziere William Orton. E accenna sul Diario a un nuovo rapporto, molto intenso e molto fisico, con un uomo rimasto sconosciuto: «Abbiamo fatto l’amore come due animali selvaggi…». È il dicembre del 1911. Katherine conosce John Middleton Murry, il giovane critico che dirige «Rhythm», una rivista letteraria. Sarà l’ultimo uomo, o quasi, della sua vita. Katherine ha solo ventitré anni ma ha già alle spalle una intera esistenza. Quasi presentisse che le restano da vivere soltanto una decina di anni. Gli anni dell’“afflizione” hanno indebolito la sua salute. Katherine non sarà mai più sana, normale. A Murry, che definisce se stesso «in parte snob, in parte vigliacco, in parte sentimentale», hanno già parlato di Katherine e lui è affascinato dall’idea di conoscerla. Le peripezie e i disagi hanno regalato a Katherine un aspetto diverso: l’adolescente un po’ goffa ha fatto posto a una ragazza sottile, sofisticata. Katherine si è tagliata i lunghi capelli e, precorrendo di qualche anno la moda, ostenta un lucido caschetto e sceglie con grande gusto, e grande cura, i suoi pochi vestiti. Scrive Aldous Huxley: «Era un viso privo d’espressione, il viso d’una bambola, ma di una bambola di un’intelligenza superba». Ma quel mistero che Katherine è consapevole di essere per se stessa (e la cui indagine la spinge alla frenesia, e alla disciplina, della scrittura) si rivela anche a uno spettatore un po’ più acuto. Ricorda Huxley: «Era una donna infelice, capace d’interpretare innumerevoli ruoli, ma essenzialmente incerta su chi fosse lei in realtà». Comunque sia, Murry ne resta affascinato. La sera del loro incontro Katherine indossa un vestito grigio color tortora, con uno scialle dello stesso colore, e un solo fiore rosso. Questo ragazzo timido e nervoso, dal bel viso e dai grandi occhi nocciola, le piace subito. Forse, ad attrarli, è la loro sostanziale diversità. Murry ha conculcato la propria sensualità. E ha dirottato ogni sua ricerca verso le regioni dell’introspezione. Inibendosi, proprio per il troppo dibatterli, ogni impulso e ogni passionalità. D. H. Lawrence, diagnosticherà questo suo modo d’essere: «Fegato, ci vuole, non introspezione. Hai fatto imputridire la tua virilità». Ma Katherine, spinta, ancora una volta, dalla parte maschile del proprio carattere, si sceglie un uomo più fragile di lei. Illudendosi di trovare la propria forza nell’altrui debolezza. E da subito prende fra le proprie mani la vita di lui: lo esorta ad abbandonare Oxford, dove Murry studia ancora, e a trasferirsi a Londra. Di lì a due mesi gli offrirà, addirittura, ospitalità a casa propria. Murry accetta. Ma il loro ménage, e per parecchie settimane, resterà davvero fraterno. Non certo per le resistenze di Katherine che, al contrario, arrogandosi un ruolo di seduttrice, sarà costretta a prendere l’iniziativa. «Perché non fai di me la tua amante?». La risposta di Murry che gelerebbe ogni altra donna, «sciuperebbe tutto», suscita soltanto l’ironia, sin troppo sfumata, di Katherine. «Sembra anche a me». Bisogna però ricordare, a difesa del non troppo intraprendente Murry, che lui sapeva di avere la gonorrea (contratta probabilmente ad Oxford) e forse la sua astensione diventava un atto di affetto nei confronti di Katherine. Comunque, di lì a qualche giorno, basterà la vista d’una prostituta dal viso devastato, per agire su entrambi come terribile “memento mori” e per gettarli (a trovare consolazione, calore e intensità di vita) l’uno nelle braccia dell’altra. Comincia così per Katherine, con il suo nuovo amante, una strana vita. Eppure, i limiti di Murry, che dovrebbero deludere la più esperta Katherine, in qualche modo, invece, la