Segue... La responsabilità delle false notizie su via Rasella - TopicsExpress



          

Segue... La responsabilità delle false notizie su via Rasella trovò tuttavia un punto d’appoggio anche nella politica portata avanti dal PCI che, per legittimarsi come forza democratica in quanto partecipe della lotta di liberazione nazionale, rifiutò a lungo di riconoscere la resistenza come guerra civile, di parlare di una lotta fatta non solo di slanci eroici ma anche di momenti di oscura violenza, esaltando i combattenti che «hanno dato la vita per la libertà ed il loro sacrificio»,escludendo il fatto che i partigiani avessero a loro volta sparato, ucciso, fatto la guerra. Il senso comune antipartigiano nacque dunque anche grazie all’appropriazione del PCI del mito del secondo Risorgimento, una lettura della resistenza che ne oscurava gli elementi violenti. La lettura eroica della resistenza contribuì ad avvalorare la convinzione che le azioni partigiane fossero in netto contrasto con lo spirito di rinascita della patria che aveva animato i martiri e che i civili, coinvolti accidentalmente nelle azioni di guerriglia urbana, fossero solo le vittime di criminali e irresponsabili che mettevano bombe. Dunque lo studio delle stragi e dei crimini di guerra conduce lo storico non solo a comprendere la dinamica dell’eccidio nella sua fredda cronaca ma anche a considerare gli attori di quelle vicende (tedeschi, partigiani e popolazioni civili) e soprattutto quei processi di costruzione, messi in atto dalle autorità democratiche, di una memoria pubblica della resistenza, che trovarono nelle cerimonie ufficiali di commemorazione degli eccidi un «momento in cui riunire sotto un’unica veste istituzionale percorsi collettivi ed individuali, aspetti civili e religiosi della lettura e della rielaborazione del passato». Tutto ciò al fine di capire che per una più precisa collocazione delle stragi nella storia è quanto mai necessario ricostruire le […] strutture di potere, le logiche e i condizionamenti culturali che le resero possibili […] e l’evoluzione complessa della memoria dei sopravvissuti, le modalità con le quali la memoria comunitaria sia stata assunta dal paradigma antifascista dell’Italia repubblicana. L’immagine unitaria e patriottica della resistenza tuttavia mal si conciliò con l’esperienza delle comunità colpite da eventi luttuosi, lontane dalla Roma capitale del dopoguerra, con una memoria dei fatti distante dal modello laico-resistenziale, retorico patriottico, teso all’esaltazione della guerra partigiana: una memoria che potremmo definire diversa, fuori dal coro istituzionale, ufficiale ed ideologico ed esclusa dai riti collettivi commemorativi della Repubblica. Nel caso della strage delle Fosse Ardeatine assistiamo ad una memoria ufficiale, in cui le famiglie dei martiri sono perfettamente inserite, che celebra le vittime delle stragi come martiri della Resistenza e una memoria appartenente al resto della popolazione romana che infatuata dalla propaganda clericale moderata postbellica, attribuisce ai partigiani la responsabilità di aver causato la rappresaglia. A differenza delle altre comunità colpite dalle stragi come Civitella Val di Chiana, dove la strage intervenne a minacciare una condizione ancestrale della vita e del tempo quasi come un fattore naturale, dove la ferocia nazista fu concepita come una bestialità primitiva inevitabile, nel caso delle Ardeatine la memoria divisa e antipartigiana non appartenne ai familiari delle vittime ma al resto della comunità urbana, presa dai ritmi frenetici della ricostruzione e poco interessata a celebrare il ricordo dell’eccidio. Dunque mentre a proposito della strage di Civitella Val di Chiana siamo davanti ad una memoria antiresistenziale che aiutò le vedove della comunità a superare il lutto, dando loro una precisa identità e una funzione di trasmissione della storia nella comunità stessa, la memoria antipartigiana nata intorno alla strage delle Fosse Ardeatine, intesa come valutazione critica circa l’attentato gappista di via Rasella posto a precedente dell’eccidio, fu una costruzione politico-propagandistica delle forze moderate, clericali e anticomuniste, in una città sede dei governi centristi egemonizzati dalla DC, che utilizzarono la trasmissione del passato resistenziale come strumento della classe dirigente. Dal conflitto di due opposti schieramenti, dalla lotta tra le forze politiche moderate