STORIA DELLA CHIESA Medioevale III PARTE: Giustiniano 7 - TopicsExpress



          

STORIA DELLA CHIESA Medioevale III PARTE: Giustiniano 7 aprile 529 viene pubblicato il Codice Giustinianeo o Corpus Juris Civilis, che verrà ampliato nel 534 ed è quello che ci è giunto. Della circa 500 leggi giunteci, 90 riguardano la Chiesa, la sua amministrazione, i suoi chierici e i suoi monaci. Per l’elezione di un vescovo, il clero e il popolo (dal 546 solo i notabili) propongono tre nomi e la scelta finale spetta al patriarca, al metropolita o ai vescovi di tutta la provincia, ma, in pratica, molto spesso ratificano la scelta dell’imperatore. Le qualità richieste al vescovo sono: retta fede, vita onesta, pratica delle virtù, avere almeno trentacinque anni, non essere curiale, non avere moglie, figli o nipoti, se sposati separarsi dalla moglie (il timore è che i figli dei chierici sottraggano beni ecclesiastici). Non si deve passare da una sede all’altra. I vescovi hanno competenza sulla protezione dei trovatelli, dei malati di mente, dei minori e delle donne. Possono visitare le prigioni pubbliche, denunciare gli abusi e liberare che si trova in prigioni private. Sono a capo dell’amministrazione finanziaria delle città e di controllare i governatori delle province; la loro giurisdizione può pesino estendersi su questi ultimi se i loro amministrati intentano loro dei processi. I tribunali laici non hanno più giurisdizione su monaci e chierici, almeno per la prima istanza; le sentenze pronunciate contro ecclesiastici diventano esecutive se ridotti allo stato laicale. Sacerdoti, diaconi e suddiaconi possono essere sposati una sola volta, ma non possono risposarsi o sposarsi dopo l’ordinazione; le seconde nozze sono concesse ai lettori. Le diaconesse non possono diventarlo prima dei cinquant’anni, devono essere vergini o vedove di un solo marito e non posso risposarsi, pena la morte di entrambi. Viene proibito ai chierici lasciare il proprio stato. Si cerca di limitare il loro numero, specialmente a Costantinopoli. Una intera Novella (Nov. 5) regolamenta l’intera vita di monaci, molto lodati: si possono fondare monasteri solo con l’approvazione del vescovo, a ciascun monaco viene richiesto un periodo di prova di tre anni, il modo di vita comunitario è l’unico autorizzato e di preferenza all’interno di un edificio unico, è proibito abbandonare la vita monastica, sotto la pena, al secondo tentativo, di essere arruolato nell’esercito. Molte altre leggi entrano nel dettaglio toccando l’amministrazione e la sorveglianza dei monasteri, il potere dell’igumeno, l’ordinazione dei monaci. Giustiniano legifera anche sui beni ecclesiastici, che è proibito vendere e sul diritto di asilo delle chiese, che viene notevolmente limitato. Fedele alla tradizione secondo la quale l’imperatore cristiano ha il dovere di diffondere la fede cristiana, Copyright © 2008 spiritualitacristiana.it anzi di imporla, poiché questo è l’unico mezzo per assicurare l’unità e la prosperità dell’impero, diversi editti assimilano i pagani, ancora presenti in tutte le fasce della società, ai peggiori eretici: viene loro tolto il diritto di esercitare funzioni civili e militari, quello di ereditare o di trasmettere i propri beni in eredità a non cristiani, quello i testimoniare in giudizio contro cristiani, quello di avere degli schiavi cristiani, perfino quello di compiere qualsiasi atto legale. Un editto del 529 impone ai pagani di farsi istruire sulla fede cristiana e di farsi battezzare, sotto la pena dell’esilio la confisca dei beni; se trovati, una volta battezzati, a praticare clandestinamente il paganesimo, devono essere giustiziati. Inoltre si proibisce l’insegnamento a pagani, che