Ritorno al ’catastrofismo’ Sul piano della dottrina - TopicsExpress



          

Ritorno al ’catastrofismo’ Sul piano della dottrina generale dell’evoluzione storica e sociale, la degenerazione politica ormai completa del vecchio movimento comunista ha portato al rinnegamento della visione "catastrofica" di Marx: né i contrasti di classe, né gli urti fra Stati, sfoceranno più – si diceva – in una lotta violenta, in conflitti armati. Fondamentalmente, la prospettiva era insieme quella di una pace internazionale battezzata coesistenza pacifica e quella di una pace sociale garantita dalla parola d’ordine conservatrice e reazionaria di una "democrazia nuova" poggiante sulla "pianificazione democratica", sulle "riforme di struttura", e sulla "lotta contro i monopoli". In realtà, il "comunismo" staliniano, e ancora più quello post-staliniano, non era che un’apologia del Progresso, nella misura in cui esaltava l’aumento della produzione e della produttività; non era che un’apologia del Capitalismo, nella misura in cui esaltava l’incremento dei commerci. Oggi, quando la rigidità della "coesistenza pacifica" ha ceduto il passo ad una situazione internazionale fluida, che cerca nuovi assestamenti in vista del prossimo conflitto mondiale, i partiti opportunisti pseudo-operai non sono più distinguibili nemmeno formalmente da quelli di dichiaratamente di "destra". Di fronte a questa rincorsa al tradimento di ogni principio di classe, le posizioni marxiste rimangono invariate: sotto il capitalismo, aumento della produzione e della produttività significa sfruttamento crescente del lavoro da parte del capitale, aumento smisurato della parte non pagata del lavoro, del plusvalore. Il consumo operaio, la "riserva" che la classe lavoratrice si costituisce sotto forma sia individuale sia sociale (assistenza contro le malattie e la vecchiaia; legislazione familiare, ecc.), possono crescere; ma di altrettanto crescono l’assoggettamento del produttore al capitale e l’insicurezza della sua condizione, legata agli alti e bassi dell’economia di mercato. L’antagonismo di classe non è per nulla attenuato; anzi, è spinto al massimo. Estensione del commercio significa estensione del dominio dei paesi sviluppati sui paesi sottosviluppati e progressivo inasprirsi della naturale concorrenza fra paesi sviluppati. Legando i diversi popoli, i diversi continenti nelle maglie di un’economia sempre più mondiale – nel che è una reale, anche se involontaria, conquista – essa presenta dialetticamente un aspetto "negativo" che tutti i suoi apologeti fingono di ignorare: la preparazione di crisi commerciali, quindi finanziarie e industriali, il cui sbocco, oggi come ieri, non può essere che la guerra imperialistica. Del resto, una parte crescente delle forze produttive viene oggi sprecata non certo nella produzione dei "beni e servizi" che il "commercio onesto" e "ad interesse reciproco", caro agli opportunisti d’occidente e d’oriente, "elargirebbe" a tutta l’"umanità", ma nella produzione di armi distruttive la cui funzione è ancor più economica (settore di accumulazione per assorbire la sovrapproduzione) che militare. Il capitalismo è riproduzione senza fine del capitale; scopo della produzione capitalistica è il capitale stesso. L’accrescersi oltre ogni limite naturale della produzione di merci, spinta a folle velocità, genera non maggiore benessere alla specie umana, al contrario, una serie di catastrofiche crisi di sovrapproduzione che sconvolgono la vita sociale in tutto il pianeta. Di queste crisi – negate per decenni da tutti i teorici borghesi e ritenute invece ineluttabili dal marxismo autentico – la classe operaia è la prima vittima portandone il peso con disoccupazione, riduzione dei salari e intensificazione dei carichi di lavoro. Per il capitalismo la guerra è la necessaria conseguenza della sua periodica crisi di sovrapproduzione. La guerra capitalista è quindi inevitabile. Solo le smisurate distruzioni provocate dalle guerre mondiali moderne consentono al capitalismo di poter poi riprendere il suo ciclo