Riformare la Costituzione prima della legge elettorale Riformare - TopicsExpress



          

Riformare la Costituzione prima della legge elettorale Riformare la Costituzione prima della legge elettorale - Luigi Pruneti di Aldo A. Mola in Il Giornale del Piemonte, 03.11.2013 Quale legge elettorale oggi conviene all’Italia? Il maggioritario? Il proporzionale? Il Parlamento annaspa, pungolato da chi dimentica che non serve una leggina ma, anzitutto, la riforma della Costituzione. Con buona pace di Benigni Roberto, uno dei tanti comici elevati a Maestri di Politologia, e degli Zagrebelsky, Rodotà ecc., la Carta del 1° gennaio 1948 non è affatto “la più bella del mondo”. A tacer d’altro, gli articoli 56 e 57 fissano il numero dei deputati e dei senatori (un errore che lo Statuto albertino si guardò bene dal commettere). Se se ne volessero uno in più o cento di meno, bisogna modificarla, con i tempi ben noti. Se si vuole eliminare il costosissimo il CNEL (Consiglio dell’economia e del lavoro, un reliquato del corporativismo fascista, che fu cosa molto più seria), bisogna abolire l’art. 99…; e via continuando. E’ una Carta con articoli bisognosi di toppe per evitarle sdruciture e strappi. Dal 1848 al 1913 l’Italia non ebbe né proporzionale né maggioritario ma i collegi uninominali a doppio turno, dai quali scaturì la miglior classe dirigente della storia nazionale. Dal 1948 il proporzionale fu il paravento del bipartitismo imperfetto (formula calzante di Giorgio Galli): da un lato la Democrazia cristiana e suoi alleati, dall’altro il Partito comunista italiano. La coabitazione/spartizione venne aggiustata col varo delle Regioni, finite per metà sotto controllo dei comunisti e del Partito socialista, che era al governo a Roma con la DC ma in periferia col PCI (accadde anche in Piemonte, Campania…). Falso proporzionale, bipolarismo fattuale: un sistema rovinoso. La storia ora presenta il conto: molti nodi ingarbugliati. Come scioglierli? Nell’Italia attuale nessuno ha la spada di Gordio. Lo stesso Giorgio Napolitano ha una sola carta da sventolare: le dimissioni. Ma non fa paura, perché gli vengono chieste da settori dell’opposizione mentre crescono le perplessità di parti consistenti della stessa friabile maggioranza. In questo stallo passa sotto silenzio che cent’anni orsono, il 26 ottobre 1913 con ballottaggio il 2 novembre, fu eletta la prima Camera dei deputati con suffragio maschile quasi universale. La votazione sperimentò la riforma elettorale del 1912, voluta dal settantenne presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, massimo statista della Nuova Italia, a coronamento del suo “grande ministero” (1911-1914). Le leggi elettorali, si sa, non si varano all’inizio di legislatura (come oggi si vorrebbe fare) perché, appena approvate, delegittimano la Camera esistente ed esigono la pronuncia del corpo elettorale. Ma oggi regna la confusione, dal pennone sul Quirinale all’ultimo scranno di consigli comunali e provinciali, che ancora non si sa se e come tra pochi mesi verranno rinnovati. Contrariamente a quanto alcuni ancora asseriscono sulla scia di Gaetano Salvemini e di Arturo Labriola, le elezioni del 1913 confermarono che l’“età giolittiana” non era affatto finita. Giolitti aveva all’attivo la vittoria militare sull’impero turco per la sovranità su Tripolitania e Cirenaica e quella civile sull’ingordo affarismo privato, con la creazione dell’Istituto Nazionale Assicurazioni (INA). Secondo lui il conferimento del diritto di voto ai maschi maggiorenni, anche se analfabeti ma che avessero prestato servizio militare, e comunque a tutti i trentenni, avrebbe garantito la partecipazione democratica alla vita politica. La legge assegnò una modesta indennità ai deputati per consentire anche ai più umili di rappresentare la nazione. Il socialista Oddino Morgari, per esempio, quando andava alla Camera dormiva in un carro ferroviario fermo alla Stazione Termini, perché non poteva pagarsi neppure la più povera delle pensioni, e mangiava alla mensa ferrovieri. Però, contrariamente alle speranze, la prima Camera eletta a suffragio universale risultò del tutto impari al suo compito, incapace di tenere in pugno le sorti dell’Italia nello scontro tra neutralisti e interventisti (prevalentemente extraparlamentari),germe di una guerra civile tuttora serpeggiante. Il 20 maggio 1915 essa votò al buio la fiducia al governo Salandra-Sonnino, ignorando il contenuto del Patto di Londra del 26 aprile. Prima di sciogliersi, quella stessa Camera, la più inutilmente durevole della storia d’Italia (1913-1919), introdusse la suddivisione dei seggi in proporzione ai voti ottenuti dai partiti: la “maledetta proporzionale”, come la bollò Giolitti. La nuova legge impedì qualsiasi stabile maggioranza, Dopo sei diversi ministeri in tre anni (1919-1922), su consiglio di tutti i maggiorenti costituzionali, inclusi i popolari, Vittorio Emanuele III affidò la presidenza al fascista Benito Mussolini, che formò un governo di coalizione nazionale approvato a stragrande maggioranza dalla Camera eletta nel maggio 1921. Nel 1923 il Parlamento varò la “legge Acerbo”, voluta anche da Giolitti, che assegnò due terzi dei seggi a chi ottenesse almeno il 25% dei voti (altro che “Porcellum”!). Nel 1928, infine, la Camera stabilì che i suoi futuri 400 componenti sarebbero stati designati dal Gran Consiglio del Fascismo e candidati in un collegio unico nazionale. Gli elettori furono chiamati ad approvare o a respingere in blocco il “listone”. Il 24 marzo 1929, dopo i Patti Lateranensi tra Stato e Chiesa, votò quasi il 90% degli aventi diritto. Il “listone” ottenne 8.500.000 “si”. I “no” furono appena 135.761. Dunque, al regime di partito unico l’Italia non arrivò con un “colpo di Stato” ma una votazione dopo ‘altra, con il consenso degli elettori. Fu ed è chiaro che il suffragio universale in sé non è tutto. L’importante è come il voto viene utilizzato dai cittadini. Tra il 1913 e il 1928 si susseguirono quattro diversi sistemi. I votanti aumentarono; la democrazia no. E’ impossibile prevedere quali benefici o quali serpi rechi in seno una legge elettorale. Vi è una sola certezza. Varata la riforma, in diciotto mesi o in una sola settimana come vorrebbe Napolitano, le Camere vanno sciolte, come del resto fece intendere chi, all’insediamento, ne fissò ruvidamente il calendario. Ma che senso avrebbe ora una leggina di breve respiro senza la sempre più urgente riforma della Costituzione? (*) Aldo A. Mola (*) “Mito e realtà del diritto di voto” è il tema, attualissimo, della XV Scuola del Centro Giolitti, che si apre con la relazione del vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, su “Cause ed effetti delle leggi elettorali” (Provincia di Cuneo, h. 9 di sabato 9 novembre).La Scuola, con interventi di Tito L. Rizzo, Dario Fertilio, Juan José Morales Ruiz, Aldo G. Ricci, Giorgio Sangiorgi, Oscar Sanguinetti e Luigi Pruneti, continua a Dronero e si conclude il 10 ad Alessandria in collaborazione col Centro Rattazzi ed è affiancata dall’esposizione di opere dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’esercito, illustrate dal suo Capo, col. Antonino Zarcone.
Posted on: Tue, 05 Nov 2013 19:11:01 +0000

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