che esaltavano la resistenza quale fonte di un nuovo patriottismo e le forze di sinistra fedeli alla lotta di popolo per l’emancipazione sociale del paese, nacque la memoria della zona grigia, intesa come interpretazione passiva dei fatti storici. La strage delle Ardeatine con il suo valore emblematico concentrò tutta la conflittualità postbellica della nuova Italia liberata. Una sorta di sentimento antistituzionale si era già manifestato durante le prime cerimonie commemorative ma aveva dimostrato di avere un legame ideologico con le forze comuniste che avevano aizzato la folla dei familiari a scagliarsi contro la presenza della monarchia e delle alte cariche delle forze armate colluse col fascismo. Infatti la memoria antiufficiale era stata rappresentata da una minoranza di vedove appartenenti ai ceti popolari non ancora entrate a far parte dell’ANFIM, spesso parenti di partigiani e attivisti antifascisti che avevano sostenuto i loro cari nella lotta contro l’occupante tedesco. Fu il caso della vedova del tenore Nicola Ugo Stame, uno dei dirigenti del Movimento Comunista d’Italia trucidato alle Ardeatine, impegnata dopo la guerra a ricercare la verità sui responsabili di quel crimine: […]Mamma girava sempre dopo la guerra con Carla Capponi, erano diventate amiche perché mamma aveva le stesse idee di mio padre, le stesse che poi io ho condiviso nella mia vita. Mia madre non era stata solo la moglie di mio padre ma anche la sua compagna, aveva condiviso i suoi ideali, e aveva sostenuto la lotta partigiana. Era stata lei ad aver conservato e nascosto, dopo l’arresto di mio padre, una lista contenente tutti i membri dei reparti armati di Bandiera Rossa, circa 8000 nomi. Per questo dopo l’arresto di papà i tedeschi vennero a casa nostra, perché sapevano che lei aveva questa lista e volevano impossessarsene per eseguire altri arresti e distruggere tutta la rete clandestina, di cui mio padre era uno dei dirigenti. Tuttavia sebbene nell’immediato dopoguerra le famiglie che avevano sostenuto i loro cari scomparsi nella lotta partigiana dovettero scontrasti con coloro che erano convinti della colpevolezza dei GAP, prevalse nell’ANFIM lo spirito di integrazione nella memoria ufficiale della resistenza. La memoria antipartigiana iniziò a prevalere durante il periodo dei governi centristi, e nell’acceso clima anticomunista degli anni ’50 si scagliò contro la retorica resistenziale portata avanti dagli stessi familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine. In questo capitolo ci occuperemo della ricostruzione delle menzogne e dei falsi storici che hanno caratterizzato il discorso su via Rasella. Nelle sue memorie di guerra scritte dopo l’atto di clemenza da parte della giustizia inglese, l’ex feldmaresciallo Kesselring così si esprimeva riguardo la connivenza del Vaticano con le truppe d’occupazione tedesche circa le misure preventive nella controguerriglia partigiana a Roma: […] sorveglianza della polizia sui nuclei in formazione e più tardi sulle organizzazioni illegali; pacificazione nel campo politico mediante una opportuna propaganda, con l’appoggio di quasi tutti gli alti dignitari ecclesiastici italiani e dello stesso Vaticano, dei dirigenti politici, degli alti funzionari e di altre personalità influenti . La collaborazione tra Vaticano e vertici del Comando tedesco in Italia era già stata posta in essere dai negoziati che la chiesa aveva intavolato con le truppe occupanti la città di Roma: l’intervento diplomatico di papa Pacelli infatti era destinato a consentire al momento della ritirata tedesca un ordinato passaggio di poteri militari fra i nazisti e gli alleati, con l’esclusione del CLN che avrebbe potuto metter a rischio questi piani scatenando una insurrezione. L’ostilità del papa, mai del tutto celata, verso gli atti di guerra partigiani esplose con particolare veemenza in occasione della notizia dell’attentato di via Rasella, giunto in un momento particolarmente delicato per la diplomazia vaticana impegnata a trattare la resa di Roma: negli ambienti vaticani infatti era forte il timore per la possibilità di una insurrezione nella città, che le forze della resistenza si aspettavano fin dal gennaio del ’44 in occasione dello sbarco alleato di Anzio. Il 24 marzo mentre nelle cave di pozzolana sulla via Ardeatina le SS di Kappler conducevano al massacro 335 innocenti, quale rappresaglia per l’attentato di via Rasella, l’organo