non hanno più diritto alla pensione pubblica: la conseguenza fu la chiusura della scuola filosofica di Atene. La scuola filosofica di Alessandria, invece, si cristianizzerà lentamente e sopravviverà fino alla conquista araba. Astrologi e maghi divengono oggetto di repressione e di violente aggressioni popolari. Anche se la cristianizzazione non è profonda, l’opinione pubblica dell’impero, soprattutto nella capitale, è ormai ciecamente attaccata alla religione ufficiale. Dall’altra parte, Giustiniano si preoccupa di inviare dei missionari nelle regioni dell’impero rimaste ancora pagane, come in Asia, nella Caria, in Frigia e nella Lidia. Favorisce la conversione al cristianesimo dei popoli estranei all’impero, facendone poi degli alleati: è il padrino del re degli Eruli stanziatisi sul Danubio. Giustiniano mantiene una parvenza di tolleranza nei confronti dei Giudei, che restavano liberi, con molte limitazioni, di praticare i loro culti; tuttavia, li assimilò agli eretici. Legifera anche sui loro culti, proibendo, ad esempio, di celebrare la Pesach se questa cade prima di quella cristiana, raccomandando di leggere nelle sinagoghe la Torah gli altri libri nella versione greca dei Settanta, proibendo l’esegesi talmudica, minacciando pene severe per chi non creda alle dottrine dell’Antico Testamento sulla risurrezione, il giudizio e gli angeli. I Samaritani, invece, sono assimilati a pagani e non godono di alcuna tolleranza. Quanto agli eretici «il loro nome dovrebbe essere cancellato dalla faccia della terra (…) chiunque non appartiene alla Chiesa cattolica e ortodossa e alla nostra santa fede» viene escluso dalle funzioni civili e militari, non può fare testamento, né ereditare, né testimoniare in giudizio; non può avere un luogo di culto, né esercitare un qualsiasi atto cultuale. Ma anziché ripercuotersi contro gli oppositori di Calcedonia, queste leggi si ritorcono contro i gruppi ereticali meno numerosi e minoritari. Durante il regno di Giustiniano, il problema cristologico sarà affrontato in maniera differente da quello della semplice ricezione o non ricezione di Calcedonia. Ciò dipese in parte dall’imperatore stesso, che ha constatato il fallimento di questa politica, in parte anche da Teodora, simpatizzante monofisita, che, per politica e per convinzione, non cessa di proteggere i monofisiti. Inoltre, Giustiniano ha il gusto della discussione teologica. 532 Per ristabilire l’unità fra i calcedonesi e le varie sette monofisite, Giustiniano convoca una conferenza nel palazzo di Ormisda a Costantinopoli. Per tre giorni essa raduna cinque vescovi calcedonesi e sei o sette monofisiti, assistiti da monaci e sacerdoti, dibatterono sul piano teologico. 533 Giustiniano pubblica due editti dogmatici che, pur senza citare alcun concilio ed evitando di parlare di una o due nature, sottolinea l’unità della persona di Cristo. Condanna, tra l’altro, coloro che rifiutano di dire che «Nostro Signore Gesù Cristo, figlio di Dio e nostro Dio, incarnato e appeso alla croce, è uno della santa e consustanziale Trinità». Condanna, inoltre, i nestoriani, che dividono l’unico Signore e Copyright © 2008 spiritualitacristiana.it non ammettono che la Vergine sia realmente madre di Dio, e i monofisiti estremisti, che negano che il Cristo sia consustanziale a noi secondo l’umanità: cerca una formula equilibrata che accolga il maggior numero di consensi. Papa Giovanni II approva gli editti. Ma i monofisiti, nel novembre, grazie alla crescente simpatia che ottengono nella capitale, sobillano i Verdi, che montano una imponente manifestazione popolare contro il concilio di Calcedonia. 