infernale di ricostruzione-accumulazione. Le contemporanee guerre mondiali imperialiste – benché sempre celate dietro paraventi "umanitari", "democratici", "pacifisti", "difensive" – sono in realtà necessarie ai vari capitalismi per ripartirsi gli esausti mercati, per ridividersi i continenti. Sono guerre quindi per la conservazione del capitalismo, sia su questo piano economico, sia in quanto provvedono, nella crisi, ad eliminare la parte di forza lavoro eccedente le ridotte capacità di impiego produttivo. Sono immani macelli di schiavi che il capitale non è momentaneamente in grado di mantenere. O guerra o rivoluzione, non c’è altra strada. L’atteggiamento comunista rivoluzionario nei confronti della guerra denuncia come tragica illusione quella di voler coniugare capitalismo e pace ed afferma che solo l’abbattimento del potere borghese e la distruzione dei rapporti di produzione fondati sul capitale potrà liberare l’umanità da simile ripetuta condanna. Sulla linea di Marx e di Lenin proclama la tattica dell’antimilitarismo di classe, della fraternizzazione ai fronti, del disfattismo rivoluzionario al fronte e nelle retrovie, che vengono a capovolgere la guerra fra gli Stati in guerra fra le classi. Per la contraddizione materiale di fondo che inficia tutti i movimenti del pacifismo legalitario e interclassista, che condannano la guerra ma nei limiti del presente regime, il comunismo prevede che, per la loro matrice di classe borghese, quando saranno costretti a scegliere fra Guerra e Rivoluzione opteranno necessariamente per la prima. Con Lenin li riteniamo fattore di inganno e di disturbo nel sano orientamento di battaglia del proletario e uno strumento ausiliario del militarismo per trascinare i proletari alla guerra. Sono infatti i pacifisti che, addebitando all’"aggressore" di turno quegli orrori sulle popolazioni che le guerre imperialiste sempre e inevitabilmente provocano, vengono infine a chiedere agli Stati borghesi che lo "fermino con qualsiasi mezzo", e ai proletari di massacrarsi a vicenda per quel menzognero ideale di "pace", "democrazia", "civiltà", ecc. Di fronte poi agli argomenti più classicamente riformistici del post-stalinismo, le posizioni del marxismo rivoluzionario restano quelle che erano al tempo della socialdemocrazia: il capitalismo moderno non è affatto caratterizzato (Engels lo constatava già!) dall’"assenza di piano"; e la "pianificazione" da sola, quale che essa sia, non basta affatto a caratterizzare il socialismo. Neppure la scomparsa (più o meno reale) della figura sociale del capitalista, che si voleva caratterizzasse la società russa di ieri, basta a provare l’abolizione del capitalismo stesso (Marx lo constata già!) poiché il capitalismo non è altro che la riduzione del lavoratore moderno alla condizione di salariato e, dove questa sussiste, continua a sussistere quello. L’apologia del capitalismo e il riformismo di stampo socialdemocratico, la cui fusione era caratteristica del "comunismo" di marca russa o cinese, anche peggiore del riformismo classico, si alleano ad un disfattismo che, in quanto riflesso psicologico e ideologico della disgregazione della forza rivoluzionaria del proletariato, sterilizza perfino la rivolta che questa apologia e questo riformismo suscitano in certi ambienti operai. Esso consiste, prima di tutto, nel negare alla classe operaia ogni possibilità di superare la concorrenza esasperata che oggi la divide, di ribellarsi al dispotismo dei bisogni creati dalla prosperità capitalistica, di sfuggire all’incretinimento generato dall’organizzazione borghese del benessere, degli svaghi, della "cultura", per costituirsi in partito rivoluzionario; e in secondo luogo consiste nell’ammettere, implicitamente o esplicitamente, che il progresso negli armamenti abbia trasformato in un monopolio per sempre indistruttibile il normale possesso del potenziale militare della società da parte della classe dominante. Tutte queste posizioni equivalgono all’abdicazione di ogni speranza rivoluzionaria di fronte all’onnipotenza di fatto, ma