ufficiale della Santa Sede pubblicava una nota cautamente allusiva ai fatti del 23 marzo esprimendo una forte indignazione per l’attacco partigiano al battaglione Bozen: la dichiarazione ammoniva la «retta coscienza della popolazione romana», animata da spirito di sacrificio, ad «astenersi da ogni atto di violenza […] contro ogni atto inconsulto che non avrebbe altro risultato che finire a danno di tanti innocenti, già troppo provati da angosce e privazioni». La nota era diretta ad avvertire la popolazione ad astenersi da qualsiasi atteggiamento che avrebbe potuto essere «motivo di reazioni, dando luogo ad una indefinibile serie di dolorose contese»] e invitava a pacificare gli animi e a confortare le coscienze in attesa di tempi migliori. Il 26 marzo il quotidiano ebbe modo di sollecitare ulteriormente l’attenzione dell’opinione pubblica esprimendo una dura condanna delle azioni armate della resistenza pubblicando un attento commento al comunicato Stefani riguardo i fatti del 23 marzo […] Di fronte a simili fatti ogni animo rimane profondamente addolorato in nome dell’umanità, e dei sentimenti cristiani. Trentadue vittime da una parte; trecentoventi persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti all’arresto, dall’altra. Ieri rivolgemmo un accorato appello alla serenità e alla calma: oggi ripetiamo lo stesso invito con più ardente affetto, con più commossa insistenza. Al di fuori, al di sopra delle contese, mossi soltanto da carità cristiana, da amor di patria, da equità verso tutti i fatti a sembianza d’uno solo e i figli di un solo riscatto; aborrendo dall’odio ovunque nutrito, dal sangue ovunque sparso; consci dello stato d’animo della cittadinanza, persuasi del fatto che non si può, non si deve spingere alla disperazione[…] invochiamo dagli irresponsabili il rispetto per la vita umana che non hanno il diritto di sacrificare mai, il rispetto dell’innocenza che ne resta fatalmente vittima. Le parole dell’organo vaticano nella loro evasività erano certamente dirette contro qualsiasi atto di violenza che intervenisse a vanificare gli sforzi del papa Pio XII per evitare che la città santa divenisse teatro delle azioni belliche: egli infatti immediatamente dopo i bombardamenti sulla capitale aveva «raccomandato la calma alla popolazione romana poiché si era impegnato personalmente a mantenere la capitale smilitarizzata» Tuttavia il messaggio del quotidiano cattolico avrebbe innescato una polemica infinita perché responsabile di aver creato nella collettività un senso di sospetto e di condanna contro le azioni armate messe in atto dai GAP, in un tentativo di colpevolizzare le forze della resistenza comunista. L’articolo dell’organo vaticano fu un efficace mezzo di propaganda antipartigiano indirizzato a formare nell’opinione pubblica un senso comune di ostilità e di opposizione agli attacchi della resistenza contro le truppe d’occupazione: […] nei corpi delle vittime erano appena cessati gli ultimi spasimi che la Chiesa universale, prima della fine del giorno, aveva pubblicamente dichiarato colpevoli non già i tedeschi ma i partigiani di via Rasella. Il linguaggio del testo vaticano implicava che i colpevoli non solo erano responsabili delle 32 vittime, ma in qualche modo essi e non i tedeschi erano fondamentalmente responsabili di quelle 320 vittime che erano state sacrificate per i colpevoli sfuggiti all’arresto. Dunque fu l’«Osservatore Romano» ad inaugurare nella memoria collettiva del paese la definizione dei partigiani colpevoli del sacrificio di 335 persone per non essersi presentati, formula che sarebbe stata ben accolta successivamente dagli ambienti moderati della politica italiana per colpevolizzare tutta la resistenza comunista. Presentando i tedeschi come le «vittime» e i 335 come «persone sacrificate» l’organo vaticano costruì una falsa memoria dei fatti il cui postulato fondamentale divenne il falso storico dell’invito tedesco ai partigiani a consegnarsi ai tedeschi, pena la rappresaglia. Secondo Rosario Bentivegna il Vaticano fu responsabile della nascita della memoria antipartigiana nella popolazione perché la propaganda inaugurata il 26 marzo fu riutilizzata durante la campagna elettorale del 1948] per sconfiggere le sinistre e trovò un ampio radicamento in una disinformazione sui fatti di via Rasella, voluta dalle stesse istituzioni]. Difatti nel ’47 –’48, all’indomani della frattura politica tra i partiti della coalizione