Scrive Ammar Bagdash, segretario del Partito – cosiddetto, ed è - TopicsExpress



          

Scrive Ammar Bagdash, segretario del Partito – cosiddetto, ed è già un eufemismo – Comunista Siriano: «Nell’analisi dei comunisti siriani le condizioni [della guerra civile] sono state create anche dalle contraddizioni create dalle misure liberiste in economia adottate intorno al 2005. Questa politica ha prodotto tre effetti negativi: un aumento della polarizzazione sociale; la crescita dell’emarginazione sociale nelle periferia di Damasco; il peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. Ciò ha favorito le forze reazionarie, come i Fratelli musulmani, che si sono appoggiati sul sottoproletariato, soprattutto rurale» (da Contropiano.org). Questo retroterra sociale del conflitto siriano è omogeneo un po’ a tutti i Paesi che a più riprese e con diverse modalità hanno conosciuto le cosiddette “Primavere arabe”: si tratta, in effetti, di un doloroso processo capitalistico di ristrutturazione sistemica volto a superare vecchissime magagne strutturali e istituzionali che rendono sempre più difficile l’esistenza di quei Paesi nel nuovo contesto regionale e mondiale creato dall’ultima ondata global. Gli analisti economici e politici parlano di «modernizzazione capitalistica», un processo sociale che in Medio Oriente e in Nord’Africa ha avuto un andamento assai irregolare e contraddittorio a causa di fattori di natura nazionale (divisioni interne alle classi dominanti dei Paesi di cui si tratta), regionale (forte rivalità fra le nazioni dell’area geopolitica in questione) e internazionale (sfruttamento imperialistico e retaggio del vecchio assetto coloniale). Si tenga presente che in Egitto nel 2004 Mubarak varò quelle «misure liberiste in economia» che generarono un vasto malcontento sociale e la reazione, prima sottotraccia e poi sempre più evidente e attiva, dell’esercito egiziano, assai interessato al mantenimento dello status quo. Appena un anno dopo, secondo le informazioni del nostro “comunista”, anche Assad vara un programma di «riforme strutturali» tese a dinamizzare un’economia sempre più asfittica e obsoleta. Come sempre e ovunque, le «riforme strutturali» creano tensioni sociali che alla fine trovano il modo di avere delle conseguenze politiche, e ciò tanto più se quelle «riforme» mettono in questione interessi materiali e politici molto radicati a tutti i livelli della gerarchia sociale. Che i Fratelli musulmani, in Siria come in Egitto, nuotino come pesci nella torbida acqua della miseria sociale ciò non deve stupire nessuno, mentre molto deve far riflettere chi si aspetta la nascita della coscienza rivoluzionaria, e magari la sua formalizzazione in partito politico, dal mero aggravamento dell’oppressione economica e politica ai danni delle “masse diseredate”. Purtroppo le cose sono un tantino più complesse, e la lezione iraniana del ’79, per rimanere nel quadrante geopolitico qui trattato, deve sempre ammonirci in questo senso. Naturalmente non ho ricette preconfezionate da vendere. «In Siria», dice Bagdash, «le forze reazionarie volevano ripetere quanto era accaduto in Egitto e Tunisia. Ma lì si trattava di due paesi filo-imperialisti. Nel caso della Siria era diverso». Perché mai diverso? La domanda è puramente retorica. Come si capirà tra poco. In effetti, qui si chiarisce la natura “comunista” del nostro amico siriano, il quale giudica imperialisti solo i Paesi occidentali, a iniziare naturalmente dal Grande Satana: gli Stati Uniti d’America, e a seguire dal Piccolo Satana (Israele), lunga mano dell’imperialismo americano in Medio Oriente. «In Siria, a differenza di Iraq e Libia, c’è sempre stata una forte alleanza nazionale. I comunisti collaborano con il governo dal 1966, ininterrottamente». E già solo questo fatto chiarisce, al