per noi storicamente transitoria, del capitale. Le ritroviamo tali e quali in ogni epoca di reazione politica e sociale (rispetto superstizioso della potenza militare del nemico, già combattuto da Engels al tempo dei cannoni e fucili "convenzionali"; disprezzo o sdegno filistei per l’"ottusità", "ignoranza", "mancanza di idealismo" degli operai, già combattuto da Lenin e da tutti i militanti rivoluzionari), ma ciascuna di esse si crea delle ragioni proprie ed imperiose per credervi (la bomba atomica e all’idrogeno o, come nelle elucubrazioni marcusiane e simili, il potere inguaribilmente corruttore della "società dei consumi"!). Strumento centrale di questa intimidazione morale sono i potenti mezzi di comunicazione che ripetono all’ossessione che la società presente è il "male minore" possibile. Anche in questo, le posizioni marxiste restano quelle di sempre: il capitalismo divide ma nello stesso tempo concentra e organizza il proletariato; e alla fine la concentrazione ha il sopravvento sulla divisione. Il capitalismo corrompe e infiacchisce ma, senza volerlo, educa rivoluzionariamente il proletariato; e alla fine tale educazione ha il sopravvento sulla corruzione. In effetti, tutti i prodotti sofisticati delle "industrie del piacere" sono altrettanto impotenti a lenire il crescente malessere della vita sociale (sia urbana sia rurale), quanto i tranquillanti della medicina moderna sono impotenti a restituire all’uomo della società capitalistica l’armonia nei rapporti con se stesso e con gli altri, che la "vita moderna" – vale a dire capitalistica – distrugge. Assai più che in questo genere di corruzioni, la forza del capitale risiede, oggi come ieri, nello schiacciamento del produttore con la lunghezza della giornata, della settimana, dell’anno e della vita di lavoro. Ma il capitalismo deve, per forza di cose, limitare storicamente questa lunghezza; lo fa in modo lento, meschino, con continui passi indietro, ma non può non farlo, e gli effetti di ciò, come previdero Marx ed Engels, saranno necessariamente rivoluzionari, se si pensa che d’altra parte esso è parimenti obbligato ad istruire (nello stesso tempo in cui li inebetisce) quelli che diverranno i suoi "becchini". Dunque, sia la prospettiva quella della prossima esplosione di una crisi tipo 1929 che riduca alla condizione di proletario l’"operaio imborghesito" di oggi, o quella di una lunga fase storica di espansione e "prosperità", la dialettica stessa della società attuale impedisce a chiunque non pratichi apertamente il disfattismo di dedurre (come vanno facendo da punti di vista diversi maoisti, castristi, guevariani ecc.) dalla disorganizzazione del proletariato una condanna storica definitiva, un’impotenza "sociologicamente determinata" alla ricostituzione del Partito e dell’Internazionale di classe, e quindi la necessità che altri strati sociali o categorie sociologiche (contadini, studenti e via dicendo) ne prendano il posto all’avanguardia della rivoluzione sociale. A maggior ragione è assurdo credere che, con la superiore potenza sociale che lo sviluppo stesso del capitalismo conferisce alla classe salariata, questa sia divenuta impotente a realizzare il primo compito di ogni rivoluzione sociale della storia: il disarmo del nemico di classe, l’appropriazione totalitaria del suo potenziale militare. Ritorno al ’totalitarismo’ rivoluzionario Sul piano politico e sociale, la vittoria finale del democratismo sulla dottrina rivoluzionaria del proletariato nel vecchio movimento comunista è giunta a presentare la "resistenza al totalitarismo" come scopo del proletariato e di tutti gli strati sociali oppressi dal capitale. Questo orientamento, la cui prima manifestazione storica fu l’antifascismo di anteguerra e di guerra, non ha risparmiato nessuno dei partiti legati a Mosca (poco importa se svincolatisi dal suo controllo, come quello cinese) sfociando nella negazione del partito unico, forma indubbiamente comunista e leninista all’origine, come necessaria guida della rivoluzione e della dittatura proletaria. Mentre