antifascista, i partiti di destra iniziarono a servirsi anche di alcuni falsi storici che avrebbero dovuto orientare l’opinione pubblica del paese a criticare fortemente il PCI e di conseguenza la resistenza comunista, tanto che i falsi della propaganda nemica e le ambigue equidistanze del Vaticano furono raccolte da settori politici, certo non fascisti, che vedevano la Resistenza non tanto come un momento di lotta e di riscatto del popolo italiano ma come un periodo più o meno comodo di attesa dell’arrivo delle truppe alleate che avrebbero restituito loro potere e onori. E c’è da aggiungere la preoccupazione di quanti temevano da parte delle masse la presa di coscienza di una forza militare e politica che avrebbe potuto cambiare effettivamente le cose. Tutto ciò nonostante fosse ben nota negli ambienti vaticani la verità e cioè che il Comando tedesco di Roma non aveva esposto nessun bando che invitasse i partigiani a presentarsi, non ci fosse stata nessuna chiamata per avvisare la popolazione dell’intenzione di compiere la strage, nessun comunicato dell’EIAR, giacché la reale intenzione dei mandanti e degli esecutori dell’eccidio non era quella di ricercare i colpevoli attraverso delle indagini e solo dopo non averli trovati proceder alle misure di rappresaglia, comunque non nella assurda e criminale proporzione di 10 italiani per ogni tedesco, ma quella di punire una città ostile che con l’azione di via Rasella aveva dimostrato in maniera inconfondibile il suo odio nei confronti delle truppe tedesche[30]. D’altra parte fu lo stesso Kappler, nel processo che lo vide imputato per il «reato di concorso in violenza con omicidio continuato e aggravato»,]ad affermare che la rapidità [nell’eccidio] era essenziale per due motivi: l’ordine del Führer[…] esecuzioni entro 24 ore. Più importante però era il timore che, se la cittadinanza di Roma avesse appreso che un eccidio stava per essere perpetrato nel suo territorio, nessuno avrebbe potuto prevedere l’intensità delle sue reazioni. I partigiani avrebbero potuto organizzare un attacco fulmineo. L’intera città avrebbe potuto insorgere. Per ragioni di sicurezza, le esecuzioni dovevano essere tenute segrete finché non fossero state portate a termine. La vulgata antiresistenziale inaugurata dall’organo della Sante Sede si valse di un linguaggio martirologico, definendo i 32 altoatesini «vittime» e i 335 «persone sacrificate». Da quel momento la «metafora del sacrificio avrebbe dominato la voce della memoria»] riprendendo un elemento caro alla tradizione cristiana, il martirio come mezzo per espiare delle colpe: il sacrificio per la libertà e la rinascita della Patria sarebbe stato sublimato dalla messa a confronto con il sacrificio del Cristo per l’espiazione dei peccati dell’umanità e il monumento delle Ardeatine, luogo del martirio, sarebbe divenuto meta di pellegrinaggio, quasi fosse una chiesa consacrata. Il 25 marzo 1953 in un solenne discorso pronunciato davanti al sacrario del mausoleo, Severino Brigante, Presidente onorario della Corte di Cassazione, esaltò le Ardeatine come luogo di martirio in cui «vi era simboleggiata una lunga serie di sacrifici imposti alla nazione italiana dall’ultima guerra e dall’occupazione straniera». Le Fosse Ardeatine sarebbero per sempre rimaste un luogo sacro nella memoria collettiva, pur senza divenire un luogo di unità nazionale, giacché lì si raccoglievano «i resti delle povere vittime innocenti e i romani erano obbligati ad andarvi in pellegrinaggio così come si va ad un santuario» Nella migliore tradizione religiosa cristiana il pellegrinaggio di tutta la nazione sui luoghi del martirio avrebbe onorato le vittime della barbarie nazifascista e avrebbe permesso al popolo italiano di «esprimere in maniera ferma e dignitosa una preghiera per l’unità del vincolo unitario nazionale». Dunque in nome della nobiltà del sacrificio la propaganda vaticana volle attirare la vicenda delle Ardeatine nella sfera del sacro, togliendo all’eccidio l’aspetto truce di una orrenda carneficina perpetrata a danno di civili per nulla passibili della pena di morte da parte delle truppe occupanti, impegnate a reprimere le azioni di guerra partigiana con stragi indiscriminate contro la popolazione civile. Nel linguaggio de l’ «Osservatore Romano» i 335 caduti alle Ardeatine divennero le vittime sacrificate dai tedeschi per ovviare ad un atto criminoso, quello di via Rasella e per espiare la