535 Sotto l’influenza di Teodora vengono eletti Teodosio ad Alessandria e Antimo a Costantinopoli, entrambi monofisiti. Il partito calcedonese si allarma e cerca di far sottoscrivere ad Antimo una professione di fede ortodossa. Allora chiedono l’intervento di papa Agapito. Nell’ottobre il pontefice invia un’ambasceria di cinque vescovi e due diaconi poi, a dicembre, si mette in viaggio per Costantinopoli, non spontaneamente, ma costretto dal e goto Teodato, per andare a chiedere a Giustiniano di ritirare le truppe bizantine dalla Sicilia (cosa che non ottiene). febbraio 536 Agapito rifiuta di entrare in comunione con Antimo, il quale depone il pallium, simbolo della sua dignità, sull’altare alla presenza dell’imperatore stesso e si ritira a condurre vita ascetica. Giustiniano non vuole la rottura con il papa proprio nel momento in cui inizia la riconquista dell’Italia. Il nuovo patriarca di Costantinopoli, Mena, è ordinato da Agapito e firma la professione di fede accettata dal papa; inoltre, Agapito condanna Antimo e lo sospende da qualsiasi funzione sacerdotale, cosa confermata dall’imperatore con un editto. Con l’appoggio dei monaci di Costantinopoli, chiede la convocazione di un concilio da tenersi sotto la sua direzione, ma si ammala e il 22 aprile muore. Il 2 maggio si apre sotto la direzione di Giustiniano il concilio che vede la presenza dei vescovi che soggiornano a Costantinopoli, fra i quali alcuni vescovi del seguito di Agapito, i patriarchi di Antiochia e Gerusalemme e diversi metropoliti, cosa che diede il carattere di concilio ecumenico; anche i monaci sono numerosi. Le prime tre sessioni sono dedicate all’invio di convocazioni ad Antimo e alla lettura delle dei rapporti negativi delle delegazioni mandate alla sua ricerca. Nella quarta del 21 maggio Antimo viene scomunicato e deposto dall’episcopato per essersi impadronito contro i canoni della sede di Costantinopoli (era già vescovo di Trebisonda), per essere un discepolo di Eutiche (due nature prima dell’incarnazione, una dopo) e di essersi sottratto alle procedure canoniche. Dopo di ciò, i rappresentanti dei monasteri palestinesi denunciarono Severo di Antiochia, Pietro di Apamea e l’archimandrita Zoara, che sono anch’essi condannati. Nell’ultima sessione del 4 giugno il concilio ribadisce la sua adesione ai quattro concili e al Tomus di Leone. Ciò viene confermato da una costituzione imperiale, in cui, tra l’altro, si prevede l’allontanamento di Antimo, di Severo e dei loro seguaci da tutte le grandi città dell’impero; inoltre, ordina di bruciare tutti gli scritti di Severo e ne proibisce il possesso. Giustiniano intraprende una campagna di repressione dei monofisiti; ma Teodora continua a proteggerli. marzo 537 Vigilio sale al soglio pontificio con l’appoggio imperiale,dopo l’arbitrari deposizione del predecessore Silverio. Durante il suo soggiorno a Costantinopoli Vigilio avrebbe promesso a Teodora, in cambio del suo sostegno per essere eletto papa, di favorire i suoi progetti: annullare le decisioni di Calcedonia e ristabilire la comunione con Severo e Antimo e confermare la loro ortodossia con una lettera. Ma viene eletto Silverio che non accetta di reintegrare nella sede di Costantinopoli Antimo. Teodora comanda a Belisario di arrestare il papa con l’accusa di aver promesso a Vitige re dei Goti che assedia Roma di aprirgli una porta presso il Laterano per farlo entrare. Viene spogliato del pallium e mandato in esilio nella Licia. Poco dopo viene rimandato in Italia dove il suo successore lo esilia a Palamaria, una delle isole Ponziane. In una lettera segreta inviata a Teodora, Vigilio condanna il Tomus di Leone; questo, però, non gli impedisce, in una lettera ossequiosa indirizzata a Giustiniano nel 540, di sottoscrivere l’editto del 