di là di ogni ragionevole dubbio, quanto Bagdash c’entri con il comunismo: nulla. Magari ha molto a che fare con il nazionalismo, non so se di matrice panaraba, un veleno per le classi subalterne che è tale ormai a ogni latitudine del pianeta, perfino in quei rari posti in cui si pone ancora, peraltro in una forma sempre più residuale, una questione nazionale – è il caso della Palestina; ma con il comunismo… A meno che per “comunismo” non intendiamo riferirci a una fra le mille forme nazionali, una più miserabile dell’altra, che ha assunto lo stalinismo. In questo caso il nostro amico ritorna a essere comunista (senza virgolette!) e chi scrive rivendica con orgoglio l’etichetta di anticomunista viscerale. «La Siria non avrebbe potuto resistere contando solo sull’esercito. Ha retto perché ha potuto contare su una base popolare. Inoltre può contare sull’alleanza con l’Iran, la Cina, La Russia». Il tentativo di presentare la Siria alla stregua di un Paese in qualche modo “progressista” e antimperialista, e l’Iran, la Cina e la Russia come Paesi immacolati sul piano della contesa interimperialistica è quantomeno ridicola, e trova la sua unica legittimazione in quel Terzomondismo che, come ho più volte sostenuto, già negli anni Settanta non aveva più alcuna pregnanza storica e sociale in gran parte del pianeta, mentre bene esso si prestava come copertura politico-ideologica degli imperialismi concorrenti a quelli occidentali. «Dal nostro V Congresso abbiamo valutato l’Iran sulla base di come si rapporta all’imperialismo. La nostra parola d’ordine è per un Fronte Internazionale contro l’imperialismo». Qui per «imperialismo» s’intende appunto l’Occidente e tutti i Paesi che in qualche modo collaborano con gli Stati Uniti d’America. Che l’antiamericanismo non connoti affatto una posizione autenticamente internazionalista e antimperialista, mentre supporta benissimo gli appetiti di grandi e piccole potenze (nella fattispecie: l’Iran), non convincerà mai i teorici del «nemico principale», individuato sempre e immancabilmente nel Grande Satana a stelle e strisce. «Ci sono reazionari pro-imperialisti come i Fratelli musulmani e progressisti come Hezbollah o lo stesso Iran. Non sono un amante del modello iraniano ma sono nostri alleati nella lotta contro l’imperialismo». Questa griglia concettuale, a ben considerare, spiega anche il patto russo-tedesco del ’39: infatti, nella lotta contro l’imperialismo “maggiore” (gli anglo-americani) anche il nazismo poteva apparire come una forza autenticamente “progressista”. Poi, com’è noto, i nazisti tradirono la fiducia del Grande Stalin. Ma questa è – forse – un’altra storia, anche se a me appare la stessa ripugnante storia che il dominio sociale capitalistico non smette di scrivere anche ai nostri giorni, mutatis mutandis. La dialettica tra reazionari progressisti e reazionari «pro-imperialisti» è qualcosa che sfugge alla mia comprensione. D’altra parte, com’è noto, la mia indigenza in materia di dialettica materialistica è grande. Ma non me ne dispiaccio più di tanto, anche alla luce di certe analisi sociali e geopolitiche. Mi si lasci nell’indigenza, please! Anche se la popolarità del regime siriano avesse un minimo di fondamento, e non fosse un miserabile condimento propagandistico a uso dei massacratori di regime, i soggetti autenticamente rivoluzionari dovrebbero adoperarsi per mettere in crisi questa presunta popolarità, la quale testimonia, in Siria come ovunque nel mondo, l’impotenza sociale e politica dei dominati. Invece, con la scusa dell’unità nazionale antimperialista (sic!) certi personaggi che amano nascondersi dietro la barba dell’ubriacone di Treviri reiterano da decenni il loro escrementizio sostegno alle classi dominanti o a singole fazioni di esse. «La nostra è una lotta internazionalista». Quasi