Quando, nel marzo del 1842, il re di Napoli cominciò ad - TopicsExpress



          

Quando, nel marzo del 1842, il re di Napoli cominciò ad accarezzare l’idea di colonizzare le isole Pelagie, Carmela Picone non aveva ancora 15 anni, si preparava al matrimonio e credeva che la sua strada fosse ormai tracciata. Si sarebbe sposata a maggio, mese delle rose e della madonna, e poteva anche ritenersi fortunata. Il padre le aveva combinato il matrimonio con Vicè Cipolla, un contadino che coltivava una terra che era sua, che ci andava piano col vino e che non era mai stato visto in una taverna di Girgenti. “Sarà un buon marito, figlia mia. –disse- Tutti dicono che è un gran lavoratore e non salterai mai un pasto.” Poi aggiunse: “Non credo che ti alzerà mai un dito e farà di tutto per non farti mancare niente.” Il volto dell’uomo era scavato dal sole e le rughe raccontavano l’eterna miseria dei contadini senza terra. Poi si voltò dall’altra parte perché già soffriva all’idea che la figlia si sposasse e non voleva che gli leggesse il dolore negli occhi. Era rimasto vedovo da pochi mesi, quella era la figlia più grande e la moglie, andandosene, gli aveva lasciato la quinta bocca da sfamare. Da quel giorno Carmela aveva cominciato a far da mamma ai fratelli e aveva gustato lo strano orgoglio di essere l’unica donna di casa. Dava ordine ad ogni cosa, lavava i panni e preparava da mangiare. E, se le restava un poco di tempo, andava a trovare la madre di sua madre. La aiutava nelle piccole faccende domestiche, scambiavano qualche parola e aspettavano l’ora del Vespro. Poi, quando la casa sembrava pronta per il giorno che doveva ancora venire, si sedevano nella piccola terrazza e guardavano il mare. Era il momento in cui la nonna, che aveva da poco superato i cinquant’anni, si metteva a parlare del padre e della rivoluzione che avevano saputo fare i Francesi. Diceva di contadini che erano morti per fare saltare la testa ad un re e per conquistare un pezzo di terra da coltivare per se stessi e per la loro famiglia. Poi restava in silenzio e si metteva a pensare all’anima antica della sua isola. Anche il mare faceva la sua parte. Sapeva come raccontare dei mille padroni che la Sicilia aveva conosciuto, dei fremiti di ribellione che si erano rifugiati nelle campagne più sperdute e di una sete di giustizia che, troppe volte offesa e delusa, rischiava di frammentarsi come l’onda sugli scogli e disperdersi nell’aria che sapeva di sale. Quando seppe delle nozze della nipote, la nonna riuscì a stento a trattenere una smorfia di disapprovazione. Dopo si alzò, se ne andò nell’altra stanza e tornò con un sacchetto in mano. “Sono i risparmi di tutta la mia vita –disse- e basterebbero a comprare due mule e una capra.” Poi chiarì: “Ma non sono sufficienti per comprare un pezzo di terra e, così, io li do a te e non a tuo padre.” Carmela non chiese spiegazioni. Sapeva che quella donna pensava ed agiva sempre con giudizio e che le voleva bene quanto la madre che se ne era andata. Quando cominciarono a calare le prime ombre della sera, Carmela interruppe le sue riflessioni e si alzò. “So dove nascondere questi denari, mio padre e il mio futuro marito non ne sapranno niente. Forse, un giorno mi potranno servire.” La nonna la guardò negli occhi con qualche insistenza e aveva una espressione triste che veniva da molto lontano. “Non so per quanto tempo mangerai il pane che Vicè Cipolla porterà a casa.” –si limitò a dire. Poi si raccolse nello scialle, accese il lume a petrolio e accompagnò la nipote alla porta. La seguì fino a che lo sguardo riuscì a vederla e si preparò alla sera che avrebbe reso muta la campagna e avrebbe fatto brillare le stelle. Nel luglio del 1843 Ferdinando di Borbone aveva cominciato a prendere le sue decisioni. Un suo avo aveva acquistato le isole Pelagie nell’ormai lontano 1776 e aveva resistito alle argomentazioni del principe Tomasi di Lampedusa che gliele aveva vendute. Proprio non capiva perché mai avrebbe dovuto rivenderle agli Inglesi che già facevano i loro comodi nel Mediterraneo. Così quelle isole, più africane che europee, erano rimaste nelle mani della sua casata e forse era giunta l’ora di popolarle con sudditi fedeli. La decisione cominciò ad esser presa più in considerazione quando seppe che, nell’isola maggiore, erano presenti i cervi. Forse già si vedeva mentre cacciava il nobile animale e raccontava le sue gesta agli altri sovrani d’Europa o, forse, il suo fu soltanto un calcolo oculato e lungimirante. Il più autorevole dei suoi consiglieri, d’altra parte, era convinto della bontà dell’investimento. Secondo i suoi conti, infatti, il piccolo arcipelago avrebbe potuto assicurare alle casse del Regno un discreto introito annuale e, magari, produrre merci che sapevano di terre lontane. “E’ il caso di tentare l’impresa, Maestà. –concluse- Ma si ricordi che quelle isole sono come due sorelle. Se Lei decide di popolare Lampedusa, poi dovrà fare la stessa cosa con Linosa. Non è il caso di indurre qualcuno in tentazione e le guerre di trent’anni fa sono un ricordo che non può essere cancellato.” Alludeva, con tutta evidenza, alle vicende siciliane del 1812, quando Napoleone spodestava i sovrani e gli Inglesi sbarcavano nell’isola e aprivano la strada ai loro uomini d’affari più intraprendenti. Poi fece il nome del capitano di fregata Bernardo Sanvinsente ed era certo che il Sovrano avrebbe fatto cadere le ultime resistenze. Così, nel settembre del ’43, i primi coloni misero piede a Lampedusa, aprendo la strada ad una piccola popolazione di contadini che avrebbe lavorato una terra che finalmente era di loro proprietà. Linosa, invece, dovette aspettare ancora un anno e sette mesi e lo fece in un silenzio spezzato solo dal verso delle berte.
Posted on: Fri, 08 Nov 2013 09:47:22 +0000

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