colpa dei partigiani gappisti, colpevoli di essere sfuggiti all’arresto e di aver sconvolto l’ordine di una città sotto occupazione militare che si sarebbe arresa senza scossoni di fronte all’arrivo degli alleati. La figura della vittima innocente che paga le colpe degli altri servì per allontanare l’attenzione dell’opinione pubblica dai veri responsabili della strage, dai tedeschi, dai carnefici. Una sacralità cristiana del resto del tutto estranea ai familiari delle vittime di religione ebraica per i quali il monumento sacro delle Ardeatine non è che un elemento per dare una immagine simbolica della liberazione, l’immagine di un paese unito dalla volontà di cacciare l’invasore e di liberarsi anche attraverso l’estremo sacrificio. Ma l’ultimo fratello Di Consiglio che aveva 12 anni non fu consapevole di compiere un atto di liberazione con la sua morte, non scelse di sacrificarsi, fu preso dal carcere di Regina Coeli, portato su un camion e trucidato alle Fosse Ardeatine. L’aspetto di una dimensione sacrificale nella lotta partigiana fu quanto di più errato il senso comune antiresistenziale avesse potuto creare: il culto del sacrificio, del martirio, dell’olocausto fu un espediente retorico trionfalistico della nuova religione civile antifascista, che trovò nelle Ardeatine il luogo in cui celebrare la rinascita nazionale, ma che non appartenne mai all’universo semantico, culturale ed etico della resistenza, estranea al culto della bella morte. La figura del martire sacrificatosi per l’espiazione di una colpa e quello della vittima innocente che induce alla riflessione sulla inutilità di una strage tanto feroce, furono espedienti usati per cancellare dalla memoria collettiva la responsabilità dei carnefici, ovvero dei tedeschi mandanti e autori della strage che nel dopoguerra si sarebbero serviti dei canali diplomatici del Vaticano e dei servizi segreti americani per fuggire alla giustizia. Dunque la nascita della vulgata antiresistenziale nelle parole de l’«Osservatore Romano» impone anche una precisa considerazione sulle colpe e i silenzi di papa Pio XII riguardo i tanti crimini di guerra commessi dai nazisti in Europa. Pur non volendo entrare nel merito delle presunte responsabilità di papa Pacelli riguardo il silenzio sulla notizia che informava il Vaticano dell’intenzione dei tedeschi di compiere una terribile rappresaglia nella città santa di Roma,]bisogna pur dire che il linguaggio di condanna adottato dal quotidiano cattolico lasciava trasparire una certa dote di informazioni negli ambienti vaticani su ciò che stava per accadere: non si spiegherebbe altrimenti come fosse possibile da parte del quotidiano vaticano alludere già il 24 marzo a probabili reazioni violente contro la popolazione da parte delle truppe tedesche per l’attentato di via Rasella. Le colpe e i silenzi di Pio XII riguardo la strage delle Ardeatine portarono il famoso giornalista Robert Katz a subire nel 1975 un processo per diffamazione in base alle accuse della nipote di papa Pacelli, Elena Rossignani. La suggestiva tesi dello storico americano infatti accusava Pio XII di non aver fatto il possibile per evitare la strage, pur essendo in suo potere data l’autorità del Vaticano ed essendo il governo di Mussolini completamente in mano ai tedeschi, nonostante fosse stato informato da padre Pancrazio Pfeiffer dell’intenzione di effettuare nella città di Roma una rappresaglia di 10 italiani per ogni tedesco ucciso. Secondo Katz con la strage delle Ardeatine il prestigio del papa veniva messo per sempre in discussione dato che la chiesa di Roma «non poteva subire un oltraggio più grave di questo crimine tedesco»[42]. Da quel giorno la figura di Pacelli non avrebbe potuto più essere attorniata da unaurea di santità a causa di un silenzio tanto grave, un silenzio che condannava al massacro 335 cittadini italiani innocenti che «non erano ebrei di un lontano paese, o bolscevichi, o soldati armati ma[…] innocenti figli della Santa Sede». In realtà secondo le fonti ufficiali vaticane risulta che il papa venne a sapere della strage solo il 25 marzo da monsignor Nasalli Rocca di Corneliano, divenuto poi cardinale di santa romana chiesa. Il Nasalli Rocca era infatti il confessore dei detenuti di Regina Coeli e ricevette la notizia della rappresaglia solo verso le ore 23 del 24 marzo da un agente di custodia del carcere. Il monsignore informò il papa il mattino seguente dei racconti che