536. gennaio 543 una sommossa scoppia tra monaci della Grande Laura di San Saba a pochi chilometri da Gerusalemme: gli origenisti {seguaci delle dottrine condannate di Origene (184-252): la sua esegesi allegorica [specialmente l’applicazione che ne fa nei capitoli del Genesi sul paradiso], la sua cosmologia [la preesistenza delle anime, o piuttosto la prima creazione di nature che sono intelligibili, la seconda creazione dei corpi e dei mondi, la discesa delle anime nei corpi], la sua escatologia [il corpo risuscitato che non è più un corpo carnale e che ha un’anima sferica, la salvezza stessa dei demoni], infine la sua cristologia [il subordinazionismo (rappresentazione del Figlio o Logos come mediatore, cui rendeva testimonianza Dio-Padre nella creazione e nella rivelazione: questa interpretazione del Logos basata sulla sua funzione implica una certa subordinazione) e l’idea di un’anima preesistente del Cristo]} vengono espulsi e tentano un’azione di vendetta contro il loro monastero, ma fallisce per un temporale. I monaci antiorigenisti chiedono la condanna dei loro avversari e conquistano alla loro causa l’apocrisario papale (rappresentante o incaricato d’affari), Pelagio, e tramite lui, l’imperatore. Giustiniano emana un editto contro Origene, in cui si condannano il subordinazionismo, l’economia della salvezza (preesistenza delle anime, in particolare quella di Cristo, trasmigrazione delle anime, forma sferica del corpo risuscitato, apocatastasi o restaurazione universale, che implica la salvezza di tutti, anche dei demoni). L’editto fu ratificato dal sinodo permanente, dai patriarchi orientali e da papa Vigilio. Anche Teodoro Askida, monaco segretamente filomonofisita, consulente teologico di Giustiniano (uomo di Teodora) lo firma, ma sostiene i monaci origenisti. L’intento di Giustiniano è conquistare i monofisiti. Nel 543 è pubblicato un trattato che attacca Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Cirro e Ibas di Edessa, tutti provenienti dalla scuola di Antiochia e detestati dai monofisiti. 544 – 545 nonostante la viva riluttanza degli occidentali, Giustiniano vuole arrivare a pronunciare tre condanne contro di loro, tre anatematismi (o kephalaia, da cui il termine latino capitula e il nome Tre Capitoli dato a questa questione). Giustiniano pubblica un editto su consiglio di Teodoro Askida, forte del fatto che il diacono Pelagio, suo oppositore, è rientrato a Roma: vengono condannate la persona e le opere di Teodoro di Mopsuestia, ritenuto il padre del nestorianesimo, gli scritti contro Cirillo di Teodoreto di Cirro e la lettera di Ibas di Edessa al vescovo persiano Maris, tutto questo per guadagnare l’assenso dei monofisiti.. Attaccando Teodoro di Mopsuestia e gli altri tre e accusandoli di essere nestoriani, significa condannare i principali accusatori di Origene a Calcedonia. In una lettera indirizzata al sinodo il lirico, l’imperatore scrive che l’editto non rifiuta Calcedonia, ma il suo mantenimento. I vescovi orientali sono costretti a firmare l’editto. Papa Vigilio, pur senza respingere apertamente l’editto, non lo firma, anche sostenuto dal clero romano. Giustiniano, che ha appena riconquistato l’Italia e considera il papa suddito di Bisanzio, considera questo rifiuto come un atto di disobbedienza. Il 22 dicembre 545 fa prelevare dai soldati bizantini il papa con la scusa di sottrarlo a Totila che sta assediando Roma. Giunto in Sicilia fu “custodito”; qui gli arrivano da moltissimi vescovi, anche orientali, pressanti inviti a non cedere a Giustiniano e a non firmare l’editto. Vigilio scomunica tutti i firmatari dell’editto, patriarca Mena compreso. 