tranquillizzano. Scottata dal sesso, e dalle sue conseguenze, Katherine s’illude ora di stabilire con Murry un legame che resti, in qualche modo, innocente. Che abbia la funzione di tenerli uniti, come due bambini che si tengano per mano. È il 1915. Katherine ha ricevuto, continua a ricevere lettere appassionate da uno scrittore francese, amico di Murry, Francis Carco. Questi ha pubblicato da poco il suo primo libro, è ricco, allegro, appassionato e lei comincia a provare qualche insofferenza per Murry e per il loro «anemico amore d’intellettuali». Carco si è arruolato nell’esercito e la supplica di raggiungerlo. Le scrive: «Tu sei, e sarai, tutta la mia vita». Se in un primo momento Katherine trasferisce su Murry l’eccitazione del sentirsi (e con quali parole!) desiderata, e usa il fantasma di Carco per accendere i loro tiepidi rapporti: «Mi sono deliberatamente ubriacata e ho reso la cosa più sopportabile parlando francese, abbiamo fatto l’amore nella mia stanza, dopo cena. Per poco non spezzavo la sua “tensione di maschio” (è un’espressione mutuata da Lawrence) parlandogli di Francis», decide poi di mantenersi fedele a una frase del suo amato Wilde, «vi è un unico modo per liberarsi da una tentazione: cederle». E quando annuncia a Murry che raggiungerà Carco in Francia, questi non batte ciglio. Murry sembra non conoscere la gelosia: la Katherine che lui ama non è davvero spartibile con nessun altro. Forse Katherine vorrebbe provocarlo, accendere in lui delle reazioni, rendersi conto che è vivo, fatto di carne e sangue, magari mortalmente arrabbiato. E Francis l’ha sedotta proprio per la sua vitalità, per una certa volgarità, per la sua disinvoltura. La spedizione di Katherine diventa un’affermazione di vita, di coraggio. Nel rifiuto, ancora una volta, delle convenzioni. È tempo di guerra. Katherine raggiunge fortunosamente Parigi e si concede una disinvolta avventura di soli tre giorni. Si rende subito conto che Francis «non mi ama affatto», ma gli anni non sono passati inutilmente, e ora Katherine può accettare con un sorriso i propri fallimenti, non illudersi più di tanto sulla vera natura delle cose. «Non l’amo veramente, ora che lo conosco». Il ritorno a Londra, da Murry, che tutto sa e tutto accetta, vorrebbe essere il ritorno a un porto sicuro, il solo che lei abbia mai avuto. Un porto, però, esposto a tutti i venti. D’ora in poi la storia di Katherine diventa la storia d’una vitalità fiaccata dalla malattia, e d’una volontà di scrivere mai soddisfatta di sé. Mario Praz, a tal proposito, parla di «virile insoddisfazione». Quasi che questa si coniugasse soltanto al maschile e non facesse parte (sia pure con diversa intensità) di ogni processo creativo. Katherine comincia il suo tormentoso peregrinare (nel Sud della Francia, in Cornovaglia, in Liguria) alla ricerca di un clima più sano, di un ambiente più confortevole. È ormai una donna malata di tubercolosi. Murry (a torto o a ragione, accampando motivi o pretesti di lavoro) non le è quasi mai vicino. Non soltanto, Murry è un avaro e Katherine deve provvedere quasi interamente da sola ai suoi tanti bisogni. Nel 1918 Katherine ha la prima emorragia mentre sente che la vita comincia a sfuggirle (ma è convinta che morirà per colpa del cuore), si attacca morbosamente a Murry che, nel frattempo, dopo sei anni di rarefatta convivenza, è diventato suo marito. Sciolto, o quasi, ogni legame fisico, il rapporto tra loro diventa ossessivamente verbale. Dovunque si trovi, Katherine scrive a Murry delle lettere. Lunghe lettere dettagliate, quasi quotidiane che (a parte le annotazioni di lavoro e il resoconto sull’impiego delle giornate) sono soprattutto un atto d’accusa