nelle "democrazie popolari" del cosiddetto "campo socialista" il potere era nelle mani di "fronti" popolari o nazionali, ovvero di partiti o "leghe" che esplicitamente incarnavano un blocco di più classi, i partiti "comunisti" operanti nel "campo borghese" avevano fatto solenne abiura della dottrina della violenza rivoluzionaria di classe come unica via al potere e della dittatura esercitata dalla classe attraverso il solo partito comunista come unica via per mantenerlo, e promettevano ai corteggiatissimi interlocutori socialisti, cattolici ed altri un "socialismo" gestito in condominio da più partiti rappresentanti il "popolo". Accolto favorevolmente da tutti i nemici della rivoluzione proletaria, che nel "comunismo" di ispirazione stalinista respingevano tutto ciò che ricordava il folgorante Ottobre rosso, questo orientamento era non soltanto disfattista, ma illusorio. Come il proletariato non rivendica per sé nessuna libertà nel quadro del regime dispotico del capitale e quindi non fa propria la bandiera della democrazia né "formale", né "reale", così rivendica come parte integrante del suo programma la soppressione di tutte le libertà per i gruppi sociali legati al capitale nel quadro del regime dispotico che, preso il potere, esso imporrà alla classe vinta. Se la borghesia maschera la propria dittatura dietro la finzione democratica – secondo cui sull’arena politica si scontrerebbero non già classi antagoniste ma individui liberi ed eguali fra loro "dialoganti", e questo scontro sarebbe di opinioni anziché di forze fisiche e sociali divise da insanabili contrasti – i comunisti che, dal tempo del Manifesto, "non hanno nulla da nascondere" proclamano apertamente che la conquista rivoluzionaria del potere, necessario preludio alla palingenesi sociale, significa nello stesso tempo il dominio totalitario dell’ex classe oppressa, incarnata dal suo partito, sull’ex classe dominante. L’antitotalitarismo è una rivendicazione di quelle classi che si muovono sulla stessa base sociale della classe capitalistica (disposizione privata dei mezzi di produzione e dei prodotti), ma che ne sono invariabilmente schiacciate; è l’ideologia – comune ai variopinti movimenti di "intellettuali", "studenti" ecc., da cui la scena politica è periodicamente infestata – della piccola e media borghesia urbana e contadina aggrappata a quei miti della piccola produzione, della sovranità dell’individuo e della "democrazia diretta" che sa condannati dalla storia, ma che pur tenta disperatamente di salvare. Esso è quindi insieme borghese ed antistorico, e per questi due motivi antiproletario. La rovina della piccola borghesia sotto i colpi di maglio del grande capitale è storicamente inevitabile, e socialmente costituisce – alla maniera capitalistica, brutale e lenta nello stesso tempo – un passo avanti verso la rivoluzione socialista in quanto rende operante il vero ed unico apporto storico del capitalismo: la centralizzazione della produzione, la socializzazione dell’attività produttiva. Il proletariato, che nel ritorno (quand’anche fosse possibile) a forme di produzione meno concentrate non può non vedere un allontanamento dall’obbiettivo storico suo proprio di una produzione e di una disposizione dei prodotti completamente sociali, non riconosce come suo compito né la difesa dei piccoli borghesi contro i grandi (gli uni e gli altri egualmente nemici del socialismo) né l’adozione in politica di quel pluralismo e "policentrismo" che non ha nessuna ragione di accettare sul piano economico e sociale. Come era ed è reazionaria la parola d’ordine della "lotta contro i monopoli" in difesa della piccola produzione, così sono reazionari tutti quei movimenti che – sia per riflesso delle ideologie piccolo-borghesi, sia per malintesa reazione al corso degenerativo della rivoluzione russa (interpretato come effetto, non della mancata estensione internazionale della rivoluzione proletaria e dell’abbandono dell’internazionalismo comunista, ma dell’instaurazione fin dall’inizio di una dittatura totalitaria, quindi