25 gennaio 547 Vigilio arriva a Costantinopoli. Pressato forse anche con violenze e minacce dall’imperatore e dal suo entourage, il 29 giugno 547 si riconcilia con Mena. Pare che in questo momento egli consegnasse all’imperatore e all’imperatrice alcune note segrete, lette più tardi al V con­cilio ecumenico, nelle quali, pur rimanendo fedele al simbolo di Calcedonia, prometteva di condannare i Tre Capitoli. Avendo Giustiniano insistito presso di lui perché firmasse il suo editto, il papa rifiutò energicamente, intendendo rimanere giudice supremo nelle controversie; tuttavia quelle lettere segrete avrebbero avuto lo scopo di rassicurare l’imperatore sull’esito della discussione. aprile 548 prima di pronunciare la sua sentenza, Vigilio riunì per una confe­renza i settanta vescovi presenti a Costantinopoli che non avevano firmato l’editto. Si tennero due sedute dirette dal papa. Facondo, che aveva già cominciato a scrivere il trattato Pro accensione III Capitulorum, si offerse di provare che la lettera di Iba era stata ricevuta dal concilio di Calcedonia. Il papa interruppe allora le discussioni e chiese a ciascun vescovo di metter per scritto il proprio parere. Intanto gli emissari dell’imperatore si diedero a convincere isola­tamente i vescovi e ne ottennero lettere conformi ai desideri di Giustiniano. Facondo dichiarò che il magister officiorum aveva con­cesso loro soltanto sette giorni, dei quali due festivi, per redigere la risposta. Portate a palazzo tutte le risposte, Vigilio scrisse la sua sentenza, o Judicatum, che inviò al patriarca Mena il sabato santo, 11 aprile 548. Questo atto è conosciuto soltanto dai frammenti citati in una lettera di Giustiniano e in un atto posteriore di Vigilio, il Constitutum: il papa vi condannava i Tre Capitoli, ma con gravi riserve, miranti a lasciare intatta l’autorità del concilio di Calcedonia. Contrariamente alle speranze di papa Vigilio, il Judicatum, lungi dal ricondurre la pace, fu male accolto sia dai suoi familiari come da tutto l’Occidente. La morte di Teodora (29 giugno 548) non fece che confermare i vescovi nella loro opposizione. In questo momento appunto, Facondo pubblicò quella Difesa dei Tre Capitoli che invano aveva cercato di far approvare da Giustiniano; il che dimostra, da parte sua, una certa ingenuità, poiché egli vi criticava acerbamente l’intrusione del potere imperiale nel campo della fede. Le proteste contro il Judicatum si moltiplicarono in Italia, in Dalmazia, in Illiria, nell’Africa e persino in Gallia. La sentenza di papa Vigilio non era risparmiata neppure dagli stessi ecclesiastici del suo seguito, da suo nipote Rustico e da Sebastiano, i quali si posero in rapporto con due monaci africani, Lampridio e Felice, autori di libelli contro il Judicatum, e giunsero fino a recar pubblicamente affronto a Vigilio, nel giorno di Natale del 549, abbandonandolo mentre si recava a celebrar la Messa a Santa Sofia. Dopo averli rim­proverati, Vigilio finì col sospenderli, e con essi molti altri membri del clero romano, fino alla loro resipiscenza. Un abate africano, venuto a Costantinopoli per fomentare l’opposizione, fu scomu­nicato. Assai più grave però di queste individuali proteste fu una vera rivolta dei vescovi di Occidente contro il papa. I vescovi dell’Illirico, riuniti in concilio, deposero il metropolita di Justiniana Prima, che voleva far loro accettare il Judicatum. 