aveva udito nel carcere dagli stessi detenuti sulla strage, senza poter rivelare però il nome del luogo del massacro che fu reso noto al papa il 3 aprile da una segnalazione di don Michele Valentini. Tuttavia resta il mistero sulla possibilità per l’«Osservatore Romano» di pubblicare un ambiguo ammonimento alla popolazione circa i rischi di una reazione tedesca per i fatti di via Rasella, il 24 marzo, visto che secondo la testimonianza di Valentini la notizia arrivò al papa solo la mattina del 25. Del resto gli unici documenti vaticani ufficiali di quel periodo messi a disposizione degli storici, in attesa dell’apertura degli archivi relativi al periodo della seconda guerra mondiale[46], attestano che negli ambienti vaticani la mattina del 24 marzo già circolavano voci circa una possibile rappresaglia tedesca. La prova di queste considerazioni sarebbe un documento degli archivi vaticani, venuti fuori nel giugno del 1980, con il timbro della Segreteria di Stato datato 24 marzo 1944 in cui un fantomatico ingegner Ferraro, del governatorato di Roma, dava precise informazioni sulle intenzioni del Comando tedesco di Roma: «il numero delle vittime tedesche è di 26 militari[…] finora sono sconosciute le contromisure: si prevede però che per ogni tedesco ucciso saranno passati per le armi 10 italiani». Secondo il documento registrato alle 10:15 del 24 marzo risulterebbe che già 5 ore prima l’inizio della strage delle Ardeatine, qualcuno avesse informato il Vaticano di ciò che stava per accadere. In conclusione si può affermare che il commento vaticano ai fatti del 23 marzo piacque alle gerarchie militari e politiche naziste tanto che una copia del giornale inviata da Kappler al comando di Verona, per il generale delle SS Wolff, fu spedita a Berlino, al quartier generale di Hitler con una nota in cui si pregava di informare il Führer che «la rappresaglia di Roma aveva incontrato l’approvazione non solo dei benpensanti romani ma anche delle gerarchie vaticane». Il doloroso capitolo delle Fosse Ardeatine e la presunta responsabilità del papa riguardo i silenzi sulla notizia della rappresaglia si aggiungono alla questione più volte affrontata dagli storici delle simpatie di Pio XII per il nazismo e della copertura offerta dalla chiesa cattolica ai criminali di guerra ricercati dalla United Nation War Crimes Commission. A tutto ciò si aggiungono le conclusioni della commissione mista formata da storici ebrei e cattolici, nata nel marzo 1999 in seguito alle polemiche sul rifiuto del Vaticano di aprire gli archivi del periodo relativo alla seconda guerra mondiale. La commissione portò alla luce molti interrogativi sul comportamento di Pio XII riguardo la Shoah e sulle sue scelte politiche;[50] l’analisi dei dodici volumi pubblicati dal Vaticano infatti ha rivelato l’esistenza di molte lettere di vescovi e ambasciatori indirizzate al papa che con tono allarmante informavano il pontefice di ciò che avveniva nell’Europa occupata dai nazisti. La ricerca ha rilevato che non ci fu nessuna reazione vaticana nella Notte dei cristalli del 1938, quando i nazisti bruciarono sinagoghe e devastarono negozi ebrei; nell’agosto del 1941 il maresciallo Peten informò il Vaticano delle misure antisemite prese dal suo governo e ricevette in risposta che non c’erano obiezioni a patto che fossero «amministrate con giustizia e carità»; nell’agosto del 1942 il vescovo greco cattolico di Leopoli Andrea Szeptyckyi informò il Vaticano delle atrocità naziste ai danni degli ebrei ucraini ma non risulta nessuna risposta negli atti della Santa Sede; […] nel 1941 e nel 1943 Pio XII ricevette il leader fascista croato Ante Pavelic nonostante fosse stato informato dei massacri del regime ustascia contro serbi ortodossi, ebrei e zingari; il cappellano italiano Pietro Scavizzi si recò quattro volte in udienza da Pio XII per informarlo dello sterminio di due milioni di ebrei ma negli atti della Santa Sede sono menzionate solo due udienze. Le ragioni di questo comportamento andrebbero rintracciate, secondo lo storico Bernard Suchecky, in una visione della storia di Pio XII orientata verso un «comunismo da eliminare, un nazismo considerato un prova passeggera, in attesa di un ritorno ad una Germania conservatrice forte e disciplinata in seno ad una coalizione mondiale contro il bolscevismo». Continua...
Posted on: Thu, 17 Oct 2013 14:38:36 +0000

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