antidemocratica) – vedono il processo rivoluzionario come una graduale conquista di isole di "potere" periferico ad opera di organismi proletari indifferenziati a base aziendale esprimenti una fantomatica "democrazia diretta", (teoria gramsciana e ordinovista dei consigli di fabbrica, vaneggiamenti attuali di svariati "poteri" operai od altri). Ignorano il problema centrale della conquista del potere politico, della distruzione dello Stato capitalistico, e quindi anche del partito come organo centralizzatore della classe. Altri presentavano come "socialismo" già realizzato un sistema basato su una rete di aziende "autogestite" ciascuna elaborante il suo piano attraverso analoghi organi di "decisione dal basso" (teoria iugoslava dell’autogestione), distruggendo così alla radice la possibilità di quella «produzione sociale regolata dalla previsione sociale», in cui Marx indicava «l’economia politica della classe lavoratrice», e che è solo realizzabile superando l’autonomia delle cellule produttive di base dell’economia capitalistica e il «cieco dominio» del mercato in cui essi trovano l’unico, caotico e imprevedibile, elemento connettivo. Prima o dopo la presa del potere, in politica o in economia, il proletariato rivoluzionario non fa, né può fare, nessuna concessione all’antitotalitarismo, altra versione di quell’antiautoritarismo idealistico ed utopista che Marx ed Engels denunziarono nella lunga polemica con gli anarchici e che Lenin in Stato e Rivoluzione dimostrò convergere con il riformismo gradualista e democratico. Nei confronti dei piccoli produttori, il proletariato socialista non userà la ferocia di cui il capitalismo ha dato prova in tutta la sua storia; ma, nei confronti della piccola produzione e dei suoi riflessi politici, ideologici e religiosi, la sua azione sarà infinitamente più decisa, rapida e insomma totalitaria. All’intera specie umana la dittatura proletaria risparmierà la massa infinita di violenze e di miseria che sotto il capitalismo costituisce il suo pane quotidiano, ma potrà farlo appunto in quanto non esiterà ad impiegare la forza, l’intimidazione e, se necessario, la più decisa repressione contro qualunque gruppo sociale, piccolo o grande, che la ostacoli nell’adempimento della sua missione storica. Concludendo, chiunque associ la nozione di socialismo ad una forma qualsivoglia di liberalismo, democratismo, aziendismo, localismo, pluripartitismo o, peggio, antipartitismo, come facevano in vario modo le correnti "antirusse" sviluppatesi in seno al movimento operaio per effetto della bieca controrivoluzione borghese stalinista, si mette da sé fuori dalla storia, fuori dalla via che porta alla ricostituzione del Partito e dell’Internazionale totalitariamente comunisti. Ritorno all’internazionalismo Dal 1848, cioè dall’apparizione di quello che non a caso si intitola, senza specificazioni nazionali, il Manifesto del Partito Comunista, il comunismo e la lotta per la trasformazione rivoluzionaria della società sono per definizione internazionale ed internazionalisti: «Gli operai non hanno patria»; «L’azione unita almeno nei paesi civili è una delle prime condizioni dell’emancipazione del proletariato». All’atto della sua costituzione nel 1864, l’Associazione Internazionale dei Lavoratori iscrisse nei suoi statuti generali il riconoscimento che «tutti gli sforzi per raggiungere il grande fine dell’emancipazione economica della classe operaia sono finora falliti per la mancanza di solidarietà tra le molteplici categorie di operai in ogni paese e per l’assenza di una unione fraterna fra le classi operaie dei diversi paesi» e proclamò con forza «che l’emancipazione degli operai non è un problema locale né nazionale, ma un problema sociale che abbraccia tutti i paesi in cui esiste la società moderna e la cui soluzione dipende dalla collaborazione pratica e teorica dei paesi più evoluti». Nel 1920 l’Internazionale Comunista, nata dalla lunga lotta della sinistra internazionalista mondiale per la trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile, sia