28 ottobre 549 in Gallia, un concilio tenuto ad Orléans rinnovò la condanna contro Nestorio ed Eutiche. Aureliano, vescovo di Arles e vicario apostolico, in seguito alla voce che il papa avrebbe ritirato il Judicatum, mandò a Costantinopoli il chierico Anastasio ad attingere informazioni. Questi fece pervenire la lettera del suo vescovo al papa, il quale diede una rispo­sta molto guardinga. Anastasio, raggirato e trattenuto quasi a forza a Costantinopoli, al suo ritorno in Gallia divenne apologista dell’editto contro i Tre Capitoli. I vescovi d’Africa, poi, giunsero ancor più lontano e, sotto la presidenza di Reparato, vescovo di Cartagine, tennero un concilio in cui scomunicarono il papa, dichiarando che non avrebbero più comu­nicato con lui fino a che non avesse fatto penitenza. Di fronte a questa opposizione universale, Vigilio ottenne da Giustiniano il permesso di ritirare il suo Judicatum, col dimostrargli che i vescovi di Occidente, mal conoscendo le ragioni fatte valere. Dai teologi greci, avevano bisogno di essere illuminati, ed era perciò necessario convocare un concilio. Giustiniano si arrese a questi argo­menti, ma fece prestare giuramento al papa, sui chiodi della Passione e sui quattro Evangeli, alla presenza di vescovi e dignitari, che si sarebbe adoperato con tutto il suo potere per far condannare i Tre Capitoli; fu pure convenuto di non parlare più della questione prima della convocazione del concilio. Prima che il concilio si radunasse, Giustiniano ordinò al sinodo provinciale della Cilicia Seconda di fare un’inchiesta a Mopsuestia circa la venerazione di cui Teodoro fosse eventualmente stato oggetto, affine di poter rispondere alle obiezioni di coloro che trovavano inau­dita la condanna di un vescovo morto nella comunione della Chiesa. 17 giugno 550 il concilio si riunì a Mopsuestia e i testimoni citati a comparire dichiararono che il nome di Teodoro non era mai stato inserito nei dittici. D’altra parte, l’imperatore tentò di disarmare l’opposizione più pericolosa: quella dei vescovi d’Africa. 551 il vescovo di Cartagine, Reparato, cui era stato ingiunto di recarsi a Costantinopoli, vi arrivò verso la metà del 551, con parecchi altri vescovi. Malgrado tutte le pressioni, essi rifiutarono di condannare i Tre Capitoli; allora l’imperatore fece intentare un processo politico a Reparato, accusandolo di aver causato la morte del magister militum Areobindo, al quale, da parte del ribelle duca di Numidia, Gontarito, egli aveva portato un salvacondotto, che tuttavia non lo salvò dall’esser trucidato. Reparato fu deposto ed esiliato; il suo apocrisario, Primoso, divenne, per volere imperiale, vescovo di Cartagine; ma il suo arrivo nella città episcopale fu accolto da una sanguinosa sommossa. Altri vescovi africani cedettero, e i recalcitranti furono internati in monasteri. Un certo Mociano, scolastico — ariano convertito al cattolicesimo dopo la caduta dei Vandali, ed in grande favore presso Giustiniano e Teodoro Askida, — fu mandato in Africa ad aiutare le autorità civili nel reclutare per il concilio vescovi docili alla volontà imperiale. Contro di lui Facondo scrisse il trattato in cui denunziò i procedi­menti arbitrari della politica di Giustiniano. Questa politica non ebbe alcun successo nell’Illirico, i cui ve­scovi rifiutarono di recarsi al concilio. A sua volta, il patriarca di Alessandria, Zoilo, che, come si è visto, aveva ritirato la sua adesione all’editto contro i Tre Capitoli e si era rifugiato a Costantinopoli, resistette a tutte le istanze fattegli dall’imperatore perché ritornasse sulla sua decisione: fu deposto (luglio 551) e sostituito, nonostante tutti i canoni, da Apollinare che Vigilio dapprima rifiutò di ricono­scere, ma poi lo ammise nella sua comunione; Apollinare presiedette il concilio ecumenico come patriarca di Alessandria. Giustiniano, non contento di procurarsi in anticipo con ogni mezzo l’adesione dei futuri Padri del concilio, violando la promessa fatta al papa di astenersi da qualunque discussione prima della riunione del sinodo, pubblicò una Professione di