ci credo. Quasi. «Un esperto russo mi ha detto: “Il ruolo della Siria adesso assomiglia a quello della Spagna contro il fascismo”». Davvero un augurio di pace! Infatti, la guerra civile spagnola fu, com’è noto, il preludio e la prova generale della Seconda guerra mondiale. Questo al netto della fumisteria ideologica che allora accecò, in Spagna e altrove in Europa (ma anche negli Stati Uniti), tanti proletari e militanti politici che si mobilitarono a sostegno di interessi nazionali (in guisa monarchica o repubblicani, franchista o antifascista) e internazionali (Paesi fascisti versus Paesi democratici) reazionari. Comunque la si pensi sulla natura sociale della guerra civile spagnola (so di sostenere un punto di vista ultra minoritario anche su questo terreno), appare meschino il tentativo di riproporre lo schema spagnolo per spiegare il bagno di sangue siriano, i cui protagonisti nazionali (governativi e ribelli), regionali e internazionali congiurano contro la vita di uomini, donne, vecchi e bambini per conseguire obiettivi che niente hanno a che fare con il bene del «popolo», per non parlare degli interessi dei salariati urbani e contadini, sempre più negletti. Intanto abbiamo appreso che ai “comunisti” siriani piace chiacchierare con gli “esperti” russi, e forse anche con gli “esperti” cinesi, o venezuelani. Oltre che, s’intende, con gli “esperti” iraniani. La tattica “antimperialista” rende molto collaborativo il “comunista”. A proposito di guerra mondiale, ecco un’ottima analisi geopolitica firmata da Lucio Caracciolo: «In Siria si combatte la prima guerra mondiale locale. Mondiale perché vi sono coinvolte le massime potenze planetarie e regionali. Anzitutto, i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza. A supportare i ribelli che da due anni cercano di rovesciare il regime di Baššār al-Asad agiscono Francia, Gran Bretagna e, molto più tiepidi, Stati Uniti d’America; sul fronte opposto, la Russia è in prima linea, con la Cina, come d’abitudine, alquanto defilata. Poi, i principali attori regionali: Turchia, Qatar e Arabia Saudita guidano lo schieramento anti-Asad; Iran e affiliati libanesi (Hizbullāh) sono impegnati sul terreno a protezione del cliente di Damasco. Mentre Israele prepara contromisure nel caso il conflitto rompesse i modesti argini siriani per incendiare l’intero Levante. Certo, nessuno tra i cinque Grandi e le potenze mediorientali è finora coinvolto direttamente nel conflitto. Ma tutti vi sono a vario titolo invischiati: forze speciali occidentali e soprattutto iraniane; “brigate internazionali” jihadiste e hizbullāh; agenti d’influenza e mercenari d’ogni colore; copiose forniture d’armi – specie russe e arabe del Golfo; fiumi di denaro per tenere in piedi i combattenti impegnati su territori in macerie, sull’orlo della fame; soft power ovvero disinformazione, in cui eccellono le solite emittenti panarabe, Aljazeera (Doha) e al-Arabiya (Ryad) su tutte (Lucio Caracciolo, La perla di Lawrence, Limes, 4 marzo 2013 ). Siamo insomma dinanzi a una guerra ultrareazionaria da ogni parte la si guardi. Contro la guerra imperialista, a cominciare da quella che si dà come competizione economica (presupposto della contesa politico-militare tra le nazioni), le classi dominate hanno una sola carta da giocare: quella del disfattismo antinazionale, dell’autonomia di classe, della lotta contro la guerra e per migliori condizioni di vita e di lavoro. È questo il messaggio che, abbastanza velleitariamente, mi sento di lanciare alla moltitudine diseredata del Medio Oriente dal cuore del Capitalismo mondiale – mi riferisco all’Occidente genericamente inteso, non al Bel Paese, con rispetto parlando. «Ho incontrato recentemente il responsabile dell’Olp e mi ha detto “Se cade la Siria addio Palestina”». Questo la dice lunga sulla