nella più democratica delle repubbliche sia nel più autocratico degli imperi o nella più costituzionale e parlamentare delle monarchie, riprese e fece propri gli statuti della Prima internazionale. Proclamò che «la nuova Internazionale dei Lavoratori è costituita per l’organizzazione di azioni comuni dei proletari dei diversi paesi che mirano all’unico fine dell’abbattimento del capitalismo, l’instaurazione della dittatura del proletariato e di una repubblica internazionale dei Soviet per la completa eliminazione delle classi e per la realizzazione del socialismo, questo primo stadio della società comunista» aggiungendo che «l’apparato organizzativo dell’Internazionale Comunista deve assicurare agli operai di ogni paese la possibilità di ricevere in ogni momento il maggior aiuto possibile dai proletari organizzati degli altri paesi». Il filo di questa grande tradizione è stato rotto nel primo interguerra dall’azione congiunta della teoria e della prassi del "socialismo in un solo paese" e della sostituzione della lotta per la democrazia contro il fascismo alla lotta per la dittatura proletaria. La prima direttiva ha svincolato le sorti della rivoluzione vittoriosa in Russia da quelle del movimento rivoluzionario proletario in tutto il mondo, condizionando gli sviluppi di quest’ultimo ai mutevoli interessi diplomatici e di potenza dello Stato sovietico. La seconda, dividendo il mondo in paesi fascisti e democratici, ordinando ai proletari inquadrati nei regimi totalitari di battersi contro il loro governo non per la conquista rivoluzionaria del potere ma per la restaurazione degli istituti democratici e parlamentari, e ai proletari inquadrati nei regimi democratici di difendere i propri governi e, se necessario, scendere per essi in guerra contro i propri fratelli dall’altra parte della frontiera, ha legato il destino della classe operaia a quello delle rispettive "patrie" e dei loro istituti borghesi. La dissoluzione dell’Internazionale Comunista nel corso della seconda guerra mondiale fu la logica risultante di questo capovolgimento di dottrina, di strategia e di tattica. Dal nuovo massacro imperialistico uscirono nell’Europa orientale degli Stati che si dicevano socialisti, ma che proclamavano e difendevano rabbiosamente la propria "sovranità" nazionale; che si dicevano fratelli, ma erano isolati da frontiere gelosamente custodite; che si dicevano membri di un "campo socialista", ma erano divisi da contrasti economici per risolvere i quali, allorché essi raggiungevano un punto di estrema tensione, non restava che l’impiego della bruta forza (Ungheria, Cecoslovacchia) o che, dove l’intervento militare non era possibile, davano luogo a lacerazioni profonde come nel caso della Cina e della Iugoslavia. A loro volta i partiti non ancora giunti al "potere" rivendicavano il possesso di una propria "via nazionale al socialismo" (che poi era per tutti un’unica via di abiura della rivoluzione e della dittatura proletaria e di completa adesione all’ideologia democratica, parlamentare e riformista) e si presentavano, in un’orgogliosa difesa della propria autonomia dagli altri partiti "fratelli", come gli eredi delle più pure tradizioni politiche e patriottiche delle rispettive borghesie, pronti a raccogliere – nella frase di Stalin – la bandiera che queste si erano lasciate cadere di mano. Già allora l’internazionalismo era stato ridotto ad una frase ancor più vuota e retorica della parola dell’"affratellamento internazionale dei popoli" che Marx nella Critica al programma di Gotha violentemente rinfacciava al Partito Operaio tedesco come «presa a prestito dalla lega borghese per la libertà e per la pace». Nessuna solidarietà internazionale era possibile – e nessuna effettiva solidarietà internazionale si è infatti mai più verificata neppure in momenti di alta tensione sociale (scioperi di minatori in Belgio, di portuali in Inghilterra, rivolte di proletari negri dell’industria automobilistica americana, sciopero generale francese 1968, ecc.) – da quando si proclamò che ogni proletariato