fede, che venne appesa sotto forma di editto alla porta delle chiese e diffusa per tutto l’Impero. Premesso che l’imperatore, il patriarca ed il papa sono i custodi dell’ortodossia, egli afferma che, per mettere fine alle discor­die, intende esporre la retta fede per mezzo del suo editto. In esso richiama diffusamente le decisioni dei quattro concili ecumenici e formula tredici anatematismi, di cui gli ultimi tre riguardano i Tre Capitoli, e termina giustificandosi di attaccare i decreti del concilio di Calcedonia. Questa inaudita dichiarazione, che pregiudicava le conclusioni del concilio, ridotto alla condizione di ufficio di registra­zione, proveniva da un memoriale scritto da Giustiniano che non poté esimersi dal far leggere a parecchi vescovi, i quali lo diffusero tra il pubblico, malgrado le proteste del papa; Teodoro Askida indusse poi l’imperatore a trasformare questo documento in editto. II papa, benché incline alla conciliazione, non poteva accettare tale atto. Ai legati che vennero a portarglielo, con a capo Teodoro Askida, al palazzo di Placidia, egli rispose scongiurandoli di insi­stere presso l’imperatore affinché ritrattasse l’editto, e Dazio, vescovo di Milano, protestò a nome di tutti i vescovi della Gallia, della Liguria, dell’Emilia, e della Venezia. Ma, senza lasciarsi troppo com­muovere da tali proteste, Teodoro Askida, a maggior scherno del papa, si recò a celebrar la Messa proprio nella chiesa in cui si era allora affisso l’editto, e di sua autorità cancellò dai dittici il nome di Zoilo patriarca di Alessandria, per sostituirvi quello di Apollinare. Vigilio, tornato a Costantinopoli e sostenuto da Dazio e da Pelagio, ruppe ogni rapporto con il patriarca Mena, e fece pre­parare una sentenza di deposizione contro Askida e di scomunica temporanea contro tutti i firmatari dell’editto (metà di luglio del 551). Di fronte ad un simile atteggiamento, l’irritazione di Giustiniano fu tale che il papa, temendo di venir arrestato, abbandonò il palazzo di Placidia e si rifugiò con Dazio nella chiesa di San Pietro, nel palazzo di Ormisda. L’imperatore ordinò che ne fossero trascinati fuori; avvertito in tempo, Vigilio firmò la sentenza di deposizione di Askida e la consegnò ad un uomo fidato (17 agosto 551). All’arrivo dei soldati di polizia, che fecero irruzione nella chiesa con gli archi tesi, il papa e Dazio, protetti dai chierici romani, si strinsero contro l’altare, ma i difensori furono respinti o arrestati. Si assistette allora ad una scena incredibile: il papa si aggrappò ad una delle colonne che sostenevano l’altare, mentre gli sgherri cercavano di afferrarlo per la barba e per i piedi, tirandolo con tale violenza che la colonna si spezzò; e, se alcuni chierici non fossero accorsi a sostenere la santa mensa, il papa ne sarebbe rimasto schiacciato. Sconcertati ed inve­stiti dalle grida ostili della folla che riempiva la chiesa, gli sgherri, si ritirarono tra le urla. Fallito questo colpo di forza, Giustiniano provò con le minacce, ma anche queste rimasero senza effetto, ed egli dovette scendere a trattative. Belisario, accompagnato da tre consoli anziani, venne a giu­rare al papa che, se fosse rientrato nel palazzo di Placidia, non gli verrebbe fatto alcun male. Vigilio compilò una formula di giuramento, ma l’imperatore rifiutò di firmarla; invece i suoi commissari giurarono sulle reliquie. Vigilio ritornò al palazzo di Placidia; Dazio e gli altri chierici abbandonarono il loro rifugio. Tornati al palazzo di Placidia, Vigilio e Dazio furono in qualche modo segregati e subirono ogni sorta di vessazioni. Fu proibito agli ecclesiastici romani presenti a Costantinopoli di comunicare con loro; vennero privati dei propri