perdurante disgrazia del popolo palestinese, la cui leadership da sempre si muove alla coda delle potenze regionali, come d’altra parte oggi appare inevitabile considerati i rapporti di forza che nell’area mediorientale si sono cristallizzati negli ultimi sessantacinque anni. «La politica di Hafez al-Assad nei confronti della causa palestinese è stata sempre improntata al più freddo cinismo. La liberazione della Palestina è stata subordinata agli interessi nazionali siriani e in particolare alla salvaguardia del regime. Malgrado la retorica antisraeliana e gli appelli alla solidarietà panaraba, il regime ha sempre cercato di raggiungere una soluzione di compromesso basata sulle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU n. 242 del 1967 e n. 338 del 1973 (cessazione delle ostilità in cambio del ritiro israeliano dai territori occupati nel 1967). Inoltre, l’alleanza tattica con l’OLP o con questa o quella fazione palestinese ha sempre mirato a dominare la compagine politica palestinese per utilizzarla come carta negoziale nei confronti di Stati Uniti e Israele» (Fabur49, Sei luoghi comuni da sfatare, Sinistra Critica, 17 luglio 2013). Mi permetto di citarmi (Siria: un minimo sindacale di “internazionalismo”, 1 giugno 2012): «Come scriveva Paolo Maltese in un bel libro dei primi anni Novanta del secolo scorso, “È semplicistico e deviante ritenere che sia sufficiente risolvere la questione palestinese per portare la pace in Medio Oriente. Piuttosto essa è stata pure, col suo peso lacerante, utile come alibi per camuffare antagonismi e problemi interni del mondo arabo” (Nazionalismo Arabo Nazionalismo Ebraico, 1789-1992, Mursia, 1994). Assai illuminante è proprio il ruolo che ha avuto la Siria in questo sporco affare: “Nell’aprile 1971, Assad non solo proibì alle formazioni palestinesi presenti in Siria di lanciare attacchi contro Israele, ma obbligò pure le formazioni che dipendevano da al Saiqa, cioè il gruppo controllato dalla Siria, di abbandonare il paese per trasferirsi anche loro nel sud del libano … Quello di Assad fu dunque, anche, un calcolo proiettato sul futuro: attendere, e vedere che cosa poteva accadere in Libano, per poi cercare di approfittarne, come difatti farà, intervenendo dapprima per proteggere i falangisti cristiano-maroniti contro i palestinesi, e massacrando così questi ultimi, nel 1976, nel campo di Tall el Zaatar senza sollevare in Europa particolare scandalo, a differenza, invece, di quel che accadrà col massacro dei campi di sabra e Chatila ad opera dei falangisti alleati di Israele; e permettendo poi ai dissidenti filo-siriani dell’OLP di scacciare nell’83 da Tripoli i palestinesi di Arafat”. E sapete in che cosa si specializzarono questi “dissidenti filo-siriani”? Nel terrorizzare e massacrare altri palestinesi, quelli che non si mostravano troppo sensibili alla causa dell’imperialismo straccione della Siria: “All’interno del movimento palestinese – anche nella sinistra – c’è chi considera i contadini palestinesi costretti ad andare a lavorare in Israele traditori della causa palestinese, e usano le bombe negli autobus che trasportano i pendolari palestinesi” (Intervista a un militante del Fronte Democratico Palestinese, Combat, maggio 1986)». Per Bagdash «Non si può realizzare alcun progresso sociale, o la democrazia, se si è subalterni a forze esterne. La parola d’ordine è difendere la sovranità nazionale, e difendere le condizioni di vita». A mio modesto avviso non c’è salvezza per i dominati d’ogni parte del mondo fino a quando essi non romperanno la catena del patriottismo e non si renderanno autonomi dalla politica borghese, nelle diverse forme che essa può assumere nei diversi Paesi e nelle diverse circostanze.
Posted on: Sat, 20 Jul 2013 08:40:28 +0000

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