e partito "comunista" avevano da risolvere, e erano i soli "competenti a risolvere", i loro particolari problemi, e ciascuno di essi si eresse, nel proprio angolino "privato", a difensore delle istituzioni e tradizioni patrie, dell’economia nazionale, e addirittura dei "sacri confini". A che pro’, del resto, un internazionalismo non a parole ma "di fatto" (Lenin) se il messaggio dei "partiti nuovi" al mondo era quello della coesistenza pacifica e della gara emulativa fra capitalismo e "socialismo"? Il movimento proletario rinascerà nella pienezza dei suoi connotati storici alla sola condizione di riconoscere che unica è in qualunque paese la via della sua emancipazione, e unico dev’essere – nella dottrina, nei principi, nel programma, nelle norme pratiche di azione – il suo partito, non ibrido incontro di programmi disordinatamente discordanti «ma superamento sicuro ed organico di tutte le particolari spinte destate dall’interesse di gruppi proletari, distinti per categorie professionali e per appartenenze nazionali, in una forza sintetica agente nel senso della rivoluzione mondiale» (Piattaforma politica del Partito, 1945). * * * L’abdicazione del movimento comunista ai suoi compiti rivoluzionari internazionali si rispecchiò altrettanto crudamente nel completo e vergognoso abbandono della classica posizione del marxismo di fronte alle lotte insurrezionali dei popoli coloniali contro l’oppressione imperialistica, lotte che nel secondo dopoguerra avevano assunto aspetti di estrema violenza nell’atto in cui il proletariato delle metropoli imperialistiche veniva codardamente aggiogato al carro della "ricostruzione" borghese. Di fronte alle lotte armate dei popoli coloniali che già nel primo dopoguerra squassavano l’imperialismo, nel 1920 il secondo congresso dell’Internazionale Comunista e il primo congresso dei Popoli d’Oriente delineavano la grandiosa prospettiva di una strategia mondiale unica che saldasse il disfattismo dell’insurrezione sociale nelle metropoli capitalistiche alla rivolta nazionale nelle colonie e semicolonie. Questa rivolta, politicamente diretta dalle giovani borghesie coloniali, perseguiva bensì l’obiettivo borghese dell’unità e dell’indipendenza nazionale, ma, in una congiuntura politica che «mette all’ordine del giorno in tutto il mondo la dittatura del proletariato» (Lenin), da un lato, l’intervento attivo nella lotta dei giovani partiti comunisti politicamente e organizzativamente indipendenti alla testa di gigantesche masse operaie e contadine, dall’altro, l’offensiva del proletariato metropolitano contro le cittadelle del colonialismo, avrebbero reso possibili lo scavalcamento dei partiti nazionalrivoluzionari e la trasformazione di rivoluzioni originariamente borghesi in rivoluzioni proletarie, secondo lo schema della rivoluzione in permanenza tracciato da Marx e attuato dai bolscevichi nella semifeudale Russia del 1917. L’asse di questa strategia era e non poteva non essere il proletariato rivoluzionario dei paesi "più civili", cioè economicamente più avanzati, perché la loro vittoria ed essa sola avrebbe consentito ai paesi economicamente retrogradi del mondo coloniale di superare l’handicap storico della loro arretratezza: padrone in Occidente del potere e dei mezzi di produzione, il proletariato metropolitano ne avrebbe resa partecipe l’economia delle ex colonie mediante un "piano economico mondiale" che, unitario come quello cui già tende il capitalismo, non avrebbe, diversamente da questo, voluto nessuna oppressione o conquista, nessuno sterminio o sfruttamento; e i popoli coloniali, grazie alla «subordinazione degli interessi immediati dei paesi rivoluzionariamente vittoriosi agli interessi generali della rivoluzione in tutto il mondo», sarebbero giunti al socialismo senza dover passare attraverso gli orrori di una fase capitalistica tanto più feroce quanto più costretta a bruciare le tappe per portarsi a livello con le economie più evolute. Nulla di questo poderoso edificio è stato lasciato in piedi dall’opportunismo, fin dagli anni 1926-27 