servi, sostituendoli con gente che aveva per consegna di far loro affronti d’ogni genere. Notai pontifici, cor­rotti col denaro, fabbricarono false lettere di Vigilio, le quali furono inviate in Italia. Il palazzo di Placidia fu circondato di guardie e di spie. In questo tempo appunto (agosto-dicembre 551), alcuni chierici italiani, per rispondere a certe calunnie divulgate contro Vigilio in Occidente e smentire le false allegazioni dell’inviato del vescovo di Arles, Anastasio, consegnarono agli ambasciatori di Teodebaldo, re di Austrasia, venuti per trattare una alleanza contro i Goti, una lettera in cui esponevano tutte le peripezie della controversia dei Tre Capitoli; essa costituisce una delle principali fonti storielle su questi avvenimenti. La situazione divenne insostenibile, tanto che, nella notte del 23 dicembre 551, il papa fuggì dal palazzo di Placidia e salì su di una barca che lo attendeva alla spiaggia; sbarcato a Calcedonia, andò a rifugiarsi nella chiesa di Sant’Eufemia, che aveva servito di sede al IV concilio. Ivi fu raggiunto dal vescovo di Milano. Ben presto Vigilio cadde ammalato, e Verecondo, vescovo di Junca, morì nella chiesa stessa. 28 gennaio 552 Giustiniano mandò di nuovo Belisario dal papa, per invitarlo a tornare; ma Vigilio pose come condizione che l’imperatore rendesse anzitutto la pace alla Chiesa, ritirando il suo editto. Giustiniano il 31 gennaio rispose al papa con una lettera piena d’ingiurie, e neppure firmata. In seguito a questa lettera, Vigilio, che si aspettava nuove vio­lenze, redasse un’enciclica rivolta a tutto il mondo cristiano. In essa ricordava tutte le sevizie perpetrate contro di lui dall’agosto del 551 in poi, ed esponeva la sua fede conforme a quella dei quattro grandi concili, contemporaneamente pubblicava la sentenza di deposizione di Teodoro Askida, in data del 14 agosto 551, e scomunicava il pa­triarca Mena, come pure tutti i vescovi della sua obbedienza. Mentre stava per firmare questa enciclica, Vigilio ricevette un nuovo mes­saggio di Giustiniano, nel quale gli si chiedeva di fissare il giorno in cui i commissari imperiali potessero venirgli a promettere con giuramento ch’egli avrebbe potuto tornare in piena sicurezza al palazzo di Placidia. Il papa rispose che non avrebbe abbandonato Calcedonia senza prima aver ottenuto soddisfazione, ma propose di inviare all’imperatore il vescovo Dazio, il quale, dopo aver ottenuto con giuramento il necessario salvacondotto, gli avrebbe presentato le pro­teste del papa. Giustiniano manifestò il suo malcontento, facendo arrestare e segregare dieci vescovi italiani e due africani, e facendo strappare a viva forza dalla chiesa di Santa Eufemia i diaconi Pelagio e Tulliano. Vigilio rimase fermo e riuscì a fare affiggere le sue sen­tenze contro Teodoro Askida e Mena nei luoghi più frequentati di Costantinopoli. In seguito a questo atto audace, Giustiniano, al quale sembra stesse a cuore anzitutto la riunione del concilio e che non voleva romperla con la Sede apostolica, ordinò a tutti i vescovi e chierici colpiti dalle sentenze del papa di mandargli il loro atto di sotto­missione. In umilissime dichiarazioni, il patriarca Mena e Teodoro Askida riconoscevano i quattro concili ecumenici senza soppressioni od aggiunte, e chiedevano perdono al papa per avere avuto rapporti con degli scomunicati. Il papa, ottenuta soddisfazione, tornò a Costantinopoli. Quasi nello stesso momento morirono Dazio, arcivescovo di Milano, e il patriarca Mena: questi ebbe come successore Eutichio, monaco di Amasea nel Ponto, mandato dal suo vescovo come rappresentante al concilio.
Posted on: Tue, 22 Oct 2013 19:37:18 +0000

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