nei confronti del marito: mi manchi, mi hai abbandonato, ho bisogno di te. Murry, il bel tenebroso, si limita a sporadiche apparizioni. Praz afferma che, secondo lui, avrebbe soprattutto bisogno di bistecche, ma Murry sembra aver risparmiato le proprie forze se può permettersi di corteggiare altre donne e di avere delle storie con loro. Per Katherine, che l’intuisce, che lo viene a sapere, il tradimento di Murry diventa una pena in più. «È la mancanza di sensibilità, l’egoismo della cosa che mi stravolge». (A proposito di bistecche: Murry, dopo la morte di Katherine, avrà altre tre mogli. Anche se non sappiamo con quanta energia le abbia amate…). Ma Katherine, ormai, fonda la propria esistenza unicamente sulla scrittura, e proprio negli ultimi anni scrive i suoi racconti più belli (in tutto ce ne ha lasciati ottantotto, compresi quelli incompiuti). Magici, aerei, affollati di cose e di persone, di voci infantili. A compensare una desolata solitudine. La mancanza d’una vita reale. In un grottesco contrappasso è stata costretta dalla malattia ad adeguarsi (anche se ironica, riluttante e assolutamente infelice) a quell’immagine disincantata che Murry s’era fatto di lei. Murry, come sempre, è attento a contemplare se stesso e le proprie fragili sofferenze. Scrive Katherine nel 1920: «La vita non è ormai,,, che uno sforzo per respirare. Murry tace, lascia ciondolare la testa, si nasconde la faccia con le dita come se lo spettacolo della mia sofferenza gli riuscisse insopportabilmente faticoso. Se almeno un minuto fosse capace di servirmi, di aiutarmi, di dimenticare se stesso! È come avere una palla legata al piede nel momento in cui ci si dibatte per non annegare». Eppure Murry rimane il suo unico legame con la vita. E quando, nel gennaio del 1923, Katherine gli chiede di raggiungerla nella comunità mistica di Fontainebleau, dove si è trasferita da un paio di mesi, nell’illusione che il suo male sia solo spirituale, e che, per guarire, la tubercolosi debba semplicemente venire ignorata, tanta è la contentezza, e l’agitazione, di aver finalmente il marito accanto a sé che salendo troppo rapidamente le scale, ha un’emorragia. Muore dopo una mezz’ora. Fissando con uno sguardo pieno terrorizzato, e pieno d’orrore, la porta dalla quale il pavido Murry non entra a tenerle la mano, a carezzargliela per l’ultima volta. Katherine ha soltanto 34 anni. Sulla pietra tombale Murry farà incidere, con assoluta presunzione, ponendo in realtà un monumento a se stesso: «Katherine Mansfield, moglie di John Middleton Murry». Ma Murry, «l’omuncolo post-byroniano» (sono parole di Virginia Woolf), non si sarebbe mai reso conto d’essere stato soltanto un episodio (un’“esperienza” in più) nella vita della sua mal amata, straordinaria Katherine. I libri disponibili sono: Diari (Robin); Poemetti (Einaudi); Tutti i racconti (Adelphi); Racconti (Rizzoli); Racconti neozelandesi (Mondadori); La passione della scrittura (Baldini Castoldi Dalai). Per approfondire la conoscenza: Da una stanza all’altra di Grazia Livi (Garzanti); Vita breve di Katherine Mansfield di Pietro Citati (Mondadori); Katherine Mansfield, una vita di Ines Gnoli Lanzetta (Cisalpino-La Goliardica); L’architettura e i frammenti. Tre racconti di Katherine Mansfield di Anna Grazia Mattei (Ets); Katherine Mansfield di Jeffrey Meyers (Rusconi); Katherine Mansfield, una strana morte di Mario Pincherle (Verdechiaro) e Katherine Mansfield di Ian Gordon (Mursia). Dalla rivista «Millelibri», n. 12, novembre 1988, editoriale Giorgio Mondadori. in Il Foglio Clandestino, n. 59, 2005.
Posted on: Sun, 21 Jul 2013 09:05:21 +0000

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