in cui si giocarono le sorti della rivoluzione cinese. Nelle colonie, i partiti sedicenti comunisti, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, lungi dal «mettersi alla testa delle masse sfruttate» per accelerarne il distacco dal blocco informe di più classi costituitosi sotto la bandiera dell’indipendenza nazionale, si sono messi a rimorchio della borghesia indigena e perfino di classi e potentati feudali "antimperialisti" o, quando hanno preso il potere, hanno rivendicato il programma politico della democrazia costituzionale, parlamentare e pluripartitica "dimenticandosi" di «mettere in primo piano la questione della proprietà» e di procedere almeno alla confisca senza indennità delle immense terre dei proprietari fondiari (vitalmente legati alla borghesia commerciale e industriale e, per il suo tramite, allo stesso imperialismo), mai ponendo il giovane ma agguerrito e concentratissimo proletariato locale all’avanguardia delle masse contadine e semiproletarie, viventi da secoli in una abietta miseria, per scrollare insieme il giogo del capitale. Nelle metropoli imperialistiche, d’altra parte, essi avevano abiurato i principi della rivoluzione violenta e della dittatura proletaria e, caduti ancora più in basso dei riformisti della Seconda Internazionale, si sono limitati, in Francia durante l’ultima parte della guerra di indipendenza algerina come in America durante la guerra nel Vietnam, a invocare "pace" e "trattative", e a chiedere ai rispettivi governi quel «riconoscimento formale e puramente ufficiale della uguaglianza e indipendenza» delle giovani nazioni che la Terza Internazionale aveva bollato a fuoco come ipocrita parola d’ordine dei «democratici borghesi che si camuffano da socialisti». La conseguenza di questo completo smarrimento della prospettiva marxista delle doppie rivoluzioni è stata ed è che le gigantesche potenzialità rivoluzionarie racchiuse in moti grandiosi e spesso cruenti, il cui onere è stato sempre e soltanto sopportato da milioni di proletari e contadini poveri, sono andate sprecate: nei paesi formalmente indipendenti, sono oggi al potere delle borghesie avide, corrotte e succhione, tanto più disposte a riallearsi con il "nemico" di ieri, l’imperialismo, quanto più coscienti della minaccia che sale dalle masse sfruttate delle città e delle campagne; mentre il capitale non scalfito nelle ex metropoli rientra nelle terre, dalle quali era stato ignominiosamente costretto a levare i tacchi, attraverso gli "aiuti", i prestiti e il commercio delle materie prime e dei prodotti finiti. Nello stesso tempo la paralisi del movimento rivoluzionario proletario e comunista nelle cittadelle dell’imperialismo dava una parvenza di giustificazione storica alle degeneri teorie maoiste, castriste e guevariane, che additavano in fantomatiche rivoluzioni contadine, popolari o libertarie l’unica possibile via di uscita dalla palude mondiale del riformismo legalitario e pacifista. A tanto ha portato e doveva portare l’abbandono della via maestra dell’internazionalismo. Ma come, rinnegato dai partiti che si richiamavano a Mosca o a Pechino, l’internazionalismo è destinato a risorgere perché radicato nei fatti di un’economia e di un regime di scambi sempre più mondiali, così la fine dell’ipoteca nazionale, che nelle colonie cementava il fronte unito di tutte le classi, la loro industrializzazione forzata, la rapida trasformazione delle loro strutture politiche e sociali, non possono non rimettere dovunque all’ordine del giorno la questione della guerra di classe e della dittatura proletaria, e additano fin da oggi al Partito Comunista Internazionale il compito di aiutare la giovane classe operaia autoctona del cosiddetto Terzo Mondo a scindere definitivamente il proprio destino dagli strati sociali al potere, e a prendere il posto che si è duramente conquistato nell’esercito mondiale della rivoluzione comunista. international-communist-party.org/ItalianPublications.htm
Posted on: Sat, 07 Sep 2013 14:58:03 +0000

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